Nigrizia 7-8/97 - EDITORIALE

 

 

 

UN CHE GUEVARA PACIOCCONE?

Visto Kabila all'opera, autorevoli analisti politici e commentatori di importanti giornali italiani (segnatamente La Repubblica, La Stampa, Diario della settimana dell'Unita') - in buona compagnia con vari colleghi internazionali (Le nouvel Afrique-Asie, anche Jeune Afrique...) - hanno parlato di svolta epocale e salutato il risvegliarsi di positivi protagonismi finalmente tutti africani. Alcuni lo hanno fatto incentrando la loro analisi sulla figura di Mobutu e sulle devastazioni che la sua piu' che trentennale dittatura ha arrecato allo Zaire e all'intera area dei Grandi Laghi. Come dire: chiunque governi ora non potra' far peggio di lui. Altri hanno voluto sottolineare che i leader al potere dall'Eritrea al Congo/Zaire, dall'Etiopia al Sudafrica, dall'Uganda al Rwanda, sono tutto sommato in sintonia tra di loro e cio' non puo' che portar del bene all'Africa. Altri ancora, non dissimulando un velo di nostalgia per climi e per ipotesi rivoluzionarie anni '60, hanno trovato nella fulminea avanzata del guerrigliero Kabila - immaginato come un Che Guevara pacioccone - una rivincita liberatoria dopo tante frustrazioni ideologiche. Ma sono proprio queste argomentazioni, con l'angusto angolo di visuale che le caratterizza, a rendere traballanti le conclusioni, e cioe' che Kabila sia un liberatore. Del resto non e' con argomenti altrettanto angusti - generalmente partoriti stando in un comodo albergo a Kigali - che fior di inviati hanno dipinto Paul Kagame, l'uomo forte del Rwanda, quale colomba tutta tesa al bene comune e liquidato in poche battute il dramma dei profughi rwandesi? Non possiamo di sicuro essere tacciati di mobutismo, e anzi siamo i primi ad augurarci che l'Africa si dia dei leader retti e capaci. Ma questo non ci esime dal dovere di osservare la crisi dei Grandi Laghi con l'occhio del disincanto. Il che significa, prima di tutto, collocare gli eventi - e gli interessi politici ed economici che li determinano - in un contesto africano ed internazionale piu' che mai effervescente. Significa poi interpretare il gioco di alleanze incrociate, per certi versi innaturali, e capaci di azzerare i diritti umani fondamentali; seguire le acrobazie geopolitiche degli Stati Uniti e i singulti della Francia; scavare nelle biografie dei protagonisti; interrogarsi sul ruolo della chiesa. E' quello che facciamo nel dossier che occupa buona parte di questo numero.

 

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DOSSIER

 

Congo/Zaire

E' NATA UNA STELLA...

 

Mobutu Sese Seko - dittatore e cleptocrate - e' uscito di scena lo scorso 17 maggio dopo 32 anni di dominio incontrastato e di servigi resi di volta in volta a Belgio, Francia, Usa. Ora lo Zaire, ribattezzato Congo, ha un nuovo padrone: si chiama Laurent-De'sire' Kabila, in sette mesi ha conquistato la nazione partendo da est. Un liberatore? Non sembra questa la definizione che piu' gli si addice. Specialmente se si considera lo scempio che le sue truppe hanno fatto di migliaia di profughi rwandesi nel Kivu, se si vanno a guardare i compagni di viaggio che lo hanno scortato fino a Kinshasa e se ci soffermiamo sugli interessi regionali (Uganda, Rwanda, Burundi, Angola) e internazionali (lo scontro Francia-Usa, l'affacciarsi del Sudafrica, primo paese a riconoscere il nuovo regime) che hanno alimentato il conflitto. A giudicare dai primi atti compiuti dal "liberatore" - vietate le attivita' dei partiti, eventuali elezioni non prima di due anni, indottrinamento sistematico - non si preparano giorni facili per la gia' estenuata popolazione zairese. Ma questo e' un dettaglio trascurabile nella geostrategia degli Usa, veri vincitori nei Grandi Laghi.

