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KOSSOVO: verità senza vendetta ma con giustizia?
 
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Riflessioni sulla situazione in Kossovo

1) Kossovo e Sudafrica: c'è qualcosa in comune tra di loro?

2) L’esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica

3) Sudafrica e Kossovo: c’è qualcosa da imparare?



1) Kossovo e Sudafrica: c'è qualcosa in comune tra di loro?

"Verità senza vendetta" è il titolo del bel libro di Marcello Flores, docente di storia contemporanea all'Università di Siena, dedicato all'analisi dell'esperienza sudafricana della "Commissione per la Verità e la Riconciliazione". Esso, dopo un'introduzione generale, riporta una vasta selezione dei documenti originali della Commissione. E' importante analizzarlo a fondo per vedere quali insegnamenti si può trarre da quell'esperienza per la situazione kossovara.
Anche qui esisteva una forma di apartheid abbastanza simile a quello del Sudafrica, con una minoranza di meno del 10% della popolazione, di etnia serba, che con la violenza, e grazie ad una legge definita di "emergenza" (esattamente il nome di quella che nel Sudafrica manteneva in vita l'apartheid), ma che era in realtà una vera e propria "legge marziale", di guerra, controllava la situazione ed imponeva le sue regole alla maggioranza albanese (quasi il 90% della popolazione). L'apartheid era emerso inizialmente per volontà del governo serbo ma era stato, di fatto, subìto e accettato (fino a farne il punto di partenza della propria lotta nonviolenta) dalla popolazione albanese.
Infatti, ad esempio, per quanto riguarda il settore scolastico, il governo serbo in un primo tempo aveva messo fuori dalle strutture pubbliche gli studenti e gli insegnanti albanesi, ma avrebbe preferito, in seguito, rinserirli al loro interno a patto che riconoscessero come valide le modifiche costituzionali da esso imposte con la forza e con la frode nel 1989, ed accettassero di studiare in lingua serba (almeno nei gradi superiori dell'insegnamento) e secondo i programmi del ministero dell'educazione serbo. Ma gli albanesi si sono rifiutati di farlo ed hanno dato vita ad un sistema scolastico parallelo, in lingua albanese e con programmi che riprendevano, grosso modo (tranne per l'insegnamento della lingua serba che veniva cancellata dal programma sostituendola con quella inglese), quelli vigenti prima delle modifiche costituzionali su citate (1989/90). Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda il governo. Non accettando le modifiche costituzionali su citate, che erano state fatte in un modo del tutto "incostituzionale", gli albanesi del Kossovo si sono rifiutati di partecipare alle elezioni, e di utilizzare l'autonomia restante (deprivata delle caratteristiche statuali che avevano in virtù della Costituzione del 1974), mettendo in vita un proprio sistema di governo parallelo, con proprie elezioni, considerate illegali dal governo serbo, ma cui partecipava la stragrande maggioranza della popolazione albanese (ed anche altri di etnie diverse come i turchi ed i gorani). E dei progetti legge del governo serbo, non ancora realizzati, prevedevano per questa zona, come in Sudafrica, sia a livello politico che amministrativo, un doppio sistema di organi politici-amministrativi separati, da una parte gli albanesi, dall'altra i serbi e le altre etnie, ma con poteri uguali, in modo che nessuna decisione potesse essere presa, nè a livello amministrativo, nè politico, dalla maggioranza albanese, senza l'accordo degli altri gruppi etnici. Come si vede perciò le simiglianze tra i due sistemi erano abbastanza notevoli ed anche qui nel Kossovo, come è stato sottolineato da vari studiosi, esisteva un sistema di "apartheid". Ed in ambedue i paesi, le persone torturate, uccise, maltrattate, dalle rispettive polizie sono state numerosissime. E sia in Sudafrica che nel Kossovo la polizia, ed i gruppi paramilitari da questa assoldati e protetti, ha commesso, per mantenere il gruppo subordinato sotto il giogo e non fargli rialzare troppo la testa, crimini inauditi ed efferati. Ma la prima grande differenza è stata nel tipo di lotta portata avanti dalla maggioranza della popolazione. Il movimento principale dei neri sudafricani (l'African National Congress, ANC) anche se in un primo tempo aveva portato avanti anche azioni di tipo nonviolento, aveva scelto, in definitiva, una strategia di lotta armata. Infatti, nel dicembre 1948, quando il neo Presidente del Sudafrica, De Klerk, ha avuto un primo incontro con Mandela, in carcere da 27 anni, gli ha proposto la liberazione in cambio della dichiarazione unilaterale, da parte dell'ANC, della fine della lotta armata (Flores, p. 15), Mandela ha rifiutato questo scambio.
Il movimento kossovaro invece, compatto, contro la violazione costituzionale che ha declassata questa area a semplice provincia della Serbia (1989) ha deciso di portare avanti una lotta nonviolenta, anche se con opinioni diverse, tra partiti e movimenti, sulle modalità con cui realizzarla. Alcuni raggruppamenti (come, ad esempio, il Partito Parlamentare, il secondo in ordine di grandezza nelle elezioni del 1992) avrebbe desiderato una lotta nonviolenta più attiva (occupazione di fabbriche e scuole, manifestazioni di massa, ecc.) che rendesse più visibile l'insoddisfazione della popolazione albanese del Kossovo per le proprie condizioni. Il Partito di Rugova, invece, maggioritario (LDK) temeva che questo tipo di azioni potessero trasformarsi, a causa di una risposta violenta della polizia serba, in uno scontro a fuoco ed in una lotta armata aperta, ed ha preferito limitarsi a portare avanti la strategia nonviolenta del governo parallelo, senza azioni dirette. Ma l'accordo sulla strategia nonviolenta è stato totale fin verso il 1997 quando, soprattutto dopo le stragi di Drenica e Racak, portate avanti dai paramilitari serbi, è emersa come strategia di fondo del popolo albanese del Kossovo la lotta armata portata avanti dall'UCK.
Questa diversità tra Sudafrica e Kossovo ha fatto sì che nel primo paese il numero di morti e di vittime anche da parte dei sostenitori del regime (non solo bianchi ma anche neri loro collaborazionisti, come i membri dell'IFP) fosse molto più elevato che nel Kossovo in cui, per moltissimo tempo, le vittime delle violazioni di diritti umani (uccisioni, maltrattamenti, imprigionamenti abusivi; sequestri, ecc.) erano quasi esclusivamente gli albanesi del Kossovo. Questo fatto spiega anche certi passaggi della relazione della commissione del Sudafrica che dà atto, in vare occasioni, del fatto che abusi e violazioni dei diritti umani erano stati commessi da ambo le parti, e non solo da parte del governo bianco.
