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* Questo articolo riprende e sviluppa, sulla base dell’intervento
fatto dall’autore al convegno di Trieste e di una successiva
visita nella zona, alcuni passaggi del saggio pubblicato
nella Rivista "Testimonianze", n.406, Luglio-Agosto 1999
"Una Europa Unita". |
La
guerra nei Balcani ha distrutto non tanto le forze militari
serbe (secondo il ministro della difesa tedesco, in una dichiarazione
del 14 giugno, "il danno loro inflitto dai bombardamenti della
Nato è stato minimo"; e secondo il Times di Londra la Nato
ha distrutto solo 13 dei circa 300 carri armati dell’Esercito
Jugoslavo) ma la società civile serba, albanese ed anche quella
dei paesi occidentali.
La
distruzione non è stata solo materiale (migliaia di civili
uccisi, inquinamenti irreversibili che provocheranno danni
e morti anche alle generazioni future, quasi un milione di
deportati e profughi - prima albanesi del Kossovo, ora che
questi sono in gran parte ritornati al loro paese, Serbi e
Rom che scappano da questa regione -, strade, ponti, acquedotti
ed impianti per la produzione elettrica, industrie e abitazioni
private distrutte o bruciate, ecc...) ma anche psicologica.
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Il
cittadino comune, non solo di quei paesi distrutti dalla guerra
ma anche del mondo occidentale, si è visto trasformato in una pedina
che subisce ed alla fine spesso accetta - probabilmente anche a
causa dell’uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa e
della propaganda di tutte e due le parti - una guerra che doveva
durare pochi giorni e che è invece durata oltre tre mesi e che non
ha raggiunto gli obiettivi fondamentali per i quali si è detto di
averla iniziata, e cioé la protezione della società civile kossovara,
la cui pulizia etnica e la cui persecuzione è aumentata invece proprio
dopo l’inizio della guerra. Una guerra assurda, da tutte e due le
parti, che ha visto superare il conflitto armato con accordi che,
se si fossero realmente voluti e ricercati, avrebbero potuto essere
raggiunti anche prima, senza scatenarla. [1]
E’
vero che, dopo la guerra, la popolazione fuggita è potuta tornare
alle loro case, ma le hanno trovate in gran parte distrutte e saccheggiate,
e sono ancora impegnati a ricostruirle. E c’è ora la fuga degli
altri, di quelli che hanno partecipato alle persecuzioni ed alle
razzie, ma anche di coloro che, semplicemente perché parte dell’altro
gruppo etnico, sono considerati dei ladri o dei criminali.
Il singolo cittadino, e la società civile in genere, esce da questa
guerra più "alienato" di quanto fosse già prima, con un gran senso
di impotenza e cioé con la sensazione che a decidere le guerre sono
poteri più grandi di lui (economici, politici, strategici, ecc...)
e che la vera vittima della guerra è la stessa società civile e
la convivenza interetnica in tutti i paesi del mondo. La guerra
ha infatti spezzato gli ultimi fili del dialogo e polarizzato i
due gruppi nazionali, da una parte sulle posizioni di Milosevic
e degli ultra-nazionalisti serbi e dall’altra su quelle dello UCK
(l’esercito di liberazione del Kossovo). E questo rende difficile
ipotizzare un futuro di dialogo e di coesistenza. La guerra non
è certo il modo migliore per far convivere due popoli. Essa è al
più la premessa di una spartizione dei territori su base etnica,
come è successo in Bosnia e come sta accadendo anche nel Kossovo,
nella zona nord. Segno di ciò è la situazione di Mitrovica, divisa
in due con una zona al nord del fiume (che include anche i ricchi
giacimenti minerari di Trepca) che i serbi danno già per acquisita
alla Serbia (loro militari, in civile, sono già entrati nella zona
e con i paramilitari, che non sono mai andati vita, stanno espellendo
dall’area tutti gli albanesi). Ma l’operazione inversa sta avvenendo
invece nella zona sud del Kossovo dalla quale, invece, frangie dell’UCK
stanno espellendo la popolazione serba ed i Rom. E’ certo che le
premesse per una convivenza pacifica tra le due etnie sono state
estremamente ridotte dalla guerra, che ha incrementato notevolmente
gli odi reciproci, e che sarà necessario un grossissimo lavoro di
riflessione critica sul passato, di riapertura del dialogo e di
ricerca di forme di riconciliazione tra i due gruppi etnici perché
si possa pensare nuovamente ad una convivenza pacifica nello stesso
territorio, soprattutto quando si porrà il problema (quando?) della
partenza delle truppe internazionali. Una convivenza garantita dalla
presenza di truppe esterne sarebbe infatti estremamente falsa e
destinata a durare molto poco. Il dialogo può riprendere solo a
condizione che ci sia un reale processo di democratizzazione di
tutta l’area e che si proceda, attraverso un valido piano di sviluppo
economico, sociale e politico dell’area, al superamento dei singoli
stati ed alla creazione di una entità balcanica come sub-area dell'Europa
stessa.
In una entità del genere, se portata avanti non come imposizione
dall’esterno ma come maturazione interna delle varie nazionalità
dell’area, lo statuto finale del Kossovo assumerebbe un'importanza
relativa. Potrebbe essere un'autonomia internazionalmente concordata
e protetta, oppure un'indipendenza alla pari con le altre entità
statuali cui si leghi con rapporti confederali, ma l’elemento fondamentale
è quello che di questa entità facciano parte non solo la Serbia,
il Montenegro ed il Kossovo, ma anche l’Albania, la Macedonia e
forse anche la Bosnia ed altri paesi vicini. Il processo di parcellizzazione
dell'ex-Jugoslavia deve perciò finire per dare avvio ad un processo
opposto di riaggregazione, indispensabile non solo a livello politico,
ma soprattutto a quello economico. L’economia e lo sviluppo economico
trovano nelle frammentazioni statuali una limitazione ed un ostacolo,
mentre sono aiutate da un processo inverso di limitazione dei confini.