di Angelo Turco e François Misser

 

 

Implicazioni economico-finanziarie / 2

RISCOSSA USA

di François Misser

 

Con la fine del mobutismo si ridisegna la mappa economica dello Zaire. Ecco come. Le multinazionali nordamericane, assenti fino a circa un anno fa dallo Zaire, occupano ora posizioni-chiave nei settori del cobalto e dell'oro, e s'intromettono in quello dei diamanti. L'evento principale e' stato, lo scorso aprile, la firma di un contratto di un miliardo di dollari per lo sfruttamento e la lavorazione dei giacimenti di zinco, rame e cobalto di Kolwezi e Kipushi, nello Shaba, con la compagnia American Mineral Fields (Amf), la cui sede principale e' a Hope nell'Arkansas, lo stato di Bill Clinton, e il cui azionista principale, il mauriziano Jean-Raymond Boulle, e' un amico personale del presidente americano. Boulle si era guadagnato i favori di Kabila prima che conquistasse Kinshasa, mettendogli a disposizione il proprio aereo personale. Di rimando Kabila ha autorizzato il fratello di Boulle, a capo della American Diamond Buyers, ad aprire un banco d'acquisto di diamanti a Kisangani. L'Amf, va ricordato, possiede anche una filiale in Zambia, specializzata nel settore dell'oro; e' poi attiva nello sfruttamento dei diamanti in Sierra Leone e nel Lunda Norte angolano, in collaborazione con la "societa' di sicurezza" delle Antille olandesi, la International Defense and Security (Idas). Ha ottenuto trattamenti di favore l'Eurocan Consolidated Ventures (Canada), che ha siglato a fine 1996 con il governo Kengo un contratto da 1,5 miliardi di dollari per lo sfruttamento dei giacimenti di rame e cobalto di Tenke-Fungurume (le cui riserve possono soddisfare la domanda mondiale per 30 anni) e Kabila ha assicurato che l'accordo sara' rispettato. E poi la societa' americano-canadese Barrick Gold ha ottenuto dal governo Kengo il permesso di esplorare 81 mila kmq nell'Alto Zaire: difficile che Kabila rimetta in questione l'accordo anche perche' ai vertici della Barrick Gold c'e' Vernon Jordan, uomo di Clinton e dell'ex presidente George Bush. Il fatto che gli Usa abbiano bloccato nei mesi scorsi qualsiasi intervento umanitario in favore dei profughi hutu - intervento che avrebbe potuto ritardare la conquista del paese da parte dell'Alleanza - e' spiegabile anche con i vantaggi procurati dal mutamento di regime alle imprese americane. Inoltre, fanno notare esperti europei di servizi d'informazione, negli ultimi mesi Kabila ha incontrato sovente Richard Orth, consigliere militare americano all'ambasciata di Kigali (nominato subito prima dell'offensiva lanciata lo scorso ottobre), ed e' stata segnalata da piu' fonti la presenza di ex funzionari del Pentagono come consiglieri dell'Afdl.

Interessi sudafricani a rischio

Per contro non si puo' certo dire che le multinazionali sudafricane abbiano ottenuto lo stesso trattamento di favore. L'Anglo American non e' apparsa che in seconda linea, dietro la ghaneana Ashanti Goldfields interessata ad un progetto aurifero di 25 milioni di dollari nell'Alto Zaire. Ma e' soprattutto con la De Beers che le relazioni dell'Afdl sono difficili: lo testimoniano le dichiarazioni del ministro dell'economia e delle finanze Mwana Panga Mwana Nanga che condanna "le riserve di caccia e i monopoli". Cosi' l'accordo di esclusiva sulle vendite della produzione della Miniera di Bakwanga (Miba), unica impresa indutriale del settore dei diamanti, in mano alla Britmond, filiale della De Beers, e' stato annullato.