L'altra grande diversità è nel modo in cui si sono superati i due sistemi di "apartheid". In Sudafrica si è arrivati alla decisione di superare l'apartheid e di andare verso un sistema democratico, consensualmente, per volontà delle due parti. Nel 1989 il Presidente eletto De Klerk apre un periodo di disgelo liberando un certo numero di prigionieri politici e dando inizio a colloqui con Nelson Mandela, il capo dell'ANC. Nel febbraio del 1990 De Klerk si esprime "per l'abbandono della violenza invitando a raccogliere la lezione che veniva dal crollo dei paesi comunisti" (Flores, p. 16) e mette le prime pietre per una transizione verso la democrazia, revocando la legislazione di emergenza e liberando, senza condizioni, Mandela. Toglie anche il bando all'ANC (African National Congress, il partito di Mandela) e ad altri movimenti politici od associazioni fino ad allora proibite. Nel 1993 De Klerk e Mandela raggiungono un accordo "per una costituzione provvisoria che prefigura una democrazia non razzista e pluripartitica, una carta dei diritti ed una divisione amministrativa in nove province" e viene loro assegnato, congiuntamente, il premio Nobel per la Pace (Flores p. 17). Malgrado molte violenze provocate soprattutto da un partito di neri collaborazionisti del precedente governo (IFP) che cercano di ricreare un clima di guerra e di rottura, si arriva nel 1994 alle elezioni che vedono il partito di Mandela avere la maggioranza assoluta ed il controllo di sette delle nove province. Nel maggio 1994 Mandela viene eletto Presidente. Nel dicembre 1995 istituisce la "Commissione per la Verità e la Riconciliazione", "per dare attuazione a quanto previsto dalla Legge nazionale di unità e riconciliazione che era stata approvata nel luglio di quello stesso anno" (Flores, p. 17). Nel Kossovo i tentativi di accordi e di decisioni consensuali sono falliti, per ragioni varie che qui non è il caso di analizzare, cui ho dedicato altri miei scritti, ed il superamento del regime di "apartheid" è avvenuto attraverso una guerra che ha visto atroci episodi di violenza subìti soprattutto dagli albanesi. E' vero che molti di questi episodi sono avvenuti dopo l'inizio della guerra, e perciò come reazione dei serbi al fatto di essere vittime delle bombe Nato, dal momento che i serbi sentivano le bombe della Nato come direttamente volute dagli albanesi, il che era vero. Ma per il cittadino comune albanese, che si è visto scacciare dalla propria casa mentre questa veniva data alle fiamme, che ha visto molte volte uccidere uno o più figli maschi, ed in alcuni casi violentare le figlie femmine, e si è visto spinto fuori dal proprio paese per andare a vivere in campi di raccolta in cui le condizioni di vita erano spesso tutto fuorché "civili", malgrado la buona volontà degli organizzatori, il collegamento tra le bombe Nato e quanto veniva fatto a loro era difficilmente comprensibile. E naturalmente ne ha tratto odio e rabbia, ed è molto poco disposto a perdonare, e soprattutto a riconciliarsi. Ed i casi simili sono talmente numerosi da mettere in dubbio seriamente che gli albanesi del Kossovo siano disposti a riconciliarsi soprattutto con i membri di quei gruppi paramilitari organizzati da Arkan o da Secelj che hanno commesso la maggior parte di quei crimini. E piuttosto che perdono e riconciliazione chiedono giustizia.
E questo anche se nel 1990 c'è stato nel Kossovo un bellissimo movimento della riconciliazione che ha visto "rimettere il sangue" e perdonarsi a vicenda circa 1250 famiglie che erano fino ad allora legate tra loro da un patto di vendetta, per rivalorizzare il principio del perdono e della riconciliazione che facevano parte della stessa legge, ma che erano stati messi in secondo piano. Ma non si può dimenticare che la stragrande maggioranza dei casi di riconciliazione erano tra membri della stessa etnia albanese che si "perdonavano il sangue" perchè ambedue vittime dello stesso oppressore, il governo e la polizia serba. Purtroppo le notizie che arrivano ogni giorno, ora che è ritornata la pace e le truppe KFOR sono stanziate nella regione, di persone serbe o rom considerate criminali di guerra, o di albanesi "collaborazionisti" e perciò ritenuti traditori, uccise da civili albanesi, o da persone che indossano la divisa dell'UCK - molte volte non è dato sapere se sono soldati regolari o irregolari - o le notizie delle case dei serbi bruciate, oppure occupate abusivamente da famiglie albanesi, o della bomba messa alla Chiesa Ortodossa in costruzione nel campus universitario di Pristina, mostrano come la legge della vendetta sia ancora viva ed attuale, e come il cammino di una eventuale riconciliazione sia lungo e difficile.
Può l'esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica darci qualche suggerimento ed aiuto a superare questo stato di cose? Personalmente ritengo di si, e cercherò di dimostrare questa tesi nel proseguo di questo articolo. Il primo elemento in positivo è stato quello che tutte le commissioni, del genere di quella del Sudafrica (presentate in un quadro sinottico in appendice), che hanno cercato di far emergere i crimini del passato, non tanto per rinfocolare gli odi ma piuttosto per "rendere più umana la nostra società ... [e] far comprendere l'idea di responsabilità morale" (Flores, p. 18), come scrive uno dei promotori della commissione sudafricana, oppure per "aiutare il nostro paese ad accettare il suo passato così da poter aspirare ad un nuovo futuro", come scrive il vescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984 e Presidente della Commissione su citata, nella sua introduzione alla relazione finale della Commissione (Flores, p. 68), sono nate e si sono costituite dopo il superamento di una dittatura e nel passaggio verso un regime democratico. E questo può valere anche per il Kossovo dato che il crollo della dittatura miloseviciana sul territorio del Kossovo pone le premesse dell'organizzazione di un vero e proprio regime democratico, finora inficiato dalle difficili condizioni in cui venivano portate avanti le elezioni, dai dissidi interni trai vari partiti albanesi (che hanno portato molti di loro a boicottare le elezioni del marzo 1998), e dalla reale mancanza di potere del governo alternativo kossovaro. Ma il quadro storico presentato in appendice mostra anche le difficoltà che si sono incontrate nelle varie zone per portare avanti le attività di queste commissioni che, in due casi, quello del Salvador e dell'Argentina, sono servite quasi esclusivamente all'approvazione, da parte del Parlamento, di un'amnistia generale per tutte le persone che avevano commesso queste violazioni, e che, nella maggioranza degli altri casi, hanno avuto la vita grama, o per mancanza di fondi (che dimostrano la volontà dei nuovi governi di insabbiare questi lavori), o per minaccie e pressioni da parte delle persone indagate. Pressioni queste che spesso hanno portato all'interruzione dei lavori della commissione o alla necessità, per portarli avanti lo stesso, di sostituire una gran parte dei suoi componenti. Il problema si pone soprattutto se la commissione non si limita ad indagare le violazioni dei diritti umani dei passati regimi, come ha fatto ad esempio quella nominata nella Germania Unificata nella sua indagine sulla Stasi, la polizia comunista della Germania Orientale, ma cerca di far emergere, come ha fatto quella del Sudafrica, le violazioni portate avanti anche dalle opposizioni, che sono nel frattempo diventate la forza al potere. Un esempio di queste difficoltà sono le critiche dell’ANC alla Commissione Sudafricana ed i suoi tentativi di ostacolarne i lavori impedendo ai suoi membri di testimoniare, lavori che sono potuti continuare solo grazie alla minaccia di dimissioni del suo presidente Tutu, ed all'appoggio di Mandela.

