Anche il petrolio va in crisi
Nel gennaio scorso la società svedese Lundin Petroleum ha annunciato la sospensione delle operazioni in Sudan, rilasciando un comunicato in cui si dice testualmente: "Questa decisione non altera i piani di lungo termine della società volti a sviluppare lo sfruttamento del giacimento di Thar Jath e in seguito intervenire sul bacino meridionale di Muglad. Prospezione sismica e perforazione riprenderanno non appena le condizioni lo permetteranno." Ma, nessuno sa quando.
Non si sa neanche chi o che cosa abbia influito sulla decisione della Lundin di sospendere per la seconda volta in due anni le operazioni: se, le campagne sui diritti umani, la chiesa o le pressioni delle ONG che, tutti assieme, chiedono non si estragga più petrolio finché non si è raggiunta la pace, oppure i ribelli del sud che hanno dichiarato le installazioni petrolifere legittimi obiettivi delle loro operazioni militari. Comunque sia, la sospensione dell’attività della Lundin, non solo sta a confermare che in Sudan petrolio e guerra sono due cose strettamente interrelate, ma potrebbe anche essere il segnale del profilarsi di grandi cambiamenti suscettibili di sconvolgere i piani dell’industria petrolifera del paese.
La Lundin ha lasciato il Sudan per la prima volta nel maggio 2000, quando i ribelli attaccarono vicino al Nilo il pozzo di Thar Jath in perforazione, uccidendo tre funzionari governativi. Le operazioni non ripresero che a marzo 2001, dopo che, a detta dei cooperanti delle ONG umanitarie, le milizie ausiliarie governative avevano attaccato, messo a ferro e fuoco la zona, provocando lo sfollamento di migliaia di persone residenti nell’area. Ma, al momento di andarsene, sempre secondo i cooperanti, la Lundin non aveva solamente problemi di sicurezza sul pozzo, ma anche nella costruzione di una strada che doveva collegarlo a Rubkona, una località vicina a Bentiu, il capoluogo petrolifero della zona. Le ONG che lavorano da quelle parti sostengono, infine, che la società ha utilizzato l’attacco subìto come una scusa per ritirarsi e lasciare libero il campo alle truppe e alla loro azione di ripulisti dell’area, eliminando i sospetti ribelli e i loro simpatizzanti civili fra la popolazione.
L’ingresso della Lundin in Sudan è avvenuto il 6 febbraio 1997 quando una sua sussidiaria, l’ International Petroleum Company (IPC) Lundin Sudan Ltd., firmò un accordo col governo sudanese per lo sfruttamento del Blocco 5a vicino a Bentiu. Si diceva che il Blocco, dell’estensione di circa 30.000 kilometri quadrati, avesse un potenziale di 300 milioni di barili di petrolio, definito dai tecnici Lundin, di eccellente qualità. Quando la perforazione ebbe inizio venne comunicato che il Thar Jath 1, così come veniva definito, aveva raggiunto una produttività stimata di 4.260 barili al giorno. A maggio 2001 la società e i suoi partners siglarono un accordo col governo di Khartoum che gli voleva assegnare anche il Blocco 5b, situato a sud est del 5° e della dimensione di circa 20.000 chilometri quadrati.
Sta di fatto che ben presto dopo l’avvio dei lavori di sfruttamento nei due Blocchi decine di migliaia di persone si trovarono allontanate con la forza dalle loro case e dalle loro terre ancestrali per l’imperversare degli scontri armati fra le fazioni in guerra. Questa povera gente vive ora sfollata in varie parti della vicina e sconfinata regione del Bahr El Ghazal e di costoro il vescovo Cesare Mazzolari, titolare della diocesi cattolica di Rumbek, dice: "Nella mia diocesi ci sono diverse migliaia di fuggitivi arrivati da quella regione. Sfido qualsiasi osservatore indipendente a visitare le zone sotto la mia giurisdizione, Yirol, Marial Lou e Rumbek stessa e poter contraddire quanto affermo."
Secondo la giornalista inglese Julie Flint, che si è occupata di Sudan per anni, chiunque desideri scoprire i legami esistenti fra sfruttamento petrolifero e abuso dei diritti umani, basta che badi alle terribili devastazioni inferte dalla guerra, dall’inizio del ’99, sulla popolazione civile a suo tempo insediata vicino ai due Blocchi. Le organizzazioni che difendono i diritti umani affermano che la costruzione della strada asfaltata di servizio lunga 75 chilometri, presupposto dello sfruttamento dell’area, ha scatenato violenze ed abusi, fra i peggiori mai visti, legati al petrolio. In questa tragica occasione si sono viste forze governative e milizie attaccare, uccidere, violentare e mutilare civili residenti nei pressi del cantiere della strada.