Un'altra controversia si e' innescata tra De Beers e Afdl dopo la conquista di Mbuji-Mayi, all'inizio di aprile, a proposito di un lotto di diamanti del valore di tre milioni di dollari per il quale l'Alleanza ha preteso dai sudafricani un "premio supplementare" di due milioni. Ma ci sono anche altri concorrenti interessati alle miniere. Secondo il settimanale di Kampala The People, la Caleb International di proprieta' del fratellastro del presidente ugandese Museveni, il maggiore-generale Salim Saleh, avrebbe sollecitato da Kabila l'ottenimento di concessioni aurifere nell'est dell'ex Zaire come ricompensa dei servizi resigli dall'Uganda.

L'Alleanza tuttavia rischia di imparare a proprie spese che non puo', senza qualche serio danno, mettere in discussione gli interessi sudafricani. Il 5 maggio e' stata chiusa l'attivita' della Socie'te' internationale zaïroise du rail (Sizarail), una societa' privata belgo-sudafricana che gestiva le reti ferroviarie della compagnia nazionale delle ferrovie dello Zaire (Sncz) nel Sud e nell'Est. Il compito della Sizarail, iniziato a meta' del 1995, e' stato coronato dal successo, con un aumento del traffico ferroviario del 58%, per la soddisfazione dei contadini dello Shaba, che possono commerciare i loro prodotti, e degli abitanti del Kasai, contenti di ricevere merci agricole fresche.

Questi buoni risultati non hanno impedito all'Afdl di imporre alla direzione della Sizarail la cessione delle proprie strutture alla Sncz, ribattezzata Socie'te' Nationale des Chemins de fer du Congo. Il personale sudafricano e' stato cacciato con la forza dagli uffici di Lubumbashi e i beni razziati dai soldati dell'Alleanza. Questa "congolizzazione selvaggia" ha indotto la potente societa' ferroviaria sudafricana Spoornet, azionista della Sizarail, a bloccare dei convogli giunti a Durban in attesa che la Sncz restituisca i 22 milioni di dollari ricevuti in prestito nel 1994. Tutt'a un tratto, i minerali dello Shaba non possono piu' essere esportati, mentre cibo e pezzi di ricambio non entrano piu' nel "Congo democratico". Per amore o per forza, Kabila dovra' scendere a patti.

 

A lezione dalla storia

LA CHIESA DOV'E'

a cura della Redazione

 

Il cambio di regime ha messo a nudo luci e ombre della chiesa. Puo' rappresentare l'occasione d'oro per una nuova partenza, per una chiesa ora e sempre svincolata dal potere, capace di incidere sulla vita pubblica con un'autorevolezza che le venga dalla qualita' della sua vita fraterna, piu' che da una ricerca di nuovi equilibri. L'arcivescovo di Kisangani Laurent Monsengwo Pasinya e', in ragione del suo impegno politico, l'ecclesiastico zairese piu' conosciuto. Presidente dal dicembre '91 della Conferenza nazionale e poi dell'Alto consiglio della repubblica / Parlamento di transizione, quindi dimessosi e poi richiamato, molti avevano visto in lui l'uomo giusto, durante gli avvenimenti degli ultimi mesi, per traghettare il paese senza ulteriori danni verso il dopoMobutu. Ruolo che Monsengwo era disposto ad assumere, purche' con certe garanzie che erano venute meno nella precedente esperienza, e con il consenso vaticano. A qualsiasi decisione ha comunque tagliato la strada l'inarrestabile Kabila.