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2) L'esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica

Ma prima di vedere se e come l'esperienza sudafricana può essere utile per la situazione del Kossovo sarà bene fare un'analisi, sempre sulla base del libro su citato di Flores, delle attività di questa Commissione, denominata appunto, come già detto "per la Verità e la Riconciliazione".
"Compito principale della Commissione era ricostruire, nel modo più completo possibile, il quadro della natura, delle cause e della diffusione delle gravi violazioni dei diritti umani compiute tra il 1 marzo 1960 [data della strage di Sharpville in cui la polizia aveva ucciso 69 partecipanti ad una manifestazione dell'opposizione e che era stata seguita dalla messa al bando delle organizzazioni antiapartheid] e la fine del 1993; offrire alle vittime la possibilità di rivelare e raccontare gli abusi di cui erano state oggetto; garantire l'amnistia alle persone che avessero reso piena confessione di ogni fatto rilevante legato ad azioni compiute per obiettivi politici; intraprendere misure di risarcimento, riabilitazione e ripristino della dignità umana e civile; rendere noti alla nazione i risultati raggiunti; suggerire raccomandazioni finalizzate ad impedire che in futuro si potessero ripetere le medesime violazioni dei diritti umani" (Flores, p. 19).
La Commissione, che è stata nominata - dopo una lunga selezione che aveva coinvolto molti organismi, sotto gli occhi dei media e lo scrutinio dell'opinione pubblica - sulla base dei meriti civili e delle competenze professionali ed umane, si è organizzata in tre sottocommissioni:
  1. il comitato per la violazione dei diritti umani
  2. il comitato per l’amnistia
  3. il comitato per il risarcimento e la riabilitazione
Data la vastità del territorio (1,2 milioni di chilometri quadrati) e la diversità delle aree, si è strutturata regionalmente in un ufficio centrale, uno interregionale, ed altri quattro uffici regionali. Questo è servito a ridurre le difficoltà logistiche di svolgere udienze, verbalizzare le deposizioni, compiere le indagini. Le principali modalità di raccolta delle informazioni sono state:
  1. le udienze (delle vittime; per eventi specifici; per categorie speciali - donne, ragazzi e bambini, militari; delle istituzioni; dei partiti politici)
  2. le indagini, per corroborare le testimonianze, verificarne la validità ed integrarle con altre informazioni
  3. le ricerche, attraverso la costituzione di un vero e proprio dipartimento apposito, per aiutare l'analisi e la contestualizzazione dell'enorme ammontare di dati, prove ed informazioni ricevute
La commissione, per garantirsi che nelle deposizioni delle vittime fossero contenuti il massimo numero possibile di informazioni di rilievo, aveva messo a punto un "protocollo" in base al quale strutturare e sistematizzare le prove offerte da ogni vittima. Questo doveva servire anche a promuovere l'uniformità e la coerenza del modo con cui venivano verbalizzate le deposizioni delle vittime. Molta importanza è stata data alla verbalizzazione delle testimonianze, molte delle quali si sono svolte sotto i riflettori della TV e gli occhi della stampa, e che dovevano servire, non solo a raccogliere informazioni sulle violazioni, ma anche ad aiutare le vittime a scaricare i loro sentimenti di frustrazione e di dolore attraverso la compartecipazione delle persone che le ascoltavano. Per i casi più gravi e per un aiuto ad esprimere questi sentimenti repressi era previsto anche un servizio di aiuto psicologico. Subito dopo venivano cercate le conferme alle deposizioni raccolte attraverso la ricerca di strumenti di corroborazione, come ad esempio le registrazioni dei tribunali, i documenti d'indagine, i certificati di morte, i ritagli di giornali, ecc.. Oppure ricercando nelle biblioteche o sul campo per mettere a fuoco i conflitti politici che avevano avuto luogo nelle aree dove erano avvenute delle gravi violazioni dei diritti umani. Particolarmente approfondite sono state le ricerche portate avanti dalla Commissione per l'amnistia. Questa ultima era infatti condizionata all'aver fatto una completa rivelazione dei fatti ed all'aver agito per fini esclusivamente politici, e non personali, ed ha portato a notevoli approfondimenti sui motivi ed i punti di vita di coloro che avevano commesso tali abusi ed a raccogliere importanti prove per determinare chi avesse autorizzato queste violazioni. La commissione ha potuto verificare (ma il dato, come essa stessa dice, è sicuramente in difetto, perchè molte persone non hanno avuto il coraggio o la voglia di venire a testimoniare) 21.000 casi di violazione dei diritti umani. Il 90% delle persone che hanno dichiarato di aver subìto abusi dei loro diritti facevano parte della comunità nera. Nella relazione finale la Commissione scrive, tra l'altro: "La maggior parte delle gravi violazioni dei diritti umani è stata commessa dal precedente stato attraverso i suoi apparati di sicurezza e le strutture di applicazione della legge. Inoltre lo stato sudafricano nel periodo compreso tra la fine degli anni '70 e dei primi anni '90 è stato coinvolto in attività di natura criminale quando, tra le altre cose, consapevolmente pianificò, condusse, accettò, nascose azioni illegali, comprese le esecuzioni extra-giudiziali di oppositori politici e altre persone, dentro e fuori il Sudafrica. (...) Le prove portate alla Commissione indicano (...) che dalla fine degli anni 70 i poliziotti di più alto grado - così come i comandanti della polizia, dei servizi segreti e dell'esercito - svilupparono una strategia per trattare con gli oppositori del governo. Questa strategia comprese, tra l'altro, gli omicidi extragiudiziari, dentro e fuori dal Sudafrica, di persone che si riteneva rappresentassero una sfida all'autorità dello stato." (Flores, p.224). In complesso la Commissione ritiene che lo stato abbia commesso, sia all'interno che all'esterno del Sudafrica, le seguenti violazioni dei diritti umani: torture; rapimenti; maltrattamenti (compresi gli abusi sessuali, il deliberato rifiuto di cure mediche, la distruzione di case ed uffici con incendi e sabotaggi, mutilazioni ); l'uso ingiustificato di forza eccessiva in situazioni dove misure meno forti sarebbero state sufficienti per controllare manifestazioni o arrestare persone sospette; la deliberata manipolazione delle divisioni sociali con l'intenzione di mobilitare un gruppo contro un altro, provocando, in questo modo, a volte, scontri violenti; l'armamento, il finanziamento e l'addestramento di stranieri per azioni militari contro altri governi sovrani della regione; le incursioni oltre i confini sudafricani con l'intenzione di uccidere o rapire oppositori che vivevano al di fuori del paese; le esecuzioni di oppositori politici; le esecuzioni extra-giudiziali sotto forma di omicidi pianificati ed eseguiti dallo stato, tentati omicidi, sparizioni, rapimenti, imboscate; l'addestramento clandestino, l'armamento o il finanziamento di gruppi paramilitari o squadroni della morte da mettere in azione all'interno del paese contro gli oppositori del governo (Ibid. pp. 224/225). Ma molte pagine del rapporto sono dedicate anche all'analisi delle violazioni fatte da membri dell'opposizione, in particolare dal Club di Calcio Mandela, guidato dalla ex-moglie del Presidente facente parte dell'ala militare dell'ANC, che ha commesso gravi violazioni dei diritti umani, con la creazione in certe zone di un "regno del terrore" con rapimenti, aggressioni, gravi pestaggi delle persone considerate traditrici della causa dei neri, mutililazioni, tentata uccisione o uccisioni di alcuni di loro. In particolare alcuni passaggi sono dedicati alla descrizione dell'uso, da parte degli stessi neri contro altre persone della stessa razza sospettate di tradimento o di spionaggio, del cosiddetto "collare di fuoco", e cioè il mettere loro al collo un copertone di bicicletta, cospargelo di benzina e dargli fuoco, con atroci sofferenze e spesso con la morte delle persone prese di mira.
Ma tre aspetti particolari del lavoro di questa Commissione meritano una trattazione più approfondita, e cioè
  1. l'amnistia
  2. il risarcimento e la riabilitazione
  3. la riconciliazione