Ma tutto questo presuppone che l'Europa si affretti a diventare
un soggetto politico esso stesso e non si limiti ad una corsa per
la spartizione del mercato di quest’area, come avvenuto finora,
in concorrenza l’uno con l’altro.
La guerra, oltre a destabilizzare tutti i Balcani (la guerra ha
infatti aggravato la situazione dei rapporti tra Serbia e Montenegro
ed ha anche posto gravi problemi ai rapporti tra macedoni e albanesi
in Macedonia, con il rischio, in tutte e due le zone, di esplosione
di un conflitto armato), è servita a mandare a fondo la moneta europea
nei confronti del dollaro. Solo un'Unione Europea politica può superare
l’attuale unipolarismo statunitense che rischia di essere, per la
pace, ancora peggiore del vecchio bipolarismo Est/Ovest ormai ampiamente
affossato.
Nel lavoro di ricostruzione della convivenza, la teoria e la pratica
della nonviolenza possono essere molto utili. In questo possono
aiutare, da una parte, la concezione nonviolenta del superamento
delle forme statuali chiuse e la ricerca di forme il più possibile
aperte [2].
Dall’altra parte, la conoscenza meglio di altri, da parte delle
persone che fanno parte di questi gruppi, dell’importanza e delle
tecniche di educazione alla pace, alla convivenza tra i popoli ed
al superamento dei pregiudizi interetnici, persone che possono perciò
lavorare per diffondere queste competenze tra le varie popolazioni
della zona, per aiutarle a ristabilire un dialogo reciproco ed a
trovare forme di riconciliazione. Queste competenze esistono già
nella zona: si pensi alle lotte nonviolente portate avanti dalla
popolazione albanese del Kossovo per tanti anni [3],
od a quelle organizzate dall’opposizione serba contro la falsificazione
dei dati elettorali da parte del governo serbo [4],
ed al bellissimo movimento della riconciliazione nel Kossovo che
ha visto nel 1990, in pochi mesi, riconciliare oltre 1250 famiglie
legate tra loro da un patto di vendetta, superato grazie alla rivalorizzazione
dei principi del perdono e della riconciliazione che facevano parte
dello stesso codice [5].
La maggior parte di queste riconciliazioni sono avvenute tra appartenenti
dell'etnia albanese, ma un certo numero, quasi un centinaio, anche
con membri di altre etnie (serbi, macedoni, montenegrini). Ma la
guerra ha affievolito il ricordo di queste competenze, ha messo
in primo piano l’esercizio delle armi ed ha aumentato gli odi ed
i pregiudizi reciproci. Per questo è importante che nella zona non
vadano solo forze armate delle Nazioni Unite, ma anche persone esperte
in mediazione dei conflitti e nella pratica della nonviolenza, come,
per esempio, i Corpi Europei Civili di Pace, che Alex Langer aveva
promosso e che una raccomandazione del Parlamento Europeo, del febbraio
1999, suggerisce di organizzare [6].
In attesa della loro costituzione ufficiale, tali corpi possono
essere anticipati da persone facenti parte delle organizzazioni
che hanno lavorato in questi anni in questa area con questi stessi
fini (come, ad esempio, la Campagna per una Soluzione Nonviolenta
nel Kossovo, ora ridefinita come Campagna Kossovo per la Nonviolenza
e la Riconciliazione, oppure i Beati i Costruttori di Pace o i membri
dell’Operazione Colomba dell’Associazione Giovanni XXIII) e possono
portare avanti da subito un lavoro di questo tipo, che serva come
rinforzo alle capacità locali ora emarginate per farle ritornare
in primo piano, aiutandole anche a riorganizzarsi e potenziarsi
collegandosi a rete non solo all’interno dello stesso gruppo etnico
ma tra gruppi diversi (ad esempio tra gruppi nonviolenti serbi,
albanesi, macedoni, montenegrini, ecc.). Questo può permettere a
queste organizzazioni del luogo, una volta che abbiano ripreso le
loro attività e le abbiano viste anche potenziate grazie a questo
apporto esterno e si siano collegate a rete, di lavorare sugli interessi
comuni per la rinascita di queste zone e per un processo di riconciliazione
che non dimentichi le ingiustizie ed i crimini commessi in passato,
ma cerchi di superarli nello stesso modo in cui è stato portato
avanti il processo di riconciliazione, attraverso commissioni apposite,
in Sud Africa, dopo la fine dell’apartheid [7].
Per portare avanti un lavoro di questo tipo può essere utile il
progetto della costituzione di ambasciate di pace a Belgrado ed
a Pristina messo a punto, congiuntamente, dalla Campagna Kossovo
e dall'Associazione "Berretti Bianchi" [8].
L’idea della costituzione di Ambasciate di Pace in zone a rischio
era stata lanciata da alcuni pacifisti jugoslavi dopo una delle
varie iniziative in cui una carovana di pacifisti occidentali era
stata a visitare i vari paesi dell’area per appoggiare le forze
che in quella zona si opponevano alla guerra e cercavano forme nuove,
basate sul consenso e sul rispetto reciproco, per la convivenza
tra i diversi popoli che componevano quel paese. Dopo una di queste
marce apparve, su "Peace News", una lettera firmata da alcuni pacifisti
dei vari paesi che componevano l’ex-Jugoslavia. In essa si diceva,
in modo molto dolce, ma deciso, qualche cosa di simile: "Apprezziamo
la vostra buona volontà di appoggiare i nostri movimenti pacifisti
ma crediamo che dovreste studiare forme nuove di intervento. Voi
venite di solito da noi per una settimana o due. Durante questo
periodo siamo lieti di collaborare con voi e ci mettiamo in luce
come vostri amici. Ma quando ripartite, noi restiamo qui ed il fatto
di essere vostri amici ci mette molte volte in difficoltà e ci espone
alle angherie dei governi e della gente che è favorevole alla guerra.
