Parole multiuso
Un saggio orientale diceva che,
se lui avesse avuto per un attimo l'onnipotenza di Dio, l'unico miracolo
che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso
originario.
Sì, perché oggi le parole sono diventate così "multiuso",
che non puoi più giurare a occhi bendati sull'idea che esse sottendono.
Anzi, è tutt'altro che rara la sorpresa di vedere accomunate
accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo.
Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più
nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono
i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà.
A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa "sindrome
dei significati stravolti" fosse presente anche nei tempi remoti,
se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce
del genere: "essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra".
Su
quale pace scommettere?
Con questo non si vuol dire che
il termine "pace" indichi inequivocabilmente una realtà
così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere
nettamente zone di valori limitrofi.
E' difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l'area
della pace da quella propria della libertà, o della giustizia,
o della comunione, o del perdono, o dell'accoglienza, o della verità.
Ed è fatica improba disegnare sulle mappe lessicali gli spartiacque
di questi valori. Sicché, se le immagini possono aiutarci a capire,
dovremmo dire che la pace più che una stella è una galassia,
più che un'isola è un arcipelago, più che una spiga
è un covone.
A fare difficoltà, però, non è lo sfumare della
pace propriamente detta nelle fasce degli altri concetti viciniori con
i quali, per così dire, essa ha rapporti stretti di consanguineità.
Ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione
di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari
con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo
francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno
è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante
della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa
perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali
coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori
si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E sul vocabolario
del regime di Pretoria, la definizione di pace suona allo stesso modo
che sul vocabolario delle vittime delI'apartheid ?
Come si vede, è necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni.
Pertanto, si rende indispensabile, almeno per noi credenti, fissare
dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace, per il quale
valga la spesa di impegnarsi in una scommessa.
Non scommettere sulla pace che
non venga dall'alto: è inquinata
Dire che la pace è un
dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani
senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato,
all'atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche
che sull'implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della
terra che sulla forza impetrativa della preghiera, più sull'abilità
dei politici che sulla tenacia dei contemplativi. Preghiamo, questo
sì, per la pace. Ma di essa abbiamo una concezione maledettamente
tolemaica: il cielo sembra che le ruoti attorno solo per fecondarne
lo sviluppo e per incoraggiarne la crescita.
Ebbene, considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è
un tragico errore di prospettiva di cui, prima o poi, pagheremo le spese
col prosciugamento o con l'inquinamento delle falde freatiche.
Quando la riflessione delle nostre comunità riuscirà a
scoprire che i pozzi della pace sono le stimmate del Risorto?
Non scommettere sulla pace non connotata
da scelte storiche concrete: è un bluff
Se, per un verso, non è
infrequente l'equivoco su descritto, che potremmo designare come l'eresia
del "pelagianesimo della pace", per un altro verso non è
raro il rischio opposto che è quello del disimpegno, coperto
oltretutto dall'alibi comodo che la pace è una realtà
"oriens ex alto", proveniente dal Cielo.
Occorre scongiurare questa specie di fatalismo che fa ritenere inutili,
se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di
posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti
profetici. E' vero, la pace è un'acqua che scende dal cielo:
ma siamo noi che dobbiamo canalizzarla affinché, attraverso le
condutture appropriate della nostra genialità, giunga a ristorare
tutta la terra.
Ecco perché è un "bluff" limitarsi a chiedere
la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa
alle armi, il loro commercio clandestino, e la follia degli scudi spaziali.
Per impedire la crescente militarizzazione del territorio. Per smascherare
la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Per
indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza.
Per accelerare l'accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine
economico internazionale. Per tracciare i percorsi concreti di una educazione
autentica alla pace. Per esporsi, magari anche con i segni paradossaIi
ma eloquenti dell'obiezione di coscienza, in tutte le sue forme, sui
crinali della contraddizione.
Non scommettere sulla pace che prenda
le distanze
dalla giustizia: è peggio della guerra
La Bibbia allude spesso ad abbracciamenti
tra pace e giustizia simili a quelli tra madre e figlia, o tra due amanti
comunque. Frutto della giustizia è la pace, dice Isaia in uno
splendido passo. E il salmo 85 parla così apertamente di baci
tra i due partners, che non mancano coloro a cui verrebbe il sospetto
che questi rapporti abbiano del torbido, e calpestino il cosiddetto
elementare senso del pudore.
In effetti, è un'accoppiata che fa scandalo. Tant'è che
molti agenti della "buon costume" preferirebbero che le due
imputate se ne tornassero ciascuna a casa sua e rientrassero, per così
dire, a vita privata.
Parlando fuori parabola, non è difficile capire come ai ben pensanti
che quasi sempre coincidono con i garantiti di turno, dà fastidio
questa scoperta biblica, recente tutto sommato, del legame esistente
tra pace e giustizia.
Pace, sì. Ma che c'entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono
ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da
spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La
pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro
di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace,
d'accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione
dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture
locali, o lo scempio della dignità dei poveri?
Attenzione! E' in atto una campagna "soft" che spinge pace
e giustizia alla "separazione legale", con espedienti che
si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi.
Non scommettere sulla pace che si proclami
estranea al problema della salvaguardia del creato: è amputata
Qualcuno potrebbe pensare che
il bisogno di allargare i consensi, con l'ammiccamento ai temi di moda,
abbia provocato l'inclusione del problema ambientale nell'area degli
interessi di coloro che si battono per la pace.