Ma come e' arrivata la chiesa, al di la' del suo personaggio di maggiore spicco, a questa transizione? La conferenza episcopale dello Congo e' la piu' numerosa d'Africa, con la sua cinquantina di vescovi per uno dei paesi piu' cattolici del continente (quasi meta' degli abitanti). Ha contato tra i suoi membri figure come il cardinal Malula, che diede impulso alle cose piu' belle della chiesa zairese (liturgia, teologia, comunita'...) e, piu' vicino a noi, l'arcivescovo di Bukavu, Christophe Munzihirwa, che ha pagato con la vita - era il 29 ottobre 1996 - il suo impegno a difesa del suo popolo. Ma nel complesso i rapporti chiesa-stato si sono caratterizzati per visibili ambiguita'. Una volta capito (e avendone i mezzi) che i "nemici" (attuali o potenziali) e' piu' vantaggioso comprarseli che perseguitarli (come aveva fatto con la chiesa nei primi anni della "autenticita'"), Mobutu comincio' a circondare i vescovi di tutta una serie di privilegi. Emblematico il suo generoso regalo, solitamente un'auto di lusso, ai sacerdoti nominati vescovi. Troppo pochi quelli che hanno saputo rifiutare.

E anche quando, in particolare con il Memorandum del 1990, l'episcopato ha iniziato a produrre dei documenti chiari e coraggiosi - che del resto non hanno circolato molto tra le comunita' dell'interno -, questi non sono pero' andati di pari passo con degli atti profetici. Anche se "la chiesa cattolica osa alzare la voce, cosa che non fanno le altre denominazioni religiose, in particolare i protestanti e i kimbanguisti, manca ai pastori - scriveva La Tempête des tropiques di Kinshasa a gennaio, nel commentare l'ultima presa di posizione dell'episcopato, considerata peraltro severa e opportuna - il senso dell'impegno nel rivendicare i diritti piu' legittimi". Domenica, uscire dalle chiese Il pensiero corre alla data discriminante del 16 febbraio 1992. Migliaia di cristiani, rispondendo all'appello del gruppo "Amos", sfilarono pacificamente, quella domenica, per le vie di Kinshasa reclamando la ripresa dei lavori della Conferenza nazionale sovrana. La repressione manu militari fece un buon centinaio di morti. Avevano manifestato, con il loro gregge, anche preti locali e missionari. Ma dov'erano i vescovi? Un testimone, oggi, si ricorda solo di mons. Monsengwo, "tardivamente sopraggiunto sui luoghi per constatare i danni sia materiali che umani". Cinque anni dopo - di nuovo di domenica - alla preghiera in memoria del "giorno dei martiri" (di fatto impedita dall'esercito) "dov'erano gli abbe's e le reverende suore dell'arcidiocesi?", si domanda "un cristiano" nella sua Lettera aperta al clero diocesano di Kinshasa. "Si e' visto un solo prete diocesano (Joseph Mpundu, leader del gruppo Amos, ndr), nemmeno una religiosa diocesana". C'era, per lo meno, un buon gruppo di missionari, di "questi bianchi che mangiano bene, sono motorizzati, godono di un buon standard di vita, ma tutto questo l'hanno dimenticato per raggiungere i loro fedeli". Ma tre mesi dopo, una volta entrati gli uomini di Kabila (era vigilia di Pentecoste), anche di missionari se ne sono visti pochi, per le strade della citta', dove giacevano morti e feriti. Con le debite eccezioni, come la religiosa che spiega con fare disarmante: "Io ho offerto la mia vita al Signore. Qualsiasi cosa dovesse capitarmi, io resto sempre del Signore".