Dovreste perciò studiare la possibilità, invece di venire in tanti
per pochi giorni, di venire anche in un piccolo gruppo restando
a vivere qui da noi a lungo in modo da poter comprendere meglio
le condizioni in cui viviamo e da darci una mano, alla pari, con
consigli, sostegni materiali o in altri modi da concordare insieme,
per raggiungere i nostri comuni obbiettivi di pace e di convivenza
tra i popoli". Da questa lettera e dall’esperienza acquisita con
il Campo della Pace realizzato nel 1990 a Bagdad, unitamente a ulteriori
riflessioni all’interno di quell’area che aveva dato vita all’iniziativa
irakena ed alla Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo,
nacque la prima idea dell’apertura di quella che è stata chiamata
l’Ambasciata di Pace di Pristina. Questa si richiama anche alle
esperienze di questo tipo fatte da comunità quacchere in vari paesi
in conflitto o dove il conflitto stava per iniziare, esperienze
che hanno portato queste comunità ad essere tra le più attive, ed
anche esperte, nella mediazione dei conflitti armati. La richiesta
di un appoggio a lungo termine si è ripetuta da parte della popolazione
albanese del Kossovo che stava lottando con la nonviolenza perché
gli venissero restituite le prerogative statuali dell’autonomia
di cui questa provincia-stato godeva sulla base della Costituzione
del 1974 e che gli sono state tolte, nel 1989, con la violenza (la
sede dell’assemblea al momento del voto era circondata da carri
armati) e con la frode [9].
Essa si lamentava che i governi occidentali capissero solo il linguaggio
delle armi e non quello della nonviolenza e chiedeva aiuto per superare
questo stato di cose e per essere aiutata nella sua lotta nonviolenta
per far comprendere le sue ragioni al mondo occidentale che sentiva
sordo ai suoi problemi. Per questo nel 1993 si è costituita la "Campagna
per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo", che raggruppava e raggruppa
varie ONG italiane impegnate nella nonviolenza attiva. E nel 1995
fu deciso, da parte di questa, di aprire un'Ambasciata di Pace a
Pristina, resa possibile da un finanziamento della Campagna Italiana,
e poi anche di quella Internazionale, per l’Obiezione di Coscienza
alle Spese Militari (OSM). L’Ambasciata è restata aperta fino al
1997, con visite successive fino ad oggi. Ha lavorato per riaprire
la comunicazione tra serbi ed albanesi della Serbia e del Kossovo,
in particolare tra gruppi di base delle due parti; per appoggiare
le poche organizzazioni del Kossovo non soggette alla pulizia etnica
e perciò miste, da noi definite "focolai di pace" (tra questi, in
particolare, le associazioni handicappati); per far conoscere, con
visite studio, mozioni, mostre fotografiche, video, convegni, libri,
articoli e conferenze, i problemi di quest’area al pubblico più
vasto del nostro paese ed alla nostra classe politica; per studiare
a fondo, ascoltando le ragioni delle due parti, le possibili soluzioni
nonviolente al conflitto, sia elaborate da noi stessi che da altre
organizzazioni non governative attive in questa area e presentarle,
in incontri appositi per la mediazione del conflitto cui erano presenti
le due parti (Vienna, Ulqin), al nostro ministero ed al Parlamento
Europeo, od organizzando essa stessa, con la collaborazione di altre
ONG impegnate in questo lavoro, degli appositi incontri di studio
e di confronto tra le parti (Bolzano, Lecce).
Secondo alcuni critici l’esperienza dell’Ambasciata di Pace a Pristina
sarebbe fallita perché non è riuscita ad evitare la guerra in atto.
In realtà chi fa questo rilievo non tiene conto di vari aspetti:
- i grossi interessi economici e strategici coinvolti tuttora nella
guerra che portano gli stati più potenti ad investire nella produzione
e nel traffico di armi quantità di risorse ingentissime, che sperano
di riavere o attraverso la vendita di armi "nuove" o nella ricostruzione
del paese distrutto o nell’influenza politico-strategica in una
zona importante del mondo.
- l’immenso squilibrio tra le spese investite per fare la guerra
e quelle invece dedicate alla prevenzione dei conflitti armati.
Basti dire, a mo' di esempio, che le spese affrontate per le attività
della nostra organizzazione e di tutte le altre che hanno lavorato
per la prevenzione del conflitto armato nel Kossovo rappresentano,
in totale, all’incirca solo il costo di pochi minuti di guerra (al
massimo cinque), che, in termini percentuali, corrispondono solo
allo 0,006%, ovvero 6 lire su 100.000 di quanto è stato speso in
60 giorni di bombardamenti (dei circa 75 in cui è durata la guerra).
E questo senza tenere conto di tutte le spese che vengono e verranno
investite per l’assistenza ai profughi causati da questa guerra
e dei costi per la ricostruzione di ciò che la guerra ha distrutto
(ma molte vite umane non saranno "ricostruibili"). Se si fossero
dedicate alla prevenzione più risorse, economiche ed umane, sicuramente
i risultati sarebbero potuto essere molto diversi.
