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La Croce e il mistero del soffrire

Pasqua 2017

“Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato” (Isaia 53, 4)

Adorazione Eucaristica al mare

Il dolore, la sofferenza, la morte accompagnano la vita umana da sempre. Misteri insondabili che ci interrogano ma senza che si possa trovare una risposta, una spiegazione. Persino a Gesù Cristo non è stato esonerato. Vorremmo sempre vivere nella gioia e nella felicità, vorremmo sempre vivere accanto ai nostri cari ed averli vicino. Ma non è possibile, l’ineluttabilità della vita umana impone altro. A volte, anche nel confronto con chi non è cristiano, ci si rende conto che trasmettiamo un’idea della sofferenza come punizione, come castigo, e nulla più. Ne vien fuori il messaggio di un cristianesimo che impone pesanti fardelli, leggi come fossero il “regolamento” di un club o pura violenza. Se Cristo avesse subito la più atroce delle sofferenze non per Amore ma per castigo, nato senza peccato e figlio di Dio, come potremmo basare la nostra Fede e affidarci a Lui? Ma Dio, come purtroppo a volte lo si fa apparire, non si diverte a far soffrire, a imporre punizioni crudeli per passatempo o poco più. Il Vangelo è la Buona Novella, è la via dell’Amore senza limiti. Potremmo mai essere innamorati di una persona e quotidianamente offenderla, insultarla, picchiarla? Ovviamente no. La Buona Novella, le “regole” cristiane (come varie volte negli anni ci ha ricordato anche don Silvio nelle sue omelie) non chiedono altro, sono Amore che si offre per altro Amore. Dio non si diverte a farci soffrire, a torturarci l’esistenza e bagnarla di lacrime strazianti. Soffre accanto a noi, ha portato quella Croce sul cui retro c’è un posto vuoto che ci attende. Elie Wiesel scrisse che nei lager Dio era “appeso lì, a quella forca” dov’era stato crocifisso un bambino.

Comprendere il perché, scansare il dolore e la sofferenza non è possibile. Ma possiamo evitare di farci sopraffare, di chiuderci in noi, accompagnare e lasciarci accompagnare. Gli strazi e le lacerazioni del cuore, dell’animo, delle vicende di questa vita permettono di capire il dolore e la sofferenza degli altri, di guardarci attorno e capire il fratello e la sorella che possono aver bisogno di aiuto, di conforto, di calore umano. Parafrasando un grandissimo poeta del novecento ci fanno capire che il dolore degli altri non è un dolore a metà. E, anzi, può essere anche maggiore del nostro e donarci la possibilità di essergli vicino, di vivere una com-passione con chi più di noi potrebbe avere bisogno di un altro. Chi piange sa quanto può essere importante avere qualcuno con cui condividere le lacrime e le asciuga, chi è dilaniato nel profondo sa quanto può servire avere sale per trasformarle in feritoie “attraverso le quali una luce nuova raggiunge noi e chi ci incontra”, apprezza l’autenticità dei cuori e un animo che sappia aprirsi agli altri. E al totalmente Altro, che non ci impone regole crudeli ma ci offre il più prezioso dei doni.

Si è concluso nel novembre scorso il processo diocesano di beatificazione di Carlo Acutis. Un ragazzo di soli 15 anni, innamorato dell’Eucaristia e degli ultimi, dei sofferenti, morto fulminato dalla leucemia in soli 3 giorni. Così come lui in vita, la madre Antonia e il padre Andrea hanno avuto la forza di non chiudersi ma di aprirsi agli altri e al mondo. Quotidianamente cercano di proseguire la piccola grande tessitura di Carlo, “io e mio marito facciamo notte per rispondere alle lettere e alle richieste di preghiera che arrivano da ogni parte del mondo” raccontò la madre qualche mese fa a Famiglia Cristiana. “Viviamo questo processo con gioia” disse, riferendosi alla beatificazione del figlio, “conosciamo nostro figlio, la sua vitalità, il carisma, la forza della fede. In questi anni abbiamo potuto vedere il bene che sta facendo a tanti sconosciuti e che per noi è stata, in parte, una conferma della sua vitalità spumeggiante. Spesso mi ritrovo gente sotto casa che lo ha conosciuto attraverso gli scritti e cerca un contatto con noi”. Appassionato di informatica, considerava l’Eucaristia “l’autostrada verso il cielo” e ideò una mostra sui miracoli eucaristici. Dopo la sua morte quella mostra ha attraversato il mondo, mentre messaggi alla famiglia giungono da ogni latitudine. Entrato in ospedale, Carlo Acutis disse alla madre “offro le sofferenze che dovrò patire al Signore per il Papa e per la Chiesa, per non fare il Purgatorio ed andare diritto in Paradiso”. E, nei momenti di sofferenza più atroci all’infermiera che gli chiedeva come si sentiva rispose “Bene. C’è gente che sta peggio. Non svegli la mamma che è stanca e si preoccuperebbe di più”. Il giorno del funerale, racconta sempre la madre, la Chiesa era strapiena, tantissime persone che lei e la famiglia non conoscevano ma conoscevano benissimo Carlo, considerandolo “uno di famiglia”. Perché, inforcata la bicicletta, Carlo si fermava a parlare ai portinai che incontrava, donava quel che poteva e portava generi di conforto a senzatetto e poveri (dopo il pranzo portava contenitori con il cibo avanzato ai clochard della zona). “Una volta – racconta sempre la madre – si arrabbiò perché gli avevo comprato un paio di scarpe che lui riteneva superflue” in quanto già ne aveva uno. “Sotto casa nostra c’era un senza fissa dimora, lui gli portava il pasto. Una volta regalò un sacco a pelo a un signore anziano che dormiva nei cartoni” che acquistò con i suoi risparmi, sempre donati (spesso ai frati Cappuccini che servivano i pasti ai senzatetto). A casa Acutis il collaboratore domestico è un induista che decise di farsi battezzare “contagiato e folgorato” dalla “sua profonda fede, la sua carità e la sua purezza”. Il dolore e la sofferenza per la sua dipartita terrena sempre più è feritoia di una luce nuova che raggiunge chi incontra, il dolore un bastone che dona un cammino di conforto e compassione. Un proverbio indiano dice che ciò che non viene donato va perduto. Il donare di Carlo Acutis è stato così profondo e intenso che prosegue anche undici anni dopo. E non sembra proprio voglia fermarsi.

Alessio