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2.1) Amnistia

Ecco quello che dice D. Tutu, nella sua introduzione, rispondendo alle critiche su questo aspetto. "Quanti si sono preoccupati del futuro del nostro paese hanno temuto che le clausole dell'amnistia, tra le altre cose, potevano incoraggiare l'impunità dal momento che sembravano sacrificare la giustizia. Riteniamo sbagliata questa idea. Chi chiede l'amnistia deve ammettere di essere responsabile degli atti per i quali chiede di essere amnistiato, ed in questo modo viene affrontata la questione dell'impunità. Inoltre, salvo circostanze eccezionali, l'esame della richiesta di amnistia avviene in udienze pubbliche. Chi chiede l'amnistia deve perciò fare le proprie ammissioni alla luce del sole. Proviamo ad immaginare cosa significa tutto ciò. Spesso questa è la prima volta che la famiglia di chi presenta domanda di amnistia, o la comunità cui appartiene, scoprono che quello che in apparenza era una brava persona, era per esempio un torturatore incallito o un membro degli squadroni della morte che assassinarono numerosi oppositori del passato regime. Insomma c'è un prezzo da pagare, per l'amnistia. Le rivelazioni pubbliche portano ad un'umiliazione pubblica e talvolta un matrimonio finisce per diventare a sua volta un'altra povera vittima.... Certamente, l'amnistia non può essere considerata giustizia se pensiamo alla giustizia solo in termine di punizione e di castigo. Ma noi crediamo vi sia un altro genere di giustizia - una giustizia risarcitoria che non è tanto preoccupata della punizione quanto della correzione degli squilibri, della ricostituzione dei rapporti - attraverso la cura, l'armonia e la riconciliazione. Una tale giustizia si concentra sull'esperienza delle vittime, e da ciò deriva l'importanza del risarcimento" (Flores, pp. 72/73). E, su questo stesso argomento, parlando del caso dell'amnistia concessa ad uno dei più noti ed orgogliosi tortutatori della polizia sudafricana, questo è il commento del curatore del libro, Marcello Flores: "I dubbi iniziali, da sempre presenti in occasioni di amnistie promosse o effettive, rimangono: premiare chi ha il coraggio di raccontare il malfatto può essere una scelta giusta, ma resta la sensazione che il crimine, una volta riconosciuto, venga anche accettato. L'amnistia concessa dalla TRC (in inglese "Truth and Reconciliation Commission"), tuttavia, non è automatica. Non lo prevede la legge istitutiva anche se, a dispetto della convinzione di autorevoli commentatori, non vi è bisogno di pentimento, costrizione o del perdono delle vittime perchè possa venir garantita. Ma non lo è soprattutto se si guardano i numeri delle amnistie concesse rispetto a quelle richieste, quelle negate per carenza di motivazioni politiche e quelle per carenza di confessione dell'intera verità" (Flores, p. 53). Ed effettivamente questi numeri confermano una notevole rigidità della commissione. Al dicembre 1998 erano state presentate 7124 domande. Di queste sono state poi ritirate 48; rifiutate per mancanza di motivazione politica 2686; rifiutate per obiettivo personale 45; rifiutate per colpa negata 160; rifiutate per non piena confessione 91; rifiutate per mancanza di motivazione politica e per obiettivo personale 300; rifiutate per mancanza di motivazione politica e colpa negata 212; non applicabile per assoluzione 1; non applicabile per offesa non specificata 127; non applicabile perchè fuori giurisdizione 299; non applicabile perchè presentata fuori scadenza 565; amnistie concesse 216; decisioni in corso 337. Decisioni prese complessivamente 5111; in attesa 2013 (Flores, p. 63).
Ma malgrado il rischio accennato di accettazione della criminalità, anche qualche volta efferata, come fatto normale, non punibile, il Flores dà un giudizio in sostanza molto positivo del lavoro della Commissione. Scrive infatti: "La TRC non è solo, come è stato detto polemicamente, una sorta di pubblico confessionale dove in cambio di una piena confessione - ma non del pentimento - si ottiene la garanzia della propria immunità.... Quella che la TRC è riuscita a mettere in piedi è una sorta di circolo virtuoso in cui s'intrecciano ed alimentano a vicenda paura ed espiazione, rimorso e penitenza, minaccia e ricompensa e il cui scopo prioritario è di rintracciare il massimo di verità possibile.... La scelta di puntare sulla verità invece che sulla giustizia come cornice del processo di rivisitazione del passato vuol dire lasciare all'amnistia un ruolo importante ma non centrale e tantomeno unico, a dispetto delle polemiche che si concentrano su di essa; e valorizzare, invece l'esperienza vissuta, la percezione introiettata, la verità incardinata nelle singole narrazioni e il mito nascosto nella memoria comunitaria" (Flores, pp. 54/55). Ed un filosofo attivista dei diritti umani cileno, che ha fatto parte della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del suo paese ed ha collaborato alla fase costituente di quella del Sudafrica dice: "Talvolta è necessario scegliere tra verità e giustizia. Noi scegliamo la verità. La verità non riporta alla vita i morti, ma li libera dal silenzio.... L'identità è memoria. Le identità forgiate su mezzi ricordi o false testimonianze facilmente commettono trasgressioni" (Ibid. p. 55). "Osservatori internazionali - continua Flores a commento del lavoro della Commissione - hanno concordato che non si era mai visto al termine di alcun conflitto precedente - né in processi né in commissioni analoghe - un numero così alto di responsabili di crimini di entrambe le parti in lotta ammettere gli abusi commessi e raccontare in dettaglio il modo in cui li avevano compiuti" (ibid. p. 54). Come ha detto una studiosa di questo fenomeno in una conferenza a Washington: "Unita alle udienze dedicate alle vittime, questa onda continua di rivelazione, pena e occasionale richiesta di scusa sta avendo un impatto tremendo sulla società e mutando fondamentalmente la maniera con cui il paese comprende la propria storia" (Ibid.). Ed a conclusione di questo paragrafo sembra opportuno citare le parole di Tutu nella sua introduzione al rapporto della Commissione: "'Coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo' sono le parole che campeggiano all'entrata del museo del campo di concentramento di Dachau. Sono parole che faremo bene a tenere in mente. Per quanto possa essere un'esperienza dolorosa, non possiamo permettere che le ferite del passato arrivino a suppurazione. Devono essere aperte. Devono essere pulite. Devono essere spalmate di balsamo perchè possano guarire. Questo non significa essere ossessionati dal passato. Significa preoccuparsi che il passato sia affrontato in modo adeguato per il bene del futuro" (Flores, p. 71).