- che quanto ha costruito l’Ambasciata non va visto soltanto dai
risultati a breve raggio, ma anche nei suoi effetti a lungo andare,
soprattutto al momento in cui, come adesso, è necessario lavorare
per la riconciliazione dei popoli che la guerra ha allontanato ulteriormente,
affinché possano continuare a convivere su uno stesso territorio,
cercando forme nuove di organizzazione, possibilmente a livello
confederale, come sotto-area dell’Europa stessa.
- che, nella prospettiva dell’evoluzione storica, l’esperienza
dell’Ambasciata di Pace segna un passo ulteriore nella direzione
del rafforzamento dell’incontro tra i popoli e della loro comunicazione
reciproca, grazie allo sviluppo di forme di diplomazia popolare
che rispondono anche alla necessità di superare sia gli Stati-Nazione,
sia l’attuale assetto delle organizzazioni sovra-nazionali le quali,
per la loro stretta dipendenza dagli Stati più potenti, sono in
grande crisi e sull’orlo della dissoluzione. Invece lo sviluppo,
dal basso, di forme di diplomazia popolare, tra cui si inserisce,
a buon diritto, l’esperienza delle Ambasciate di Pace, può aiutare
la costruzione di una pace mondiale che non sia soltanto "assenza
di guerra", ma anche trasformazione delle relazioni tra i popoli
e fondi la risoluzione delle controversie sulla prevenzione del
conflitto armato mediante la ricerca di soluzioni giuste ma pacifiche,
piuttosto che sugli equilibri e le alchimie politico-militari.
Gli amici albanesi del Kossovo che hanno partecipato al movimento
per la riconciliazione sperano (e noi speriamo con loro) che sia
possibile far rinascere tra la popolazione albanese questa esperienza
e che si possa superare questa fase in cui gli albanesi, non tutti,
ma almeno un certo numero di loro, cercano di vendicarsi dei serbi
e degli altri gruppi etnici per le angherie subite durante il periodo
della cosiddetta "legge di emergenza" (non è un caso che anche l’apartheid
in Sudafrica si basasse su una legge definita di "emergenza").
Cosa stiamo cercando di fare per aiutare questo processo, come
ci chiedono gli amici albanesi? Da una parte stiamo lavorando a
livello della cultura e dell’Università. L’estate passata sono tornato
in Kossovo per circa un mese, dopo esserci stato per circa un anno
nel periodo in cui ha funzionato l’Ambasciata di Pace a Pristina.
Questo viaggio è stato fatto anche per conto del Rettore dell’Università
di Firenze, che è vice presidente della Task Force Universitaria
per i Balcani, un gruppo accademico europeo che studia la situazione
delle Università e cerca possibili soluzioni di ripresa dopo la
guerra. Sulla base di incontri approfonditi e visite varie, la Task
Force per il Kossovo ha avanzato una serie di proposte che abbiamo
portato all’attenzione dell’organismo delle Nazioni Unite, che gestisce
la zona in questo periodo. Abbiamo fatto anche una proposta al Governo
italiano di collaborazione tra varie Università italiane e quella
di Pristina, vista non solo nella sua componente albanese, ma mista,
cioé come era prima dell’89, quando esisteva un’unica Università,
con la componente albanese e serba. Se queste indicazioni verranno
approvate dal Ministero degli Esteri Italiano e riusciranno a diventare
operative, questo potrebbe essere un punto importante per un possibile
lavoro comune tra etnie diverse.
Per quanto riguarda gli aspetti della cultura, stiamo anche cercando
di stimolare una riflessione sull’aspetto della vendetta e sulla
necessità del suo superamento, richiamando gli albanesi del Kossovo
alle loro tradizioni culturali, in particolare quella della riconciliazione,
come ci hanno chiesto di fare gli amici albanesi che hanno partecipato
a tale movimento. Questo lo abbiamo fatto portando a conoscenza
degli albanesi l’esperienza sulla riconciliazione in Sudafrica,
che è stata oggetto di un bel libro, pubblicato da Il Manifesto.
Il saggio da me scritto su questo argomento, oltre a far conoscere
l’esperienza del Sudafrica, cerca anche di avanzare una proposta
di applicazione dello stesso principio per il Kossovo, per i reati
"non sistematici" (quelli, cioé, non perseguibili dalla Corte Internazionale
dell’Aia). L’articolo da me scritto su questo argomento è stato
tradotto in albanese per conto del Direttore di una delle maggiori
riviste kossovare e pubblicato nel suo giornale [10].
La speranza del Direttore, ed anche mia, è quella che la pubblicazione
dell’articolo possa servire a stimolare un dibattito che ci si augura
possa coinvolgere gli intellettuali del luogo, la stessa Università
ed anche i politici locali, con una tavola rotonda sull’argomento
ed eventualmente con progetti specifici per l’attuazione di questo
obiettivo.
Oltre a questo, abbiamo un progetto di formazione di formatori
locali, parzialmente finanziato dalla Regione Toscana nella sua
legge sulla pace. Questo progetto punta ad incoraggiare i gruppi
che sia nel Kossovo che in Serbia hanno lavorato con la nonviolenza
contro la guerra, per il dialogo e la ricerca pacifica di soluzioni.