Anche al ritorno della calma nella capitale, la chiesa fatica ad esprimersi. Meglio cosi', forse, piuttosto che certi episodi, lontano da Kinshasa, come la tempestiva presenza dell'arcivescovo nello stadio di Lubumbashi in festa per Kabila, il 19 aprile, e, un mese prima, i patetici tentativi del vescovo di Goma di innocentare le forze ribelli dalle accuse di stragi ai danni dei rifugiati hutu. A misura di laico La chiesa oggi - vista a torto o a ragione come alleata di Mobutu, dei francesi, dei belgi - non puo' sperare in trattamenti di riguardo da un Kabila preoccupato di cancellare le tracce del passato. Strana contraddizione, questa di una chiesa tacciata di complicita' con l'ancien re'gime quando, a conti fatti, ha comunque incarnato per la gente il solo spazio, sul territorio nazionale, di rifugio, di resistenza e speranza di cambiamento. Perche' non ci sono state solo le ambiguita' della gerarchia, le debolezze del clero locale e le esitazioni dei missionari. Oltre ad aver assicurato alla popolazione istruzione e sanita' la' dove lo stato era presente solo nella rapacita' dei suoi militari senza soldo, la chiesa, piu' precisamente le comunita' sono state il luogo dove si coltivavano sogni di giustizia e democrazia. Li' sono nati gruppi "della fraternita'", ad esempio l'Ekolo ya Bondeko, che si fanno carico di uomini e donne in particolare difficolta', e gruppi di coscientizzazione e azione civile - come il citato Amos, ma non e' il solo - che hanno giocato un ruolo di primo piano nella crescita di un laicato responsabile e coraggioso.

Ed e' proprio da qui che dovra' ripartire la chiesa nel Congo ex Zaire. "Le missioni sono state semidistrutte, ma la stragrande maggioranza dei laici sono restati!", ha scritto un missionario col pensiero al "come tornare" (era questo il tema del secondo incontro di riflessione dei missionari italiani fuoriusciti dallo Zaire, tenutosi al Cum di Verona il 6 maggio). Ma non solo ripartire dai laici nel senso di consolidarne la formazione ed estenderla al piu' gran numero possibile, uomini e donne, bensi' nel senso di partire da loro per rifondare la chiesa. Ovverosia colmare il dislivello esistente tra lo stile di vita del "basso e alto clero" da una parte, con il suo tenore economico e i suoi programmi tesi a una certa idea di "efficienza" pastorale, e quello dei semplici fedeli dall'altra. Costituire sul terreno, insomma, l'auspicata chiesa-famiglia del sinodo africano, una comunita' realmente piu' fraterna ed egualitaria. E' questa l'ora di grazia, il kairo's, per mettersi al lavoro - a questo lavoro. Dal franare del mobutismo, in una forma imprevedibile solo pochi mesi prima, la chiesa sta imparando che non basta denunciare (e neppure coinvolgersi, attraverso qualche suo membro di prestigio, in terreni molto prossimi alla politica attiva) per assolvere alla sua missione profetica. Deve essa stessa, mentre denuncia, darsi una struttura piu' democratica, rivedere l'esercizio dell'autorita', accorciare le distanze al suo interno, combattere la corruzione nella societa' con una piu' reale condivisione dei beni tra i suoi membri, valorizzare l'etnicita' combattendo il tribalismo, essere spazio di perdono evangelico. Rappresentare insomma un'alternativa vivente al sistema politico vigente, con qualunque bandiera esso si copra. Non lasciarsi mai piu' legare le mani dal Palazzo. "Quello che noi avvertiamo attualmente nelle nostre parrocchie - diceva ancora Cuius Kaya nella citata Lettera aperta - e' questa discrepanza tra i programmi pastorali e le reali aspirazioni delle nostre popolazioni. Si rende urgente riaggiustare la nostra pastorale nella prospettiva di una spiritualita' incarnata, nella quale il ruolo sociale si esprima attraverso i rischi che i nostri parroci e pastori devono assumere nelle lotte quotidiane in solidarieta' con i senzavoce". Parole scritte in Zaire ma che rischiano di esser valide anche nel "Congo democratico". "Soltanto questa forma di solidarieta' - concludeva la Lettera - potra' manifestare che il Vangelo e' davvero vivo, liberatore, annunciatore di un avvenire nuovo. Voi che siete pastori dovete capire e convincervi che l'avvenire del cristianesimo in Africa e particolarmente in Zaire si gioca qui".