Non è così. Alla radice di questa coscienza, che potremmo
chiamare "trinitaria", visto che la pace oggi si declina inesorabilmente
con la giustizia e con la salvaguardia del creato, c'è la constatazione
che, a produrre tanti guasti inesorabili della natura, è sempre
il seme del profitto. Lo stesso che genera le guerre.
L'utero che partorisce la guerra è sempre gravido, diceva Brecht.
E i suoi parti sono trigemini, dal momento che, oltre alla guerra e
all'ingiustizia, si porta dentro anche il mostro ecologico.
Isaia le aveva intuite prima di noi queste articolazioni, quando annunciava
la discesa dello Spirito che avrebbe trasformato il deserto in giardino,
all'interno del quale sarebbe fiorito l'albero della giustizia, sui
cui rami sarebbe spuntato il frutto della pace. "In noi sarà
infuso uno Spirito dall'alto. Allora il deserto diventerà un
giardino...e la giustizia regnerà nel giardino...e frutto della
giustizia sarà la pace" (32,15-17).
Non scommettere sulla pace che sorrida
sulla radicalità della nonviolenza: è infida
E' giunta l'ora in cui occorre
decidersi ad arretrare (arretrare o spingere?) la difesa della pace
sul terreno della nonviolenza assoluta. Non è più ammissibile
indugiare su piazzole intermedie che consentano dosaggi di violenza,
sia pur misurati o prevalentemente rivolti a neutralizzare quella degli
altri.
Richiamarsi al dovere di "camminare con i piedi per terra",
e fare spreco di compatimento sul preteso "fondamentalismo"
degli annunciatori di pace, significa far credito alle astuzie degli
uomini più di quanto non si faccia assegnamento sulle promesse
di Dio.
La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato
senza equivoci.
Se su di essa perfino la profezia laica ci sta precedendo, sarebbe penoso
che noi credenti, destinati per vocazione a essere avanguardie che introducono
nel presente il calore dell'utopia evangelica, scadessimo al ruolo di
teorizzatori delle prudenze carnali .
Il grande esodo che oggi le nostre comunità cristiane sono chiamate
a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti
dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente
inaffidabilità della nonviolenza attiva.
Non scommettere sulla pace che
non provochi sofferenza: è sterile
Il grande teologo protestante
Bonhoeffer parlava di "grazia a caro prezzo". Forse è
ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi.
I prezzi stracciati destano sospetto.
Gli sconti da capogiro inducono a credere che la merce è avariata.
Le svendite fuori stagione sanno di ambiguità. E le allettanti
offerte sottocosto fanno pensare ai surrogati.
La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può
vincere col misero prezzo di un solo biglietto.
Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime,
di incomprensione e di sangue.
La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata.
L'arena della prova è lo scenario di questo villaggio globale
che rischia di incenerirsi in un olocausto senza precedenti.
E come nei primi tempi del cristianesimo i martiri stupirono il mondo
per il loro coraggio, così oggi la Chiesa dovrebbe fare ammutolire
i potenti della terra per la fierezza con cui, noncurante della persecuzione,
annuncia, senza sfumare le finali come nel canto gregoriano, il vangelo
della pace e la prassi della nonviolenza.
E' chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutolisce
lei, si renderebbe complice rassegnata di un efferato "crimine
di guerra".
Ma, grazie a Dio, stiamo assistendo oggi a una nuova effusione dello
Spirito che spinge la Chiesa sui versanti della profezia e le dà
l'audacia di sfidare le trame degli oppressori, i sorrisi dei dotti,
e le preoccupazioni dei prudenti secondo la carne.
Non scommettere sulla pace
come "prodotto finito": scoraggia
La pace è una meta sempre
intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle
tappe intermedie, e mai sull'ultimo traguardo. Esisterà sempre
un "gap" tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte.
I labbri delle conquiste non combaceranno mai con quelli dell'utopia,
e il "già" non si salderà mai col "non
ancora".
Ciò vuol dire che sul terreno della pace non ci sarà mai
un fischio finale che chiuda la partita, e bisognerà giocare
sempre ulteriori tempi supplementari. Tutto questo può indubbiamente
provocare delusioni e stanchezza, creando collassi operativi e crisi
da insuccesso. Ma chi è convinto che la pace è un bene
la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del
Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella
situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia.
Cristo, nostra Pace, non delude
Coraggio, allora! Nonostante
questa esperienza frammentata di pace, scommettere su di essa significa
scommettere sull'uomo. Anzi, sull'Uomo nuovo. Su Cristo Gesù:
egli è la nostra Pace. E lui non delude. Del resto anche lui,
finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite
velato.
Faremo di lui un'esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo
solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a
faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori
del Regno di Dio.
Allora, come per una arcana dissolvenza, le linee con cui abbiamo tenacemente
disegnato la pace quaggiù si ricomporranno nella luce dei suoi
occhi e assumeranno finalmente i tratti del suo volto.
E la realtà, stavolta, sopravvanzerà il sogno.
Ma qui siamo già alle soglie del mistero!
(*) ANTONIO BELLO. Sui sentieri
di Isaia, Molfetta, Editrice La Meridiana, 1989, p. 11-21