Ora questi gruppi sono scoraggiati e messi ai margini. Ma la nostra
speranza ed il nostro progetto è quello di rinforzarli, riportando
in primo piano le loro competenze in questo campo e ristabilendo
quella rete di relazioni tra gruppi kossovari, serbi, montenegrini
e macedoni, che prima della guerra era attiva, ma che ora stenta
a rimettersi in moto. Per far questo prevediamo di organizzare vari
training alla nonviolenza, sia nei suoi aspetti di azione diretta,
ma sia soprattutto nelle sue capacità di superamento dei conflitti
e di ricerca di momenti e forme di riconciliazione tra i nemici
e gli avversari. Abbiamo per questa iniziativa l’impegno di alcuni
dei migliori trainers mondiali. Si prevedono training prima separati
tra i vari gruppi etnici, poi, gradualmente, dei training comuni,
che facciano interagire direttamente i partecipanti e servano a
rimettere in funzione la rete di rapporti di cui sopra. Le persone
che parteciperanno ai training dovrebbero essere quelle attive nelle
varie organizzazioni non governative dei rispettivi paesi, che fanno
parte della società civile e che sono interessate alla nonviolenza.
I training sarebbero finalizzati alla formazione di trainers locali
che possano diffondere queste competenze ad altre persone dei loro
stessi gruppi o anche agli altri gruppi attivi nel territorio.
Ma un secondo progetto cui stiamo lavorando, in collaborazione
con altre Organizzazioni Non Governative italiane, come i "Beati
i Costruttori di Pace", l’ "Operazione Colomba" dell’Associazione
Giovanni XXIII di Rimini ed i "Berretti Bianchi", è quello dell’intervento
in zona di "Corpi Civili di Pace". Questi sono già operativi in
zona da vario tempo, il nostro obiettivo è quello di rinforzare
il loro lavoro con maggiori e più validi collegamenti reciproci
e con un rapporto più stretto con le Organizzazioni Non Governative
della zona, in modo da stimolare queste ultime ad un lavoro più
efficace e più legato ai problemi concreti della popolazione. Il
lavoro che viene attualmente fatto da queste organizzazioni è nel
campo dell’educazione alla pace, della comprensione interetnica
e dell’interposizione non armata, nella forma di accompagnamento
di persone di un'etnia nelle aree controllate dall’altra.
Il gruppo che ha finora lavorato di più nel campo dell’educazione
alla pace è stato quello dei "Beati i Costruttori di Pace". Questi,
durante tutta l’estate scorsa, in paesi vicino a Pec/Peja, una delle
zone in cui l’odio reciproco è più forte a causa dell’immane distruzione
di case albanesi compiute da paramilitari e militari serbi e dove
i serbi rimasti sono continuamente minacciati di ritorsioni e di
vendette (molte già realizzate), hanno portato avanti regolarmente
in vari villaggi attività di animazione dei bambini, con canti,
giochi, recite ed altre attività simili. E questo con personale
del tutto volontario, non remunerato. E’ importante il commento
di uno dei padri di questi bambini, venuto ad assistere alla recita
del figlio: "E’ la prima volta - ha detto - che vedo mio figlio
ridere dopo la guerra!". Ma l’attività è servita anche a fini preventivi
perché ha portato i bimbi a giocare in zone sicure, dove le varie
mine (o messe dai serbi o delle bombe a grappolo della Nato) sono
già state tolte. Molte volte invece i bambini, lasciati soli, andavano
a giocare in zone ancora a rischio ed era ed è tuttora frequente
il caso di bimbi uccisi o comunque resi invalidi dallo scoppio di
una di queste mine. Ma un’altra attività importante è stata, e viene
portata avanti regolarmente, quella dell’educazione alla pace di
insegnanti di un comune nel quale la popolazione è tuttora mista,
con una presenza quasi uguale a quella albanese di mussulmani di
etnia slava che parlano, come loro lingua, il serbo-croato. In questo
comune sono stati portati avanti vari incontri per insegnare ai
docenti delle scuole elementari della zona, in accordo con le autorità
locali, i giochi cooperativi ed altri aspetti di un'educazione attiva
dei bimbi alla pace. Questo è stato fatto in una prima fase separatamente,
con gli insegnanti di ciascuna delle due lingue, ed in seguito insieme,
con la traduzione in consecutiva in ambedue le lingue. Se si pensa
che a Pristina un funzionario di un'Organizzazione Governativa è
stato ucciso per strada sembra semplicemente perché si è azzardato
a parlare in lingua serba, questo è un risultato da non sottovalutare
per la ripresa ed il mantenimento di una convivenza tra etnie diverse.
I volontari dell’Operazione Colomba, cui collaborano anche obiettori
di coscienza in servizio civile cui la legge attuale permette di
svolgere una parte del proprio servizio anche all’estero come "Caschi
Bianchi", portano avanti, invece, in due zone, a Pec/Peja ed a Mitrovica,
un'attività di interposizione non armata tra i due gruppi etnici
in lotta. Così a Peja sono andati ad abitare, chiamati da lei, in
casa di una signora anziana serba che era stata minacciata da gruppi
albanesi sedicenti dell'’UCK, che volevano bruciare la sua casa
e le avevano imposto di andarsene. La presenza nella casa dei volontari
dell’Operazione Colomba, quando gli albanesi sono venuti per bruciare
la casa, ha impedito che questo si avverasse. La signora è
poi partita lo stesso ma ha lasciato gratuitamente la casa ai volontari
dicendo "se è ancora intatta è merito vostro".
Ed in una zona vicino a Peja i volontari si sono collocati in un
paesino abitato da albanesi che, però, per arrivare in città
ed andare a fare spese o recarsi dal medico o all’ospedale, devono
passare accanto ad un villaggio completamente abitato da serbi.
Lo fanno con grande paura a causa di vari incidenti avvenuti in
quella strada. La presenza dei volontari che accompagnano queste
persone in città con la loro macchina ha permesso a molte
di loro di non restare completamente isolate rispetto ai negozi
ed ai servizi pubblici della città, in particolare degli
ospedali. Ma i volontari dell’Operazione Colomba sono presenti anche
in una zona mista del nord di Mitrovica dove ancora convivono albanesi
e serbi, cercando con la loro presenza, malgrado varie minacce ed
anche botte, di mantenere questo carattere misto di convivenza tra
etnie diverse.
