L'educazione alla povertà
è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara.
Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine.
Non è vero che si nasce
poveri.
Si può nascere poeti, ma non poveri.
Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti.
Dopo una trafila di studi, cioè.
Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi.
Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta
tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un
tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è
voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al
capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: "Il Signore
nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero
per voi".
E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito
a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare,
che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il
documento più significativo della sua identità: "Le
volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo
non ha dove posare il capo".
Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come
la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona,
se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà
del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salse sulla croce".
Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante
carriera.
E ce l'ha voluta insegnare.
Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà
ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale,
l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque,
tappe ben delineate.
Proviamo a delinearne sommariamente tre.
Povertà
come annuncio
A chi vuole imparare la povertà,
la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona.
I beni della terra non sono maledetti. Tutt'altro. Neppure i soldi sono
maledetti.
Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci
manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi,
di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche.
I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno
di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione
uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed
ecco, era cosa molto buona".
Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una
cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima
è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica
a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema.
Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione
solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia,
che il Signore è la ricchezza suprema.
Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare
il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande
di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo
piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più
grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida
la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno.
Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte,
di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e
che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza.
Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per
indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della
ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata
che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente
della "ulteriorità".
In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio.
E' annuncio del Regno che verrà.
Povertà
come rinuncia
E' la dimensione che, a prima vista,
sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni
filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per
essere più liberi.
in realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra
la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare
rinuncia filosofica.
Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede
che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli
schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce
di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita
di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo
e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte
è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re
possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca
la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in
vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore
assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio.
Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire.
Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma
più allucinante di potere.
Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria
del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla
povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che,
prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli,
"depose le vesti".
Chi vuol servire deve rinunciare
al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare
alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir"
delle sue stupide suppellettili.
Chi vuoI fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero,
come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che
si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri.
E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cri-stiana: non il riso.
La testimonianza, non l'ostentazione.
Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà.
Come avvenne per i suoi seguaci, che sì spogliarono non per disprezzo,
ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza,
o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo;
sì la sposa piace!"
Povertà
come denuncia
Di fronte alle ingiustizie del
mondo alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione
del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano
non può tacere.
Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo,
dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali.
Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano
i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte
per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa
alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro.
Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare
queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis",
ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà!
Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli
antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una
appartiene ai poveri". Non ci si può permettere i paradigmi
dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti
sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. Le carte
patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie
del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di
accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono
della solidarietà corta.
Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui.
E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto.
Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione
per scalate rampanti.
Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto
più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori,
ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì
è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento.
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi
lo insegna e per chi lo impara.
Forse è proprio per questo che il Maestro ha vo-luto riservare
ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine.
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