Iraq: intervista a Gino Strada al suo ritorno da Falluja
ROMA Gino Strada è appena arrivato a Baghdad da Falluja. Ora è nel suo piccolo albergo sconosciuto e fuori mano. La giornata è stata faticosa e dura, nella città ferita a morte da settimane di assedio e bombardamenti, la gente è esasperata. Un gruppo di persone ha circondato il convoglio di «Emergency» urlando frasi minacciose. «Andate via, altrimenti bruceremo i vostri camion, non vogliamo il vostro aiuto, tornate a casa vostra e portate con voi i soldati italiani...». Prima di parlare di cosa ha visto a Falluja, la cronaca ci impone di chiedere notizie sugli ostaggi ormai da un mese nelle mani delle «Falangi verdi di Maometto».
Strada ha notizie sulla sorte di Agliana, Cupertino e Stefio?
«Posso solo trasmettere delle impressioni, delle mie sensazioni. Di questo si tratta, visto che non si sa né chi detiene gli ostaggi, né in quale città sono prigionieri. Se devo giudicare dalla quantità di rabbia che vedo in giro tra la gente comune, uomini, donne, anziani, persone che sono ferite dalle immagini delle sofferenze delle vittime civili di questa guerra assurda, dalle foto delle torture e delle pesanti umiliazioni inflitte ai prigionieri, devo dire che questo sequestro avrà tempi molto lunghi. Non è una vicenda che possa risolversi in pochi giorni e neppure in poche settimane. Mi addolora dirlo, ma i tempi non saranno brevi».
Lei ha contatti, ha già avviato una trattativa con i sequestratori?
«Certo che abbiamo contatti, ma parlare di una trattativa è sbagliato. Noi non abbiamo da offrire contropartite economiche o politiche. Abbiamo solo fatto una richiesta precisa: liberate i prigionieri, fate questo gesto umanitario. E abbiamo la speranza che questa richiesta possa essere accolta, perché viene lanciata da “Emergency”, una organizzazione umanitaria e pacifista che in nove anni ha curato 280mila civili iracheni senza chiedere nulla in cambio. Questa è la nostra credibilità, crediamo che sia sufficiente per trovare ascolto. Il messaggio è stato lanciato, a noi tocca solo aspettare e soprattutto continuare il nostro lavoro di assistenza umanitaria alla popolazione civile».
Ieri un convoglio di Emergency è arrivato a Falluja, quali sono le condizioni della città?
«A Falluja abbiamo visto macerie, distruzioni, morte, sofferenza, rabbia. Decine di case sono letteralmente appiattite, non c’è acqua, non c’è energia elettrica, l’ospedale è allo stremo. I medici erano arrabbiati con il ministero della Sanità del governo provvisorio che ha barato sul numero dei civili morti. Ecco le cifre vere: 700 morti, di cui 80 bambini, 1700 feriti,. molti dei quali morti di setticemia. Perché nei giorni dell’assedio, ci hanno raccontato i sanitari, era difficile portare i feriti con le ambulanze. L’ospedale si trova al di là del ponte sull’Eufrate, gli americani sparavano sulle ambulanze, distruggendo le uniche tre a disposizione. Hanno ucciso medici e infermieri. Nell’ospedale non c’erano medicinali, molti feriti sono stati curati come si poteva in quelle condizioni. Molti sono morti. Molti morti sono ancora sotto le macerie».
Ci sono stati momenti di tensione?
«La gente è esasperata, la tensione c’è e come. Un piccolo gruppo ci ha circondati urlando frasi minacciose, volevano bruciare i nostri camion con gli aiuti. Fortunatamente avevamo organizzato il convoglio con l’aiuto delle autorità religiose del posto facendoci precedere dal lancio di volantini nei quali si spiegava il carattere umanitario della missione e il ruolo di «Emergency» nel mondo pacifista italiano. Abbiamo spiegato che “Emergency” è parte di quella maggioranza di italiani che è contro la guerra, contro l’aggressione all’Iraq e contro la politica del governo italiano. Devo dire che il nome del nostro presidente del Consiglio è molto pronunciato a Falluja, e sempre preceduto da aggettivi non certo gentili».
Quanto camion avete portato?
«Dieci, con acqua, teli per costruire tende, cibo per bambini, medicinali, fornelli per il cibo e per bollire l’acqua. La gente usa quella del fiume e i medici del posto temono l’esplosione di una epidemia di colera.
Avete incontrato l’imam Abdullah Al Jaanabi, la massima autorità religiosa della città?
«Non è stato possibile, abbiamo parlato col figlio, al quale abbiamo consegnato gli aiuti, e al quale abbiamo ribadito che la nostra presenza ha l'obiettivo di aiutare la popolazione civile, un gesto di solidarietà nostra e degli italiani che non hanno mai voluto questa guerra contro gli iracheni».
Porterete altri aiuti?
«Certo. Abbiamo fatto una riunione con i medici per fare un elenco delle cose che servono. Nei prossimi giorni porteremo dai nostri ospedali del nord medicine, supporti chirurgici, materiale sanitario, quello che serve.
Qual è la cosa che l’ha colpita di più?
«Le distruzioni, la morte di tanti civili innocenti, le sofferenze inflitte ai bambini, ma anche la rabbia. Ce n’è tanta in giro. Mi hanno colpito quei ragazzini di undici anni armati di tutto punto e con la faccia indurita dall’odio»
Qualcuno sta ostacolando il vostro lavoro?
«Se lo stanno facendo sono così bravi da non farsene accorgere. Noi siamo in un alberghetto, lontano dagli hotel frequentati dai giornalisti e dalle spie. Non abbiamo rapporti con le autorità italiane che comunque rappresentano un paese occupante. Noi siamo “Emergency”, una organizzazione umanitaria. Questa è la nostra forza. Questo mettiamo sul tavolo della salvezza dei tre ostaggi italiani».