 

 

Il dramma umanitario / Emma Bonino accusa

"INCHIESTA INTERNAZIONALE SUI MASSACRI"

a cura della Redazione

 

La commissaria europea per gli aiuti umanitari insiste sulla tragedia dei profughi hutu. Per denunciare la latitanza della politica e della diplomazia, e per difendere le organizzazioni umanitarie. * Commissaria Bonino, adesso che la guerra in Congo/Zaire e' finita, si ha un'idea precisa del suo costo in vite umane? Che ne e' stato dei profughi hutu rwandesi di cui non si hanno piu' notizie? Si conoscera' mai la verita'? * Le stime piu' attendibili, come quelle dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati e di Medici senza frontiere, dicono che circa 250.000 persone risultano "disperse". Non so se giudicare piu' sconvolgente questa notizia o, rispetto ad essa, la quasi totale mancanza di reazioni apprezzabili in Europa da parte dei nostri governi e della stessa opinione pubblica. Purtroppo, c'e' da temere il peggio, perche' la Croce Rossa ed altre organizzazioni caritatevoli o umanitarie hanno gia' localizzato fosse comuni dove le vittime, come nel caso del campo di Mugunga, si contano a migliaia. Ce n'e' abbastanza per insistere sulla necessita' assoluta di un'inchiesta internazionale e forse di un tribunale internazionale. Non si puo' rinunciare a conoscere la verita' dei fatti.

* La comunita' internazionale ha assistito impotente a sette mesi di guerra senza riuscire a condizionare il corso degli eventi politico-militari. Quel che appare ancora piu' grave e' stata l'assenza di qualsiasi misura concreta anche solo sul piano umanitario. Come mai?

* La mancanza totale di trasparenza e' stata forse la caratteristica dominante di questa guerra "di liberazione", scandita dalle menzogne dal primo all'ultimo giorno. Hanno mentito i belligeranti ma hanno mentito anche gli osservatori internazionali, come quei diplomatici e generali che sul finire dell'anno scorso hanno fatto abortire il progetto di forza d'intervento multinazionale umanitaria approvato dal Consiglio di sicurezza, spiegandoci che "non si registravano nell'est dello Zaire quantita' apprezzabili di profughi". O mentivano o erano degli incapaci. Oggi ci sono indizi piu' che sufficienti per affermare che nell'offensiva si sono intrecciati progetti diversi: accanto al disegno di Kabila - prendere il potere a Kinshasa - e' stato messo in pratica il disegno - interamente rwandese - che puntava alla eliminazione con la forza della minaccia costituita dai gruppi revanscisti armati hutu, annidati in seno alla comunita' dei profughi nei due Kivu. Questa eliminazione, a mio avviso, e' stata condotta in maniera sistematica e spietata, coinvolgendo donne e bambini, grazie a quella che ancora molti pudicamente definiscono "la presenza non confermata di truppe dei paesi vicini".

* Per due anni i dirigenti rwandesi hanno chiesto alla comunita' internazionale di separare, nei campi profughi, i responsabili del genocidio del 1994 dal resto della popolazione. Ma quando le truppe che si battevano sotto le bandiere di Kabila hanno attaccato i campi non risulta che abbiano fatto alcuna "selezione". Voi umanitari non avreste potuto in passato agevolare questa separazione?

* Non vedo davvero come. Non ne abbiamo ne' la vocazione ne' i mezzi. Anche noi abbiamo detto per due anni che era necessario farlo. La verita' e' che per due anni la politica e la diplomazia hanno latitato: lasciando agli umanitari il ruolo di assistere i campi, che si sono "palestinizzati", diventando centri di revanscismo hutu. Colpa di cibo e medicine o colpa della latitanza di politica e diplomazia? Ci si accusa di "avere nutrito la crisi": qualcuno sa dirmi in quale preciso momento avremmo dovuto ritirarci dai campi e in che modo cio' avrebbe semplificato il problema? Siamo serviti da alibi per due anni. Poi, quando gli strateghi si sono svegliati e hanno preso i campi profughi a cannonate, malgrado le bandiere dell'Onu, improvvisamente non c'e' piu' stato spazio per l'azione umanitaria.

