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Tanzania

Le politiche agrarie che uccidono l'Africa

In Tanzania si sottrae la terra a piccole comunità indigene lasciandole senza mezzi e marginalizzate, per poi assegnarla a investitori stranieri la cui credibilità lascia spesso parecchi dubbi.
Zephaniah Musendo

Per un paese come la Tanzania, la cui economia dipende principalmente dall’agricoltura, la terra è la più importante fonte di ricchezza, la base dell’esistenza stessa della gente ed il nucleo intorno al quale ruotano le abitudini, la cultura e le tradizioni di buona parte della popolazione. Deus Kibamba, funzionario dell’Istituto di Ricerca Agraria, Diritti e Risorse di Dar Es Salaam, afferma che, in ogni modo, nello sforzo di costruzione e crescita della democrazia nazionale, la terra dovrebbe costituire il riferimento fondamentale di tutti i cittadini del paese

L’attuale sistema, grazie al quale il controllo della terra è d’esclusivo appannaggio degli organi dello Stato, è parzialmente responsabile dell’impossibilità di fatto di possedere una qualsiasi proprietà fondiaria da parte di milioni di contadini, comunità pastorali e abitanti delle città tanzaniane. La stampa ha riportato recentemente il pensiero del professor Issa Shivji dell’Università di Dar Es Salaam, secondo il quale l’attuale sistema fondiario del paese non è di fatto rivolto a beneficiare la popolazione in quanto riflette una politica agraria governativa che non è finalizzata a conferirle potere.

L’indirizzo politico e la visione ufficiale stabiliscono che la terra è un bene comune di tutti e non possiede quindi intrinseco valore economico. Si tratta di un’impostazione e di una scelta politica che ha esonerato i governi sia coloniali che post indipendenza dall’obbligo di compensare coloro che sono privati della terra, con la giustificazione che ciò veniva e viene fatto semplicemente nel “pubblico interesse”. Ma, ci sono esempi che dimostrano eloquentemente che il cosiddetto interesse nazionale, quando si tratta di terra ricca di risorse naturali, si trasforma in molti casi, disinvoltamente, in interesse privato, naturalmente a spese della comunità intera.

Gli Hadzabe, che abitano il territorio circostante il lago Eyasi dalle parti di Arusha, nelle provincie di Shinyanga e Singida, sono prevalentemente dei cacciatori e raccoglitori di prodotti agricoli la cui sussistenza dipende sostanzialmente dalla fauna selvatica e dai prodotti agroforestali.Nel giugno del ‘95 la stampa locale ha fatto sapere che questa comunità era sul punto di estinguersi a causa del diritto negato loro dalle autorità di possedere ed utilizzare i terreni del territorio che occupavano. Il governo li aveva, infatti, sfollati, garantendo una licenza di caccia alla Tanzania Game Trackers, una società di proprietà di Robin Hurt, un inglese del Kenya, con una ventina di riserve di caccia in varie parti del paese.

Gli Hadzabe, infatti, furono costretti a spostarsi dal loro territorio, lasciando le proprie terre a disposizione dei cacciatori professionisti. Sulla base del Wildlife Conservation Act, legge sulla conservazione della fauna selvatica del ’74, gli Hadzabe, così come qualsiasi altro, avrebbero potuto cacciare solo ottenendo un permesso di caccia e ricevendo una quota assegnata di selvaggina. In queste condizioni, di fronte ad un costo di licenza di 7.500 US§ l’anno da corrispondersi al governo, (cifra che mai avrebbero potuto racimolare) l’intera comunità degli Hadzabe veniva ad essere spietatamente sacrificata.

Altro caso. Il cratere di Ngorongoro ospita da sempre i Masai, così come i Tatoga e gli Hadzabe stessi. Quando, nel ’59, entrò in vigore la Ngorongoro Conservation Area Ordinance, i Masai, che erano stati spostati nel cratere dal Parco Nazionale di Serengeti una decina d’anni dopo la sua costituzione, nel 1940, cominciarono ad entrare in conflitto con le autorità della riserva. Infatti, mentre agli indigeni non era assolutamente consentito dedicarsi all’attività agricola e ai coltivi, i regolamenti davano all’Ente Parco (Ngorongoro Conservation Area Authority) il mandato di costruire strade, ponti, aeroporti, edifici, recinzioni e compiere ogni tipo di lavoro che fosse ritenuto necessario dal Consiglio di Amministrazione ai fini dello sviluppo o della conservazione.

Dagli anni ’80 in poi, la confisca e l’assegnazione di terreni dei villaggi a ricchi e potenti della zona da parte di funzionari governativi è diventata la norma. Questi usurpatori di terre si sono sempre mossi, sia con lo scopo di crearsi ricchezza ed un futuro migliore, sia per semplicemente speculare e non certo per investire seriamente e portare sviluppo. Per esempio, l’assegnazione in affitto, avvenuta sotto banco da parte del governo nel ‘92 di più di 4.000 chilometri quadrati della riserva di caccia di Loliondo (Arusha) ad uno sceicco arabo cacciatore, il brigadiere Mohamed Abdul Rahim al-Ally degli Emirati, attraverso una società di caccia kenyota, nascondeva con ogni probabilità fortissimi interessi locali. Il risultato fu che ben 25 villaggi Masai vennero in qualche modo seriamente danneggiati dall’iniziativa delle autorità. Ai tempi si verificò una forte reazione dell’opinione pubblica contro tale atto del governo, obbligandolo a cercare di difenderne, invano, la legittimità.

