tradotto da Anne Marie Chiesa

----------------------------------------------

Immani uccisioni in Africa

Diritti umani
(Sottotitolo) Poiché il fallimento politico conduce all'indifferenza
morale, il genocidio in Africa non suscita piu' oltraggio per il mondo e
nemmeno attenzione.

Lo Zaire e' morto. Lunga vita al Congo. Il regime corrotto di Mobutu
Sese Seko e' stato finalmente consegnato alla pattumiera della storia.
Laurent Kabila, il nuovo presidente, e' l'ultima recluta del club dei
leaders africani di nuovo stile - duro ma illuminato e anglofono - la
cui ascesa ha messo fine alle lunghe guerre civili in paesi che si
estendono dall'Eritrea al Rwanda.
Cosa c'e' che non va in quel resoconto ampiamente accettato della storia
recente dell'Africa Centrale? C'e' l'equazione implicita fra illuminismo
e la lingua inglese. La politica francese in Africa non e' stata
illuminata, avendo dato un sostegno acritico ai dittatori fino a che
hanno parlato francese e sono stati docili alle influenze francesi. I
politici e i commentatori anglofoni dovrebbero stare attenti a non fare
lo stesso.
Stanno venendo alla luce fatti spiacevoli riguardo a quel che i
sostenitori Tutsi di Kabila hanno fatto agli Hutu (sia rifugiati
rwandesi che congolesi di nascita) durante la loro fulminea avanzata dal
confine rwandese a Kinshasa, capitale del Congo, che hanno raggiunto il
mese scorso.

Forse il rapporto piu' dettagliato ed agghiacciante e' apparso sul
Washington Post.

Massacri di rifugiati

Il giornalista John Pomfret ha descritto come, a meta' aprile, gli
abitanti di un villaggio chiamato Kasese, spinti dagli ufficiali
militari fedeli a Kabila, "hanno fatto irruzione in un campo di
rifugiati, in maggioranza Hutu rwandesi, colpendo violentemente con
machete e lance uomini, donne e bambini". Sono stati respinti da Hutu
armati. Ma "il giorno successivo, le forze ribelli di Kabila sono
entrate nel campo e, secondo i sopravvissuti e gli abitanti locali, per
sette ore hanno seminato terrore e morte tra i 55 mila rifugiati,
sparando selvaggiamente all'interno del campo".

Sono morti a centinaia e sono stati sepolti in una fossa comune. E
questo era "solo uno dei numerosi racconti di uccisioni di massa ...
attuate dai soldati fedeli a Kabila". "I racconti", scrive Pomfret,
"insieme con le fosse comuni e i resoconti di testimoni e vittime nel
Congo orientale, centrale ed  occidentale dipingono un quadro
orripilante di atrocita' ... Messi insieme, lasciano intendere che i
massacri non sono stati fatti isolati di truppe indisciplinate ma
piuttosto parte della guerra di liberazione di Kabila".

Un altro genocidio

Una parola e' cospicuamente assente dal rapporto di Pomfret: una parola
di cui i reporter sono giustamente riluttanti a far un uso eccessivo - e
i governi sono riluttanti ad usarla del tutto, dato che quasi tutti gli
Stati sono firmatari di una convenzione internazionale che li obbliga ad
intervenire ed arrestare un "genocidio" ovunque avvenga.
Eppure quale altra parola andrebbe bene quando, secondo le parole di
Amnesty International, "e' stato riferito che migliaia di civili
disarmati, per la maggior parte rifugiati Hutu rwandesi ed ex-zairesi
Hutu, sono stati uccisi deliberatamente ed arbitrariamente", mentre "i
congolesi (ex-zairesi) di altri gruppi etnici sospettati o noti per
essere simpatizzanti degli Hutu ed altri ritenuti ostili ai Tutsi sono
stati anch'essi presi di mira".
Cio' significa che le vittime venivano scelte non per le loro opinioni
politiche, e neppure perche' stranieri, ma a causa della loro identita'
etnica. La nazionalita' e' irrilevante in questa guerra, ma l'etnicismo
e' tutto. La ribellione di Kabila ha avuto inizio lo scorso autunno come
rivolta di Tutsi zairesi ed e' stata cospicuamente sostenuta dal governo
dominato dai Tutsi del vicino Rwanda. Soldati rwandesi sono stati
frequentemente identificati all'interno delle sue forze. Molti zairesi
di ogni gruppo etnico si sono uniti alla sua causa per sbarazzarsi del
regime di Mobutu, ma la guerra era anche, e forse soprattutto, una
continuazione della lotta tra Hutu e Tutsi in Rwanda e Burundi. Tra le
vittime, i rifugiati dovrebbero essere sotto la protezione della Signora
Sadako Ogata, l'Alto Commissario delle Nazioni Unite. Il suo ufficio
(UNHCR), ha il mandato di occuparsi dei rifugiati e di assicurarsi che
mangino e non di rispedirli, contro la loro volonta', nel paese da cui
sono fuggiti. Ma cio' ora e' diventato quasi la minore delle sue
preoccupazioni. L'UNHCR, insieme a vari organismi di volontariato, ha
lottato per rimpatriare quanti più rifugiati rwandesi possibili, nella
speranza di salvarli da una sorte ancor peggiore se fossero rimasti nel
Congo.
Oxfam, uno degli organismi di volontariato piu' attivi nella zona,
valuta a 60 su 10000 il tasso di mortalita' giornaliero tra i rifugiati
che sono rientrati in Rwanda. Ma tra coloro che sono rimasti in Congo,
il tasso di mortalita' stimabile per cause prevenibili (non includendo
l'omicidio) era cinque volte maggiore rispetto a quello, fino a circa
tre settimane fa. Da allora non rimangono grosse concentrazioni di
persone, sebbene circa 200000 rifugiati rimangano fuori dal conteggio.

Largamente ignorato

"Riteniamo che questo tasso di mortalita' sia un record mondiale"
afferma Nicholas Stockton, direttore per le emergenze dell'Oxfam.
Eppure, in Gran Bretagna comunque, non c'e' stata la minima copertina di
giornale e nessun grosso appello per la raccolta di fondi come nelle
precedenti crisi umanitarie. "La vita umana", conclude il signor
Stockton amaramente, "non e' piu' considerata degna di essere salvata".
La ragione e', naturalmente, che la coscienza mondiale e' gia'
paralizzata da altre atrocita' e in modo particolare dal genocidio
contro i Tutsi che il regime Hutu organizzo' in Rwanda nel 1994 prima di
fuggire. Gli uomini armati che, questa primavera, senza alcun successo,
hanno difeso i rifugiati in Congo, erano, con ogni probalita', tra
coloro che hanno massacrato in Rwanda Tutsi indifesi, tre anni prima.
Il mondo ha fallito nel non arrestare quel genocidio e ha fallito
successivamente a non epurare coloro che l'hanno perpetrato all'interno
dei rifugiati tenuti in vita dagli aiuti occidentali alla frontiera tra
Rwanda e Zaire. Invece ha consentito che uomini armati controllassero
quei campi, che li usassero come basi per le loro incursioni in Rwanda,
e poi che attaccassero anche i Tutsi zairesi. Cosi' ora, quando i
sopravvissuti a un genocidio ricompaiono in un altro, il mondo
preferisce non saperlo.
Edward Mortimer, Financial Times, U.K. 18.06.1997