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2.2) Risarcimento e riabilitazione

E' questo un altro argomento che volevamo analizzare più a fondo prima di passare a vedere se e come l'esperienza del Sudafrica potrebbe essere utile anche per il Kossovo. La relazione della Commissione, nel capitolo dedicato a "La politica di risarcimento e riabilitazione", inizia così:
"Nel periodo esaminato alla maggioranza dei sudafricani erano negati i diritti fondamentali, compresi il diritto di voto e il diritto ad avere adeguata istruzione e abitazione, il diritto ad un sistema sanitario accessibile e il diritto ad un'igiene adeguata. Chi si opponeva all'apartheid fu soggetto a diversi tipi di repressione. Numerose organizzazioni e individui che si opposero al precedente stato vennero messi fuori legge o esiliati, le marce di protesta furono disperse, la libertà di parola venne inibita e migliaia di persone furono imprigionate. Tutto ciò ha provocato una terribile frustrazione e rabbia tra coloro che erano privati dei diritti fondamentali. Presto, ogni azione repressiva dello stato determinò un reciproco atto di resistenza e il conflitto sudafricano si trasformò in una spirale incontrollabile, con conseguenti orribili azioni violente e abusi sui diritti umani commessi da tutti coloro che parteciparono al conflitto. Nessuna parte della società sudafricana è sfuggita a quelle azioni e abusi"(Flores, p. 219).
Da questa premessa la Commissione fa scaturire l'indispensabilità di un risarcimento: "Le vittime degli abusi sui diritti umani hanno patito una molteplicità di perdite e per questo hanno diritto al risarcimento. Senza adeguate misure risarcitorie e di riabilitazione, non ci può essere guarigione o riconciliazione ... il risarcimento è essenziale per controbilanciare l'amnistia. La concessione di amnistia impedisce alle vittime di intentare un processo civile contro chi ha violato i loro diritti umani. Per questo il governo deve accettare la responsabilità del risarcimento ... senza adeguate misure di risarcimento e riabilitazione non sarà possibile alcuna guarigione o riconciliazione né a livello individuale né a livello comunitario. Per restaurare il benessere fisico e mentale delle vittime dovranno essere applicate misure più generali di risarcimento" (Ibid. p.220).
Le forme in cui prende forma questo risarcimento sono:
1) risarcimento temporaneo urgente: una forma di assistenza per le persone che sono in condizione di bisogno per garantire loro l’accesso a strutture e servizi adeguati;
2) sussidi di risarcimento individuale: la commissione raccomanda che chiunque sia stato vittima di gravi violazione dei diritti umani riceva un sussidio finanziario, determinato in base a diversi criteri e pagato per un periodo di sei anni;
3) risarcimento simbolico / misure amministrative legali: le prime sono misure per agevolare il processo collettivo di memoria e per commemorare le sofferenze e le vittorie del passato (ad esempio con memoriali o apertura di musei appositi) e quelle legali amministrative per assistere gli individui in una serie di pratiche (ad esempio per l’ottenimento di certificati, l’assistenza legale, ecc.)
4) programmi di riabilitazione comunitaria: la commissione propone che il governo organizzi strutture adeguate, anche dopo che essa abbia terminato i suoi lavori e sia stata sciolta, per promuovere l’ascolto delle vittime delle violazioni e per la guarigione ed il recupero degli individui e delle comunità che siano state colpiti da gravi violazioni dei diritti umani;
5) riforma istituzionale: sono misure legali, amministrative e istituzionali destinate a prevenire il ripetersi di abusi sui diritti umani. La relazione prosegue dando indicazioni precise su chi ha diritto queste forme di risarcimento.


2.3) Riconciliazione

Nelle conclusioni dei suoi lavori, oltre a dire quanto abbiamo già riportato sulle responsabilità dello stato negli anni analizzati, la commissione si preoccupa di capire le condizioni ambientali e istituzionali che hanno reso possibili quegli abusi: e cioè il clima di guerra fredda e della lotta ad oltranza contro il comunismo; il contesto dell’apartheid e della politica coloniale portata avanti dal partito allora al potere; l’ideologia del razzismo, che ha teso a vedere "l’altro", la persona di colore, come diverso, meno capace ed intelligente, necessitante perciò di uno "sviluppo separato". Ma questo non tanto per giustificare le violazioni dei diritti umani, ma per distinguere la responsabilità individuale da quella collettiva. "Se le violazioni di diritti umani - si dice nella relazione finale - possono essere considerate come demoniache, è controproducente considerare necessariamente demoniaco chi ha commesso quelle violazioni. Se dovesse essere sostenuta questa posizione, il lavoro della Commissione a favore della riconciliazione sarebbe del tutto inutile" (Ibid. p. 230). Questo significa che la commissione ha ritenuto che ci sia stata la possibilità che, almeno in alcuni casi, i responsabili delle violazioni potessero essere considerati anche delle vittime, che si sono lasciate trascinare a fare quello che hanno fatto a causa dell’influenza di quei fattori ambientali su accennati. Anche se in questo tentativo di comprendere le ragioni di coloro che hanno commesso dei gravi abusi dei diritti umani ci sono già le premesse per una successiva riconciliazione, questa risulta soprattutto dalle raccomandazioni finali del rapporto della Commissione. Queste, nel capitolo sull’impegno alla riconciliazione ed all’unità nazionale, recitano così: "La Commissione, convinta che la riconciliazione sia un processo vitale e necessario per una pace duratura e per la stabilità, invita tutti i sudafricani a:
- accettare il nostro bisogno di guarire; avvicinarsi agli altri sudafricani con spirito di tolleranza e di comprensione; impegnarsi a costruire ponti per superare le differenze di lingua, credo e storia; sforzarsi costantemente, nel processo di trasformazione, di essere sensibili alle esigenze di quei gruppi che sono stati particolarmente svantaggiati in passato, soprattutto le donne e i più giovani;