Ancora, nel ’94, il governo ha cercato di offrire ad un investitore straniero 381.000 acri di terra nei distretti di Monduli e Kiteto (Arusha). Beneficiario, il signor Hermanus Philip Steyn, che era stato dichiarato “ persona non grata “ nell’83. Nel frattempo però, la terra, fonte primaria di sopravvivenza, era stata tolta a poveri pastori e a varie comunità della zona. Non era neanche pensabile che ci si potesse permettere di offrire un territorio del genere ad un investitore straniero, in quanto gran parte di questa zona figurava sotto il controllo e la protezione del Wildlife Department. Il governo aveva informato l’investitore, ad onor del vero, che doveva rispettare il Wildlife Conservation Act, ma era noto che avrebbe in ogni modo potuto cacciare tutti gli animali che voleva, all’interno dei confini della sconfinata riserva, con la scusa della protezione della vita e della proprietà.

Sta di fatto che ebbe luogo uno spostamento forzato dei Masai, con un impatto certamente negativo sulla loro difficile esistenza, dato che la riserva conteneva le migliore zone di pascolo ed il territorio circostante era già occupato dai Pare, popolazione dedita all’agricoltura. Il risultato fu che molti Masai dovettero spostarsi nel confinante Kenya, mentre quelli che rimasero si ridussero in condizioni miserevoli. Alcuni si spostarono nelle aree urbane per aggregarsi alla folta schiera dei guardiani Masai, in città come Dar Es Salaam.

Le nuove leggi sulla terra del ’99, diventate effettive lo scorso maggio, non hanno certamente aiutato la gente locale marginalizzata, eccetto le donne, alle quali possono ora venir riconosciuti alcuni diritti di proprietà. La natura monopolistica dello Stato, che attribuisce il potere ai governanti di impadronirsi della terra dei poveri e metterla all’asta senza compensazione, ha creato un’avida burocrazia interessata a mantenere lo status quo. Il governo difende la nuova legislazione, sostenendo che è finalizzata ad attrarre investitori stranieri nel settore agricolo ed in altre aree d’attività legate allo sviluppo della terra. Ma, comunque, alcuni legali affermano che questa legge contravviene all’articolo 24 (1) della Costituzione che garantisce il diritto alla proprietà privata e all’articolo 24 (2) che garantisce i cittadini nel caso di esproprio della loro proprietà.. Il nuovo quadro legislativo è in contrasto secondo questi anche con l’articolo 22 del Tanzania Investment Centre Act del ‘95 che impone un’adeguata e pronta compensazione nei casi di esproprio.

Coloro che hanno interessi nella questione fondiaria affermano invece che la legge sulla terra è il risultato della liberalizzazione in atto. Giustificandola anche col fatto che il governo cerca in tutti i modi di attrarre investitori stranieri e non può essere necessariamente disposto a tollerare che i suoi cittadini detengano delle proprietà, avendo la libertà assoluta di disporne a piacimento. Il signor Kibamba dell’Istituto di Ricerca citato sopra, sostiene, però, che qualsiasi capitale straniero attratto dalla terra ha di per se stesso, quasi per definizione, una connotazione essenzialmente speculativa, commerciale o predatoria. E’ interessato cioè allo sfruttamento di risorse ecologiche, come le biospecie, il legname d’essenze pregiate, i minerali, l’avifauna, i trofei di caccia grossa, la carne di selvaggina e così via. Tutti elementi che hanno effetti, sul medio e lungo periodo, assolutamente avversi e perniciosi per lo sviluppo del paese. Fa notare infine che l’autorità governativa dovrebbe riconoscere e proteggere in modo adeguato i diritti delle popolazioni locali, garantendo loro una ben radicata certezza del diritto, specialmente con rispetto alla proprietà della terra.

Il Gruppo d’Azione Legale Ambientalista (LEAT) ha analizzato e stigmatizzato gli abusi di diritti umani commessi da società minerarie straniere che, per esempio, hanno forzatamente sloggiato dei minatori artigianali. In una lettera al Presidente Benjamin Mkapa hanno fatto presente, in modo dettagliato, come le società hanno evitato di compensare in modo adeguato alcune delle vittime di queste operazioni, nei distretti di Kahama e Geita nella zona del lago Vittoria. A questo proposito è il caso di ricordare che i minatori artigiani hanno ricorso all’Alta Corte, che ha emesso un ordine di sospensione temporanea. Se, in genere, si permetterà in futuro che in Tanzania questo genere di cose possa continuare a verificarsi, concetti come la sicurezza alimentare e l’autosufficienza, per non parlare dello sviluppo, rimarranno inesorabilmente nel gran libro dei sogni.