I "Berretti Bianchi", una nuova associazione costituita
da persone che erano già state coinvolte in vari interventi
di prevenzione e di pacificazione nonviolenta in Iraq, Jugoslavia,
Chiapas, ecc..., ha invece aperto, dopo la fine della guerra, ma
con un viaggio anche durante – alcuni di loro sono scampati per
miracolo alle bombe Nato - una "Ambasciata di Pace" a
Belgrado, definita però, meno pomposamente, "Centro
di Amicizia tra i Popoli". Questa ha collaborato e collabora
con le associazioni della società civile di Belgrado, in
particolare, ma non solo, con le "Donne in Nero" e con
altri gruppi nonviolenti ed ha attivato delle forme di gemellaggio
tra scuole italiane e scuole della Serbia, molte volte pesantemente
danneggiate dalle bombe della Nato. L’idea cui sta attualmente lavorando,
in collegamento con le altre associazioni su citate, compresa la
Campagna Kossovo che sta progettando di aprire anche a Pristina
un "Centro per l’Amicizia trai Popoli", è quella
di un gemellaggio triangolare tra varie scuole, di tutti i livelli,
si spera anche a livello universitario, con una scuola italiana
che mantiene contatti stretti con una scuola serba ed una albanese
e cerca così di mantenere i rapporti tra i bambini o gli
adulti serbi ed albanesi, indirettamente in una prima fase, nella
speranza di arrivare in un secondo tempo ad incontri comuni. Ambedue
queste popolazioni sono state vittime di pulizie etniche, di bombardamenti,
di crimini vari e le interpretazioni che hanno elaborate di questi
avvenimenti sono spesso distorte dalle reciproche propagande di
guerra. E’ importante perciò portare avanti un processo di
ricerca della verità che non dimentichi i torti di ambedue
le parti (sia realizzati dai serbi che dalla Nato) ma che non consideri
la popolazione dell’altra parte come "criminale" essa
stessa, ma ne veda anche il carattere di vittima di forze e di interessi
che vanno molto spesso al di sopra delle loro teste. E’ solo così
che si può sperare, in un futuro speriamo non troppo lontano,
in un'attivazione di un processo di riconciliazione ed in un ristabilimento
di rapporti di amicizia e di confronto, e non di scontro o di guerra.
Un altro tipo di lavoro che ci è stato richiesto e che ci
siamo prefissi è quello di stimolare il dialogo interreligioso.
Ci sono possibilità, c’è qualche prete cattolico che
da anni mantiene aperto questo dialogo sia con i musulmani che con
gli ortodossi e ci sono anche, tra gli ortodossi, dei religiosi
interessati a questo discorso. E’ perciò anche questa una
strada da seguire se vogliamo un futuro di pace e di convivenza.
Una recente dichiarazione congiunta dei leaders religiosi delle
tre Chiese che, incontrandosi a Saraievo, hanno chiesto la fine
delle violenze e delle vendette, è un passo importante in
questa direzione [11].
Abbiamo fallito nel prevenire il conflitto, qualcuno ci ha detto
che era un compito al di sopra delle nostre forze e che avremmo
dovuto rinunciare [12]; non
l’abbiamo fatto, ma ci siamo trovati completamente soli a lottare
contro interessi economici e strategici troppo grandi perché
potessimo contrastarli. Ma speriamo e ci auguriamo che verso questo
lavoro di riconciliazione non ci sia la sordità che c’è
stata finora e che ci possano essere degli accordi e degli appoggi
per poter lavorare non in una o due persone, ma con numeri abbastanza
rilevanti.
Chiudo con una speranza: che si capisca che questo è un
lavoro difficilissimo, ma necessario se vogliamo veramente che ci
sia la pace e la convivenza multietnica in quella zona e non si
arrivi, invece, allo scoppio di una nuova guerra che rischia di
essere ancora peggiore di quella appena avuta, oppure che non si
giunga alla divisione definitiva del Kossovo in due parti, una zona
serba ed una albanese, il che si sta già profilando nell’area
di Mitrovica. Ma il problema si pone anche per la stessa Serbia:
infatti alcuni comuni del Sud erano abitati prevalentemente da albanesi
che sono stati e vengono tuttora mandati via, e in essi sta cominciando
una risposta armata di gruppi albanesi collegati al vecchio UCK.
Come si vede, perciò, la corrente attuale è verso
una pulizia etnica reciproca e verso la costituzione di aree etnicamente
pulite. Lavorare per la riconciliazione e per la convivenza multi-etnica
vuol dire quindi andare contro corrente, con tutti i rischi e le
difficoltà che questo comporta.
Questo è quello che stiamo cercando di fare e che riteniamo
fondamentale se vogliamo realmente che queste persone restino nella
zona in cui hanno vissuto fino a non molto fa, perché ci
vogliono restare. Ricordo, tanto per citare, una persona serba con
cui avevo fatto amicizia, che dirigeva il Media Center di Pristina,
una agenzia di stampa serba, che aveva molto apprezzato il mio primo
scritto sul Kossovo per la sua obiettività [12]
e che mi ha ripetuto varie volte: "Se il Kossovo si stacca
dalla Serbia piuttosto che andare a Belgrado vado in Grecia".