- incoraggiare la cultura del confronto così che, insieme, si possano risolvere le questioni impellenti della nostra epoca;
- dare vita a programmi di azione nelle nostre sfere di interesse e influenza, che siano l’istruzione, la religione, gli affari, il lavoro, le arti o la politica, così che il processo di riconciliazione possa essere sviluppato a partire dalla base;
- affrontare la realtà dell’esistente discriminazione razziale e lavorare per una società non razziale;
- chiedere ai leaders locali, provinciali e nazionali di porre l’obiettivo della riconciliazione e dell’unità in cima ai rispettivivi programmi" (Flores, p. 235).
La Commissione propone poi di organizzare, entro la fine del 1999, una Conferenza Nazionale sulla Riconciliazione per valutare le sue raccomandazioni e per garantire il massimo coinvolgimento in questa direzione da parte dei rappresentanti di tutti i settori della società.
Affrontando poi la critica che le era stata fatta di aver lavorato più per la verità che per la riconciliazione, essa replica che "se non sempre la verità può portare alla riconciliazione, non ci può essere una sincera e durevole riconciliazione senza verità" (Flores, p. 236). Ma che per arrivare alla riconciliazione - proseguono le raccomandazioni - c’è bisogno dell’impegno di tutto il popolo, è necessario che si sviluppi una forte cultura dei diritti umani, che il governo elabori un progetto per far sì che coloro che hanno tratto profitto dall’apartheid contribuiscano ad alleviare la povertà, ad esempio con una tassa sulla ricchezza, che c’è anche bisogno di una lotta alla criminalità, basata su un controllo su base comunitaria, e la predisposizione di particolari archivi che proteggano dalla distruzione e dall’incuria tutto il materiale già raccolto o altro raccoglibile. La commissione prende infine in esame lo strumento dell’epurazione per coloro che si sono macchiati di violazione dei diritti umani e cioè la dequalificazione della persona per certe cariche e impieghi pubblici o il suo allontanamento da un certo ufficio, come era stato fatto in altri paesi. Dopo aver valutato il pro ed i contro essa non lo raccomanda "perché ha ritenuto che sia uno strumento inappropriato per il contesto sudafricano" (Flores, p. 237). Ma ritiene comunque importante che prima di fare una nomina, od una segnalazione per un incarico, i partiti politici e gli organismi statali "dovrebbero tenere in considerazione le rivelazioni derivate dal lavoro della Commissione" (dalla prefazione del Presidente della Commisione, D. Tutu, a pag. 68 del libro di Flores). Vengono poi riportati alcuni esempi positivi di riconciliazione. Il primo tra due città vicine i cui abitanti erano stati coinvolti in aspre lotte reciproche. L’impegno alla riconciliazione è partito da una grande funzione interreligiosa durante la quale gli abitanti delle due città si sono impegnati alla riconciliazione ed alla coesistenza pacifica, cerimonia che è stata l’inizio di un processo attraverso il quale gli abitanti dei due centri hanno raggiunto un livello di accettazione del passato e di tolleranza reciproca considerato soddisfacente. Il secondo in una Facoltà di Scienze della Salute di una Università del Sudafrica. In questa è stata istituita una Commissione per la Riconciliazione (Cir) con lo scopo di documentare le modalità con cui la Facoltà, in passato, era stata coinvolta nei processi di emarginazione razziale, ma anche i tentativi di resistenza a questa politica da parte di alcuni docenti, e di come per questo fossero stati discriminati. Lo scopo finale era quello di aprire la strada ad un processo interno di riconciliazione sia tra docenti che con gli studenti. Per chiudere questa analisi mi sembra importante riportare le conclusioni della relazione, nel capitolo, appunto, sulla "Riconciliazione". "Il lavoro della Commissione dissolve ‘il mito che le cose possono essere fatte con la bacchetta magica, e invece riunisce le persone così che possano lavorare insieme. Ci sono stadi successivi di riconciliazione’.
In questo capitolo sono state evidenziate le seguenti fasi.
- La riconciliazione non si raggiunge facilmente, richiede tempo e costanza.
- La riconciliazione si basa sul rispetto per l’umanità.
- La riconciliazione coinvolge una forma di giustizia restaurativa che non vuole vendetta, non dà impunità. Nel restituire l’esecutore alla società è necessario che emerga una condizione sociale al cui interno lo stesso possa contribuire a costruire la democrazia, una cultura dei diritti umani e la stabilità politica. La piena rivelazione della verità e la comprensione del perché sono avvenute le violazioni incoraggia il perdono. Egualmente importante è la disponibilità ad assumersi la responsabilità per le violazioni dei diritti umani compiute in passato.
- La riconciliazione non cancella la memoria del passato. E’ invece motivata da una forma di memoria che sottolinea il bisogno di ricordare senza eccessive sofferenze, amarezze, sete di vendetta, paura o colpa. La riconciliazione comprende l’importanza vitale di imparare dal passato e di affrontare le passate violazioni per il bene del nostro presente e del futuro dei nostri figli.
- La riconciliazione non comporta necessariamente il perdono. Implica un minimo desiderio di coesistere e lavorare per affrontare in modo pacifico le reciproche differenze.
- La riconciliazione richiede che tutti i sudafricani accettino la responsabilità morale e politica di nutrire una cultura dei diritti umani e della democrazia nella quale i conflitti politici e socioeconomici siano affrontati in modo serio e non violento.
- La riconciliazione richiede un impegno, soprattutto da parte di coloro che hanno avuto benefici dalle passate discriminazioni e continuano ad averne, per la trasformazione delle ineguaglianze e della disumanizzante povertà." (Ibid. p. 243)