Un rapporto pubblicato l’anno scorso da Christian Aid informa che, vicino alla strada, non è rimasta in piedi neanche una capanna e si possono vedere solo piccole cittadelle fortificate che ospitano la guarnigione militare che presidia la zona. Il rapporto dice anche che la strada è costata la bellezza di 400.000 dollari al kilometro, mentre l’ex governatore dell’Unity State, Taban Deng Gai, informa che la Lundin si è pagata perfino una pista di atterraggio a Rubkona, dove ha sede la 15esima Divisione dell’esercito. Secondo Gai i bombardieri governativi utilizzano tuttora questa pista. I funzionari della Lundin respingono queste accuse, ma, resta il fatto che la decisione della società di interrompere il lavoro è vista dagli osservatori come un forte segnale di mancanza di fiducia nella capacità dell’esercito sudanese di garantire la sicurezza. Mettendola in un altro modo, dimostra che l’aumento considerevole del budget militare di Khartoum, volato da 165 milioni di dollari nel ’98 ai 327 dell’anno scorso, non significa garanzia di vittoria o sicurezza.
La Lundin ha affermato di lasciare a causa della cronica insicurezza intorno ai campi petroliferi della regione dell’Alto Nilo Occidentale, l’epicentro della nascente, ma quanto mai fragile industria petrolifera del paese. Un’affermazione completamente in contrasto con quella fatta un anno fa da Magnus Nordin, suo responsabile delle relazioni con gli azionisti, quando dichiarò: "...La società non ha rilevato, direttamente, alcuna sorta di conflitto nell’area in cui opera." Notizie non confermate, viceversa, indicano che alcuni giorni prima dell’abbandono della Lundin forze ribelli avevano abbattuto uno dei suoi elicotteri nella zona di Leer, all’interno del Blocco 5, ferendo il personale a bordo che era stato immediatamente trasferito in un ospedale sudafricano.
Se ci si basa sulle dichiarazioni dei dirigenti della società, la Lundin non tornerà presto e, in ogni caso, non prima che Khartoum sarà riuscita ad assicurare in qualche maniera la sicurezza delle aree operative. Il presidente della società, Ian Lundin, ha dichiarato il 30 gennaio scorso: "Rimaniamo in attesa e riprenderemo il lavoro se e quando sarà raggiunto un cessate il fuoco o un accordo di pace nella nostra area di operazioni. Abbiamo fiducia che la regione beneficerà presto delle iniziative che si stanno portando avanti per ottenere una pace estesa a tutta l’area." Il direttore finanziario, Ashley Heppenstal, da parte sua, ha aggiunto: "Naturalmente, contiamo sul fatto che le operazioni sudanesi riprendano al più presto perché riteniamo che la loro potenzialità sia davvero molto elevata."
La Lundin ha espresso il desiderio, poco probabile che s’avveri, che il cessate il fuoco firmato in Svizzera il 19 gennaio dal governo di Khartoum e i guerriglieri dell’SPLA riguardo le montagne Nuba sia esteso al sud, in modo da consentire una rapida ripresa dell’attività. Le montagne Nuba si trovano nella provincia del Kordofan meridionale che confina a sud con l’Alto Nilo Occidentale. Gli osservatori fanno notare che il regime di Khartoum, pur sotto pressione per ricavare una zona di sicurezza nell’area petrolifera, terrà un profilo basso, sapendo di essere sotto osservazione da parte della comunità internazionale. Oggi, una tregua sarebbe vista dal partito della linea dura come fosse estorta, provocandone un’indignata reazione, mentre i critici del regime la vedrebbero come una rinuncia alle ostilità, in nome dei 500 milioni di dollari portati annualmente alle casse dello Stato dalle esportazione petrolifere. Ancora non si sa se altre compagnie petrolifere seguiranno la Lundin, ma, in ogni modo, esistono pochi dubbi sul fatto che la produzione giornaliera, oggi di 200.000 barili, subirà una flessione.
Se Khartoum non può venire a compromesso coi ribelli, l’altra possibilità è quella di intensificare lo sforzo militare, non solo nell’area di concessione della Lundin, ma in tutto l’Alto Nilo Occidentale. In questo caso lo scopo sarebbe quello di liberarsi una volta per tutte delle forze ribelli presenti nell’area. E questa è l’opzione che con ogni probabilità verrà scelta, dal momento che non si prevede possano aver luogo serie negoziazioni su un cessate il fuoco nell’area da parte dei contendenti. Per l’SPLA e gli altri avversari delle compagnie petrolifere la chiusura dei campi costituisce una vittoria importante e significativa. Costoro sostengono da qualche tempo che è una malvagità continuare a sfruttare i pozzi durante questa guerra, aggiungendo che Khartoum usa una buona parte del ricavato delle vendite di petrolio proprio per finanziarla.
Intanto le compagnie petrolifere si difendono, sostenendo a gran voce che la loro presenza fa sicuramente più bene che male a quelle regioni dove operano, grazie agli investimenti strutturali che vi profondono. Alcune società come la Lundin hanno perfino messo mano a progetti di sviluppo comunitari per migliorare le strade locali, la disponibilità d’acqua, la sanità di base e l’istruzione. La giornalista Flint ha, però, drasticamente stroncato queste iniziative, affermando: "E’ assurdo e disonesto parlare di progetti di sviluppo con una scuola qua ed una clinica là, quando si è creato un ambiente fondamentalmente ostile per la gente del Sud. Nei villaggi la gente può venire cacciata dalle case bruciate, nelle città le mogli possono venir violentate, le figlie iscritte con la forza alle scuole coraniche e i figli coscritti nelle milizie islamiche."