Tante persone come lui, che non hanno commesso alcun crimine, desiderano
restare nella zona, ma non possono farlo perché si è
creato un clima di caccia alle streghe e tutti i Serbi ed i Rom
sono considerati ladri o criminali. Ma lo stesso vale al nord, invece,
per gli Albanesi. E questa pulizia etnica sta creando una nuova
massa di profughi e rifugiati, anche nei nostri paesi, ad esempio
di Rom che hanno spesso delle bellissime case nel Kossovo e vorrebbero
ritornarci anche domani, ma non possono a causa del clima creatosi
dopo la guerra.
Credo che una società civile non possa accettare questo
clima di odio e di guerra e che sia importante che gli sforzi vengano
uniti, non semplicemente per portare da mangiare o per la ricostruzione
della case, tutte cose molto importanti, ma anche per la ricostruzione
di rapporti civili e di accordi, perché il problema della
convivenza etnica è da affrontare se non vogliamo andare
verso un mondo mono-etnico dove una convivenza tra diversi diventi
impossibile.
NOTE
[1]
Sulle possibilità di prevenire la guerra, e sulle ragioni
che hanno portato al conflitto armato, si veda il mio: "Kossovo:
una guerra annunciata", Ediz. La Meridiana, Molfetta (Ba),
1999.; ed il libro di G.Scotto, E. Arielli, "La guerra del
Kosovo, anatomia di un'escalation", Editori Riuniti, Roma,
1999. Utile anche il libro curato da P. Fumarola e G. Martelloni
"Kossovo tra guerra e soluzione politica", Casa
Editrice Sensibili alle Foglie, Roma, 2000. [indietro]
[2]
Uno dei più noti ricercatori per la pace, J. Galtung, direttore
di Transcend, dice infatti che nel mondo ci sono molti più
popoli che nazioni e che se tutti i popoli volessero avere il loro
stato il futuro dell’umanità sarebbe pieno di guerre e di
violenze; ed insiste perciò sulla necessità di dar
vita a stati multinazionali e multietnici e di lavorare per la convivenza
multietnica non lasciandosi abbagliare dall’idea di stati "etnicamente
puri". [indietro]
[3]
Sulle lotte nonviolente dei kossovari si veda la mostra fotografica
organizzata dalla Campagna Kossovo che è stata presentata
in molte città italiane e che può essere richiesta
all’indirizzo di posta elettronica <labate@unifi.it>. Tra
non molto sarà disponibile anche nel sito internet della
Campagna stessa, presso "Peacelink" . [indietro]
[4]
Si può trovare una cronologia di queste lotte nel numero
di febbraio 1997 della rivista "Guerra e Pace". [indietro]
[5]
Sul movimento della riconciliazione del Kossovo si veda il n°
29, sett.-dic. 1997, della Rivista "Religioni e Società":
'Kossovo, conflitto e riconciliazione in un crocevia balcanico',
da me curato; oppure il libro di G. e V. Salvoldi, L. Gjergji, "Kossovo
- "Nonviolenza per la riconciliazione", EMI, Bologna,
1999. [indietro]
[6]
Il testo della raccomandazione è pubblicato in "Azione
Nonviolenta", marzo 1999, pp.10-13. [indietro]
[7]
Si veda su questo l’articolo di N. Mandela, 'Perdono per il passato
ma senza dimenticare', in "La Repubblica", del 22
giugno 1999, ed il libro "Verità senza vendetta",
curato da M. Flores e pubblicato nel 1998 da Manifesto Libri, Roma.
Si veda anche il mio articolo: 'Kossovo: verità senza
vendetta ma con giustizia', che è stato tradotto in albanese
e pubblicato nella rivista kossovara "Zeri". Il testo
italiano ed inglese dell’articolo può essere richiesto al
mio indirizzo e-mail su citato. Sulla base delle proposte di questo
articolo, la Campagna Kossovo ha presentato alla missione OSCE del
Kossovo, su sua richiesta, un progetto di costituzione di tribunali
civili a livello locale che lavorino in questa direzione. [indietro]
[8]
Vengono qui di seguito riprese alcune parti del testo : "Progetto
Ambasciate di Pace" messo a punto ed approvato nel corso del
Seminario di studio: 'Kossovo: che fare?', organizzato dalla
"Campagna Kossovo per la Nonviolenza e la Riconciliazione"
e dall’Associazione "Berretti Bianchi", svoltosi a Firenze
nei giorni 22-23 maggio 1999. [indietro]
[9]
Nella mostra fotografica su citata c’è la fotografia del
momento fatidico in cui l’assemblea del Kossovo deve approvare la
modifica costituzionale che toglie al Kossovo le caratteristiche
statuali della sua autonomia. Da questa si vede chiaramente come
solo un numero molto minore di persone rispetto a quelle che avrebbero
dovuto votare alzano la mano in assenso - nella foto si possono
contare 58 mani alzate ma una piccola parte dell’assemblea non è
ripresa, e questo può forse portare i voti a favore a non
più di 70, anche se almeno una delle mani alzate è
di un funzionario di partito non avente diritto al voto - contro
i 108 che avrebbero dovuto votare a favore per raggiungere la quota
legalmente prevista per queste modifiche. Si veda su questo anche
il libro di N. Malcolm "Kosovo, a short history"
, New York University Press, 1998. Parlando del voto del 23 marzo
1989, dopo aver accennato alle intimazioni esterne fatte con lo
stazionamento di carri armati che circondavano il parlamento e alla
presenza nell’aula di persone che non avrebbero avuto il diritto
a votare ed invece hanno votato, l'autore scrive: "In queste
circostanze sono passate le modifiche costituzionali, ma senza la
maggioranza di due terzi normalmente richiesta per questi cambiamenti"
(p. 344). [indietro]
[10]
La dichiarazione è dell’8 febbraio 2000. Nel testo si dice,
tra l’altro: " Tutte le popolazioni in Kossovo sono state sottoposte
ad enormi sofferenze. Sia resa grazie a Dio che la guerra è
finita, ma sfortunatamente continua ad esserci insicurezza e violenza.