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3) Kossovo e Sudafrica: c'è qualcosa da imparare?

Vorrei subito togliere un dubbio al possibile lettore di queste note. Quello cioè che io stia cercando di dare delle lezioni al popolo kossovaro su ciò che deve fare nella circostanza attuale di ritorno della libertà e della democrazia. Non credo che né io né altri possiamo dare loro delle lezioni. Le bellissime lotte nonviolente dei kossovari per resistere contro l’illegale eliminazione dei diritti che avevano sulla base della Costituzione del 1974, o quelle degli studenti albanesi del Kossovo per riavere le strutture universitarie che avrebbero dovuto essere loro restituite sulla base dell’accordo tra Milosevic e Rugova facilitato dalla Comunità di Sant’ Egidio di Roma, non applicato per più di un anno, ed infine il bellissimo movimento della riconciliazione per il superamento della tradizione della vendetta e per la rivalorizzazione invece del principio del perdono e della riconciliazione, che facevano parte della stessa Legge, ma che erano stati emarginati, mostrano una notevole e costante volontà di pace e di nonviolenza di questo popolo. E mostrano anche una sua grande capacità di organizzare manifestazioni di massa nonviolente, anche con una notevole inventiva; basti ricordare, nel 1988, il digiuno dei minatori di Trepça contro il progetto serbo di eliminazione delle prerogative statuali della costituzione del Kossovo; o, l’anno dopo, la presa in giro del coprifuoco, dai terrazzi e dalle finestre delle case, attraverso i rumori dei barattoli battuti dalle chiavi, a significare che la maggioranza della popolazione era albanese e che prima, o dopo, avrebbe avuto lei il diritto di aprire la porta; o la marcia a fila indiana, di un’ora tutti i giorni, degli operai del sindacato del Kossovo licenziati dai loro impieghi, con lo slogan "Noi siamo per il dialogo, e voi?"; ed il bellissimo funerale della violenza (1991) per stimolare tutti gli abitanti della Jugoslavia a cercare formule pacifiche per la convivenza delle varie nazionalità che la componevano e per la soluzione dei problemi generali del paese, senza ricorrere ad una guerra "fratricida"; o più recentemente, alla fine del 1997, la bellissima manifestazione nonviolenta organizzata dal sindacato studenti universitari di Pristina per chiedere la reale applicazione dell’accordo sulle scuole firmato più di un anno prima da Milosevic e Rugova, ma mai implementato, con la lettura, da parte degli studenti, di un "decalogo" di comportamento nonviolento che è considerato, a livello internazionale, uno dei più belli e maturi mai elaborati da studenti universitari di qualsiasi paese; oppure la notevole originalità ed inventiva delle manifestazioni nonviolente delle donne kossovare, nel marzo 1998, come, ad esempio, quella del foglio bianco per chiedere che il gruppo di contatto prendesse delle decisioni serie sul Kossovo, o la marcia del pane, per portare da mangiare alla popolazione della Drenica assediata dalle truppe e dalla polizia serba. Ed il fatto che la Comunità Internazionale, invece, per occuparsi realmente dei problemi della zona, abbia aspettato che si superasse la lotta nonviolenta e che si arrivasse a scontri armati tra le due parti in lotta, mostrano invece, da parte di questa, una scarsa sensibilità alla prevenzione del conflitto armato, ed una sua non comprensione del linguaggio della nonviolenza. Mi viene sempre in mente la frase - che cito a memoria sicuro di tradire le sue esatte parole ma non certamente il senso del discorso - dettami da un noto intellettuale albanese, mio amico, in una intervista fattagli alla fine del 1995. "Noi stiamo lottando da anni con la nonviolenza per i nostri diritti. Ed abbiamo ancora energie per portare avanti questa lotta per un certo tempo. Ma se la Comunità internazionale non ci ascolta e dimostra di capire solo il linguaggio delle armi e non quello della nonviolenza, saremo costretti anche noi a prendere le armi anche se questo, dati gli squilibri di forze tra noi e i serbi, potrà forse portare alla distruzione del nostro popolo". La distruzione totale non c’è stata ma quante persone del Kossovo hanno perso la vita, le case, o i loro parenti o amici, a causa di questa insensibilità e di questi ritardi della Comunità Internazionale? Per questo non credo che qualcuno possa dare delle lezioni ai kossovari che possono trovare nella loro storia e nelle loro tradizioni la forza e le abilità per superare l’attuale situazione di ritorno alla libertà ed alla pace, ma anche di notevole confusione, situazione che amici kossovari definiscono così : "Siamo come nel Texas, vince chi è più forte ed ha meno scrupoli". Ma questo lavoro nasce anche su invito di alcuni di questi amici che sono stati attivi nel movimento della riconciliazione guidato dall’indimenticabile Anton Cetta - movimento che abbiamo cercato di far conoscere anche nel nostro paese - che ci hanno chiesto una mano per rivalorizzare questa esperienza storica in questa particolare situazione in cui la guerra ha rinfocolato gli odi reciproci ed in cui la possibilità di convivenza e coesistenza interetnica è ridotta al minimo ed il desiderio di vendetta, da parte dei Kossovari che si vedono finalmente liberati dagli oppressori, è invece altissimo. L’esperienza del Sudafrica ci è sembrata particolarmente interessante ed istruttiva, date le simiglianze dei due sistemi di "apartheid". Ma per lasciare agli stessi kossovari il compito di trarne i possibili insegnamenti, ho dato molto spazio alla sua analisi ed alla sua illustrazione, per spiegarne le ragioni, le modalità di lavoro, i risultati raggiunti ed i limiti. Quello che segue vuole essere solo, da sociologo, un modesto contributo ad una analisi comparativa tra le due situazioni per cominciare a vedere quanto di questa può essere utile nella situazione attuale del Kossovo. Abbiamo già visto alcune somiglianze ed alcune differenze. Rivediamole insieme. Le principali somiglianze sono quelle che ambedue i paesi hanno avuto, per molti anni, un regime di "apartheid" che ha visto commettere dalla polizia e dagli apparati dello stato o dai gruppi paramilitari da questo coperti (controllati dalla minoranza, bianca nel Sudafrica, serba del Kossovo) crimini notevoli e continue violazioni dei diritti umani. E che ambedue i paesi hanno superato questa situazione (sia pur con modalità diverse) e si sono trovati, nel caso del Sudafrica, o si troveranno, nel caso del Kossovo, a fare i conti con questo passato, per farlo emergere completamente alla luce e per cercare delle forme di riparazione dei crimini e delle violazioni di diritti umani perpetrati. La soluzione raggiunta nel Salvador e nell’Argentina, con una amnistia generale, sarebbe una beffa totale per la persone uccise, torturate, private della casa, per le donne violentate, ecc. ecc. Quindi si pone il problema di come affrontare i crimini commessi, se non si vuole continuare il trend attuale che sembra essere quello dell’incriminazione di tutta la popolazione serba e rom e del riemergere della tradizione della vendetta, superata qualche anno fa dal bel movimento di Anton Cetta. Una vendetta senza regole contro queste minoranze che sta provocando, da parte di queste, per una paura non del tutto ingiustificata, dati i frequenti episodi di uccisioni e sequestri, la fuga quasi in massa da questo territorio. Certo che se l’obiettivo degli albanesi del Kossovo fosse quello della pulizia etnica rovesciata - prima erano i serbi che la portavano avanti ora sarebbero gli albanesi - questo non sarebbe un problema ma una soluzione. Ma i politici albanesi di questa regione hanno sempre rifiutato un tale obiettivo ed hanno sempre sostenuto di volere un Kossovo multietnico. Ed anche la Comunità Internazionale non sembra disposta ad accettare questa pulizia etnica rovesciata. Quindi il problema della ricerca di una giustizia senza vendetta è all’ordine del giorno.Ma qui vengono anche alla luce le differenze tra il Sudafrica ed il Kossovo. Due di queste le abbiamo già viste: - il fatto che la maggioranza oppressa abbia portato avanti, in Sudafrica, una strategia prevalentemente armata, nel Kossovo invece una nonviolenta, che rende ancora più atroci gli abusi commessi dagli oppressori; - la seconda, la modalità con cui è stato superato il regime dell’"apartheid" - in Sudafrica attraverso un processo consensuale, nel Kossovo attraverso una guerra in cui sono stati commessi altri, e forse ancora più gravi, crimini, rispetto a quelli delle fasi precedenti ed in cui l’intervento della Comunità Internazionale è stato determinante. Ed un’altra differenza tra i due paesi è legata a questo diverso processo. Nel Sudafrica è prevalso, sulle differenze, il senso di appartenenza allo stesso paese e quindi un forte senso di unità nazionale che ha aiutato molto il processo di ricerca della verità e di riconciliazione, mentre nel Kossovo questo non esiste. Quasi nessun kossovaro è disposto ad accettare quell’autonomia interna alla Serbia, sia pur transitoria, che era prevista negli accordi di Rambouillet che la delegazione albanese ha sottoscritto. E tutti loro considerano valido, per la fase transitoria, non tanto l’autonomia, quanto il regime di protettorato internazionale che si è venuto ad instaurare nel dopo guerra. Ed un’altro elemento importante che ha caratterizzato il processo in Sudafrica, sottolineato dalle stesse parole del presidente della Commissione che parla