* E la questione della separazione fra autori del genocidio e popolazione innocente? *

Ho constatato di persona, nel corso di vari incontri, una certa tendenza dell'attuale gruppo dirigente rwandese a considerare il genocidio del '94 come un crimine "collettivo" di intere comunita' di hutu, di intere famiglie. Da cui il desiderio di punizioni e rappresaglie "collettive". Ho visitato i campi profughi prima e dopo la guerra, dove e quando e' stato possibile. Ma mi sarebbe bastata la visita a Tingi-Tingi, in febbraio, per farmi un'idea precisa: li' era evidente la presenza di uomini piu' o meno giovani e validi - presumibilmente il nocciolo duro dei ge'nocidaires - ma anche la presenza massiccia di donne, bambini e anziani, tutti in condizioni penosissime. Penso a quei bambini, a tutto quello che hanno visto e vissuto. Chi fra loro sopravvivera', ci sono pochi dubbi in proposito, dedichera' la propria vita alla vendetta. E' questo il modo migliore per perpetuare la cultura e l'ideologia del genocidio.

* L'hanno accusata di avere voluto ritardare la caduta di Mobutu, di essersi fatta complice del neocolonialismo francese... *

Non ho mai avuto alcunche' da spartire con Mobutu e il mobutismo, ne' ho mai nutrito alcuna simpatia per il modello di potere africano che il maresciallo rappresentava. Ma non riesco a simpatizzare nemmeno con le preoccupazioni geopolitiche che prima hanno fatto di Mobutu un bastione dell'anticomunismo e poi ne hanno accelerato la caduta. Ho un'unica bussola: levare la mia voce per denunciare le violazioni delle convenzioni internazionali, le sofferenze imposte ad esseri umani, la violazione dei diritti umani, il verificarsi di crimini contro l'umanita'.

* Neanche l'Europa comunitaria ha saputo esprimere una linea politica efficace per condizionare gli eventi. *

Non mi stanco di lamentare l'assenza di una politica estera europea comune e, soprattutto, credibile. La crisi nello Zaire ridiventato Congo ha dimostrato assai chiaramente che la somma delle politiche nazionali dei principali stati membri non e' assolutamente sufficiente per fare fronte alle crisi complesse della nostra epoca. La reazione dell'Unione Europea e' stata deludente, e' vero. Ma mi si lasci dire che essa appare piu' dignitosa rispetto alla linea seguita da molti paesi membri dell'Unione e da vari organismi internazionali. Trovo abbastanza vergognoso lo schema fisso seguito da molte capitali europee di fronte al cambio di gruppo dirigente a Kinshasa. Primo: ci si rallegra e ci si dichiara pronti ad assistere i nuovi dirigenti. Secondo: ci si esprime in favore del processo di transizione alla democrazia annunciato. Terzo, e comunque ultimo: si esprimono voti affinche' vengano rispettati i diritti umani, assistiti i rifugiati, ecc. La mia scala di priorita' e' l'esatto contrario. Come si fa a felicitarsi con un potere su cui grava un sospetto pesante di avere commesso crimini contro l'umanita'?

* Nelson Mandela ha tirato le orecchie agli occidentali che, come lei, hanno sistematicamente criticato Kabila. Come risponde? *

Ho un enorme rispetto per Mandela. E capisco bene le ragioni che inducono il Sudafrica a fare di tutto per non rimanere fuori, politicamente ed economicamente, dalla Repubblica democratica del Congo. Insomma, non mi meraviglia la realpolitik che ispira Pretoria. Quanto al giudizio su Kabila anch'io, umilmente, tiro le orecchie a Nelson Mandela. Dal nuovo Sudafrica, infatti, mi aspetto che esso esporti nel resto dell'Africa i suoi buoni standard di liberta' e rispetto dei diritti civili. Non che accetti, come fossero inevitabili, le cattive abitudini di altri paesi africani.