Nostro dovere ora è stabilire una pace durevole basata sulla
verità, la giustizia e la vita comune ... ... ... Riconosciamo
che le nostre tradizioni spirituali e religiose possiedono molti
valori in comune e che questi valori condivisi possono servire come
autentica base per una mutua stima, cooperazione e libera vita in
comune sull'intero territorio del Kossovo ... ... ... Ciascuna delle
nostre tradizionali chiese e comunità religiose riconosce
e proclama che la dignità dell'uomo e il valore umano sono
un dono di Dio. Le nostre fedi, ciascuna nel suo proprio modo, ci
chiamano al rispetto dei fondamentali diritti umani di ogni persona.
La violenza contro le persone o la violazione dei loro diritti fondamentali
per noi non solo sono contrarie alle leggi fatte dagli uomini, ma
anche infrangono la legge di Dio. Noi inoltre, nel mutuo riconoscimento
delle nostre differenze religiose, condanniamo ogni violenza contro
persone innocenti ed ogni forma di abuso o violazione dei fondamentali
diritti umani, e specificamente noi condanniamo:
* atti di odio basati sull'etnicità o le differenze religiose;
* la profanazione di edifici religiosi e la distruzione di cimiteri;
* l'espulsione della gente dalle proprie case;
* l'impedimento del libero diritto al ritorno alle proprie case;
* gli atti di vendetta;
* l'abuso dei mezzi di comunicazione allo scopo di diffondere odio.
Infine,
noi richiamiamo tutte le persone di buona volontà ad assumere
la responsabilità delle loro proprie azioni. Trattiamo gli
altri come vorremmo che essi trattassero noi.".
E Padre
Sava, un prete della Chiesa Serbo-Ortodossa, segretario del Vescovo
Artemije, in una dichiarazione alla Radio dell’UNMIK dell’8 novembre
1999, era andato anche oltre esprimendo "il più grande
dispiacere per tutto quanto è stato fatto da membri del popolo
serbo e delle Forze Speciali contro i civili albanesi" ed ha
descritto l’oppressione portata avanti per tanti anni contro la
popolazione albanese del Kossovo come "un crimine molto grave".
Ma ha anche chiesto agli albanesi ragionevoli e onesti di dichiarare
la propria opposizione alla violenza generalizzata contro i serbi
della Provincia. Ed ha aggiunto: "Vediamo che molti albanesi
vorrebbero che si ponesse fine alle violenze contro i serbi, ma
non possono, sono intimiditi ed impauriti come molti serbi si sono
sentiti prima ". [indietro]
[11]
L’importanza della prevenzione è riconosciuta anche dall’attuale
capo del governo italiano Massimo D’Alema, nel suo volume "Kossovo,
gli italiani e la guerra", A. Mondadori, Milano, 1999.
D'Alema, alle pagine 110-111, rispondendo ad una domanda su quanto
egli, i suoi colleghi europei e le sinistre in genere hanno imparato
da questa guerra, dice: "Abbiamo anche appreso lezioni severe:
oggi sappiamo, con più chiarezza di prima, che dobbiamo impegnarci
molto più a fondo nella prevenzione delle crisi. La tragedia
potenziale del Kosovo era evidente già alla fine degli anni
Ottanta: L’abbiamo trascurata, l’abbiamo lasciata marcire e poi
esplodere, abbiamo a lungo guardato altrove e alla fine siamo dovuti
intervenire con la forza. Se avessimo reagito subito, forse
[grassetto nostro] l’uso della forza, con tutte le sue drammatiche
implicazioni, non sarebbe stato necessario. E’ una lezione da non
dimenticare: è cruciale che la gestione della crisi sia costruita
anzitutto su una capacità di prevenzione, quando possono
essere ancora efficaci strumenti politici ed economici. L’uso della
forza deve sempre rimanere l’eccezione". Purtroppo le persone
che hanno lavorato per la prevenzione della guerra sanno che se
il nostro paese avesse lavorato seriamente su questo problema ed
accolto le proposte della nostra Campagna e della Comunità
di Sant’Egidio - che era riuscita a far firmare un primo accordo
per la normalizzazione del sistema scolastico tra Milosevic e Rugova,
che avrebbe dovuto essere seriamente monitorato, subordinando gli
aiuti e gli accordi economici con Milosevic e con la Serbia alla
reale applicazione dell’accordo e non alla sua semplice firma -
il "forse" detto da D’Alema avrebbe potuto, quasi sicuramente,
essere eliminato. [indietro]
[12]
Il testo si intitola "Kossovo: una guerra non guerreggiata".
La versione inglese del testo è stata presentata nella sede
del Parlamento Europeo di Bruxelles, il 26 giugno 1996, alla riunione
del gruppo di lavoro, promosso dal Gruppo Verde Europeo, per la
costituzione dei "Corpi Civili Europei di Pace". La versione
italiana è stata pubblicata nel "Dossier Kossovo:
per non dimenticare e per prevenire l‘esplosione del conflitto armato",
curato nel 1997 dalla Campagna Kossovo e mandato a tutti i gruppi
parlamentari italiani. Una versione leggermente riveduta è
in corso di stampa presso l’editore Angeli di Milano in un volume
collettaneo dedicato alla memoria del Prof. Antonio Carbonaro, ex
Direttore del Dipartimento di Studi Sociali di Firenze, di cui faccio
parte. [indietro]
ALBERTO L’ABATE
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