dell’importanza, per la riparazione dei crimini, della deposizione in piena luce davanti alla televisione vista da tutti i parenti e conoscenti, è il fatto che nel Sudafrica, malgrado i tanti dialetti, la lingua ufficiale accettata da tutti, ed in cui veniva trasmessa la TV, era l’inglese. Nel Kossovo non c’è mai stata una lingua ufficiale unica, tranne nel tentativo dei serbi, dopo le modifiche costituzionali del 1989/90, di imporre come tale il serbo nella versione cirillica, tentativo però mai accettato dalla maggioranza albanese. Perciò manca qui il collante di una lingua unica e tali dichiarazioni, per poter avere l’effetto avuto in Sudafrica, dovrebbero essere fatte ad una televisione bilingue e vista ugualmente dai serbi e dagli albanesi, il che è ancora da fare. Inoltre in Sudafrica le persone, se volevano restare, dovevano accettare di deporre davanti alla Commissione e confessare pubblicamente i propri crimini (se aspiravano all’amnistia), altrimenti avrebbero dovuto accettare l’esilio od una eventuale incriminazione giudiziaria. Nel Kossovo i primi ad autoesiliarsi sono stati proprio quei gruppi della polizia, o delle squadre paramilitari, e dei profughi di altre zone costretti a venire nel Kossovo, che sono stati spesso armati ed inquadrati tra i gruppi paramilitari e che hanno commesso la maggior parte dei crimini perpetrati. E questi non hanno certo intenzione di tornare nel Kossovo per essere sottoposti ad interrogatori quali quelli portati avanti da una Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Quindi una soluzione del genere si potrebbe avere solo con un cambiamento totale di governo a Belgrado, con una reale democratizzazione anche di quel paese e con un accordo bilaterale tra il nuovo governo e quello del Kossovo per portare avanti, insieme, un processo di scoperta della verità e di riconciliazione. Ma di questo cambiamento non sembrano esserci le premesse né a Belgrado, né nel Kossovo. In questo paese, infatti, la popolazione albanese considera chiusa la propria esperienza di convivenza con il popolo serbo. C’è un altro problema che sottolinea le differenze. E cioè il fatto che in Sudafrica, proprio per quelle ragioni di unità rispetto alle differenze, si è privilegiata la verità rispetto alla giustizia. Il racconto del torturatore incallito della polizia sudafricana che svela, quasi con orgoglio, tutti gli aspetti del proprio comportamento senza dimostrare alcun pentimento reale e che viene amnistiato per essere stato sincero, fa sorgere grossi dubbi su procedimenti che privilegiano la verità sulla giustizia; ed hanno fatto prendere le distanze, di cui abbiamo già parlato, allo stesso curatore del volume che pure parla di questa esperienza con estrema positività (Flores, p.53). D’altra parte, nel Kossovo, per alcune di queste stragi, come quella di Drenica, si è già cominciato ad interessare il Tribunale dell’Aia per i Crimini di Guerra nella Ex-Jugoslavia, che pure ha messo sotto processo importanti ispiratori o protagonisti di questi crimini, come Milosevic ed Arkan. Quindi la strada della "giustizia" si è già messa in moto ed è giusto che veda avanti. Ma è sufficiente? E basta questa a soddisfare il bisogno di vendetta dei Kossovari vittime dei crimini e dell’ingiustizie? E non rischia questa di essere quella che Tutu definisce la "giustizia del vincitore" (Flores, p. 70), che tiene conto solo dei crimini commessi dai vinti e non di quelli, pur sicuramente meno numerosi, degli stessi vincitori, siano degli albanesi del Kossovo e del suo UCK (o di frangie di questo uscite dal controllo della sua leadership), sia della stessa Nato? Ed è sufficiente, in queste circostanze, ricorrere eslusivamente alla giustizia "punitiva" senza tener conto della necessità di avere anche una giustizia "riparativa", che tenga conto anche delle singole situazioni di quelle che sono state le vittime delle gravi violazioni dei diritti umani? Sono questi alcuni dei problemi che si pongono ed a cui cercheremo di dare una prima, sia pur provvisoria, risposta, in attesa che su questo si apra un dibattito tra gli stessi kossovari e tra le O.G. che controllano questa zona. E’ certo che, parlando con gli albanesi vittime dei soprusi, essi non si accontentano di questa giustizia: per loro è troppo lenta, ci mette anni prima di prendere delle decisioni, si concentra solo su alcuni casi, lasciando fuori tutti gli altri, tante volte dà delle condanne che loro trovano illusorie ed inadeguate, nei confronti dei crimini commessi, condanne che spesso, per l’irreperibilità del condannato, non vengono nemmeno eseguite. Per questi motivi molti di loro ci hanno espresso il desiderio di farsi giustizia da soli, come, del resto, si era soliti fare nel leggendario Texas. Una critica sensata della giustizia dei vincitori viene anche da Flores, il curatore del volume esaminato, nella sua introduzione. Egli scrive: "I risultati complessivi della giustizia dei vincitori sono stati, tranne forse che sul piano simbolico, largamente deludenti: il numero dei responsabili dei crimini che ha pagato il proprio conto con la giustizia è stato così esiguo da apparire ridicolo, a dispetto di norme che spesso intendevano colpire categorie molto ampie di persone; le vittime non si sono sentite risarcite mentre i persecutori si sono sentiti perseguitati più del lecito; la società è stata apparentemente pacificata ma ha lasciato divisioni che sono periodicamente riemerse con risentimenti, lacerazioni e desideri di vendetta...... I tempi lunghi e spesso lunghissimi per procedimenti giudiziari e l’attribuzione della giustizia a una magistratura rimasta sostanzialmente la stessa dei regimi che era chiamata a giudicare sono stati dovunque i fattori che più hanno contribuito a ridimensionare e deludere le aspettative indotte dalla giustizia dei vincitori" (Flores, pp. 21/22). "Scegliere la via giudiziaria non ha favorito la costruzione incontrovertibile della verità storica, come del resto dimostrano i processi che si sono avuti negli ultimi anni..... - continua Flores - La scelta giudiziaria, anche quando è storicamente possibile la giustizia dei vincitori, rende protagonisti in modo prevalente i criminali e i giudici, relegando a un luogo marginale le vittime.... gli imputati hanno il diritto alle garanzie previste per la difesa in uno stato di diritto, che si concretizzano spesso in rinvii, attenzione alle formalità procedurali più che alla sostanza delle accuse, possibilità di chiamare a testimoniare le vittime con modalità che nella maggior parte dei casi servono solo a porle in posizione subordinata e passiva e a rinnovare le passate sofferenze" (Ibid. pp.22/23). Queste sono alcune delle ragioni che portano Flores a riconoscere l’importanza e la novità del lavoro della Commissione Sudafricana, che ha posto al suo centro proprio le voci delle vittime e dei loro familiari, che sono state ascoltate in ogni parte del paese per sei mesi prima di lasciar parlare anche i loro carnefici di fronte alla Commissione per l’amnistia (Flores, p. 24).
Da quanto detto finora potrebbe farsi strada una proposta, e cioè quella di non considerare la giustizia del Tribunale dell’Aia e la verità raccolta da una commissione appositamente costituita come alternative l’uno all’altra, ma piuttosto come complementari. Di mantenere aperta la giustizia del Tribunale per gravi e sistematici crimini e violazioni dei diritti umani, commessi da persone che difficilmente sono restati nel Kossovo e che dovranno essere cercati e perseguiti in Serbia od in altri paesi del mondo suoi alleati. E di aprire invece una Commissione per la Verità e la Giustizia nel Kossovo, cui partecipino membri del Consiglio per i Diritti Umani e della Libertà di Pristina, che tanto ha lavorato in questi anni per raccogliere le testimonianze delle vittime dei soprusi della polizia e dei paramilitari serbi, e del il Fondo per la Legge Umanitaria di Belgrado che ha raccolto anche, oltre ai primi, dati sui soprusi fatti alla minoranza serba o di altre nazionalità nel Kossovo. Ma a questa commissione dovrebbero partecipare anche personalità del mondo internazionale, come ad esempio membri di associazioni come Amnesty International o HCA, che già in passato si sono occupate di tali violazioni e delle Organizzazioni Governative che si occupano di questi temi, in particolare l'UNCHR. Questa Commissione dovrebbe ascoltare le testimonianze delle tante vittime, non solo di una parte ma anche dell’altra, e individuare criteri per un'eventuale amnistia individuale, e non collettiva, per coloro che hanno commesso dei crimini minori e che abbiano solo agito credendo di fare il proprio dovere, che accettino di testimoniare e che desiderino restare, o ritornare, in questa stessa regione in cui spesso sono nati o in cui hanno vissuto per tanti anni. E’ una proposta assurda? La mia è una provocazione aperta alle confutazioni, alle discussioni od a proposte alternative che non siano quelle di lasciare le cose come sono attualmente (il rischio di anni di vendetta generalizzata e di mantenimento del clima da Texas è grande) o di dare tutto nelle mani di un Tribunale all’Aia che potrà ragionevolmente perseguire solo un ristretto numero di criminali, e non gli altri, lasciando nella popolazione comune un grande senso di frustrazione e di rabbia ed il desiderio, perciò, di ricorrere alla giustizia personale.

Pristina, 9 agosto 1999
ALBERTO L'ABATE

 

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