Speciale Siria. La rivoluzione tradita. di Gabriele del Grande
13 ottobre 2012
http://fortresseurope.blogspot.it/2012/10/speciale-siria-la-rivoluzione-in-esilio.html
CAIRO – È notte fonda, e dal terrazzo di un vecchio albergo del Cairo
salgono i fumi dei narghilé alla mela. I bicchieri sono pieni di
birra. Intorno ai tavolini, una decina di oppositori siriani cercano
di dimenticare i mali dell’esilio. Khalaf è un poeta, Wassim un
webdesigner, Rita una formatrice, Maan un regista, Fadi un
commerciante, Farzand un medico, e Khater un musicista. Doveva esserci
anche Louise, un’attrice, ma stasera non è potuta venire perché oggi
ha iniziato uno sciopero della fame in piazza Tahrir con altre tre
ragazze: la poetessa Tibi e le attiviste Rola e Salma.
Diciotto mesi fa erano a Homs, Aleppo e Damasco, tra i primi
organizzatori di quello che delle primavere arabe è stato il più
duraturo, creativo e organizzato movimento non violento e laico. Laico
sì perché Khater e Khalaf sono sunniti, Rita e Louise alawite, Maan
druso, Fadi cristiano e Farzand curdo. E perché Wassim che è ateo, è
entrato per la prima volta in una moschea durante la rivoluzione,
perché le moschee erano gli unici luoghi dove ci si poteva aggregare
in massa, il venerdì durante la preghiera, per poi uscire in una
manifestazione prevenendo le forze di sicurezza.
La folle repressione del regime ha cambiato il loro destino. Dei
compagni di quelle prime manifestazioni, molti sono stati uccisi in
carcere o sono morti sotto le bombe. Gli altri sono fuggiti per
salvarsi la vita. E dall’esilio cercano di supportare la rivoluzione,
almeno sulla rete. Khater compone canzoni della resistenza, JuanZero
disegna caricature di Bashar, e tutti gli altri passano le giornate in
rete per far circolare notizie e idee. Idee sì, le stesse che per un
anno hanno alimentato la rivoluzione siriana e che oggi rischiano di
morire insieme alle migliaia di vittime di un’improbabile guerra – a
detta degli attivisti del movimento pacifista – sta trascinando il
paese in un vicolo cieco di morte e distruzione.
Diciotto mesi fa, nessuno di loro avrebbe mai immaginato che la
rivoluzione sarebbe passata alle armi. Wassim all’inizio era convinto
che il regime sarebbe caduto nel giro di qualche settimana, come era
successo in Tunisia e in Egitto. E la sua unica preoccupazione quando
venne arrestato nell’aprile 2011, era che non avrebbe vissuto quel
momento storico con i suoi compagni. Col senno di poi, ammette di aver
peccato di ottimismo.
Prima della rivoluzione Wassim aveva un’avviata impresa di
informatica. Da quando è fuggito, ha speso i risparmi di una vita per
sostenere il movimento non violento tra Beirut e Istanbul. E ormai
ridotto sul lastrico, si è fermato al Cairo. Vive in un modesto
bilocale a Saad Zaghloul, insieme a uno studente dei movimenti
universitari di Aleppo, anche lui in esilio. Mi versa un bicchiere di
raki. Allungato con acqua e qualche cubetto di ghiaccio. Sul suo nome
pendono quattro mandati di arresto. Tornare a Damasco è impossibile.
Di combattere con l’esercito libero non ne vuole sentire parlare.
Wassim è convinto che la guerra sia stata una scelta sbagliata.
Dettata dai paesi del Golfo e dagli americani per sostituire Bashar
con un governo islamista amico e indebolire così Hezbollah e l’Iran.
All’inizio aveva pensato di andare a documentare i massacri del regime
e di fare un film sul ruolo della minoranza alawita nella rivoluzione,
ma ha cambiato idea dopo la morte sotto le bombe di due suoi cari
amici registi: Basel e Tamer.
È grazie a ragazzi come loro se si sa qualcosa di quello che sta
succedendo in Siria. I giornalisti internazionali infatti coprono
soltanto la città di Aleppo. Avventurarsi nel resto del paese è troppo
pericoloso. Eppure ogni giorno sono diffusi in rete migliaia di video
da ogni cittadina siriana e da ogni quartiere di Damasco e di Aleppo.
Girati da giovani reporter siriani volontari che passano le giornate
sul fronte a rischio della propria vita. E poi caricano tutto su
facebook, su pagine condivise da centinaia di migliaia di siriani.
Gente comune che a sua volta rimbalza in rete i contenuti. Non credo
ci sia nella storia nessun altro esempio di una guerra con una
copertura mediatica così capillare e così partecipata.
Anche Wassim per alcuni mesi ha lavorato sul fronte dell’informazione.
Era a Istanbul allora ed era responsabile della formazione
giornalistica degli attivisti siriani, e del contrabbando in Siria di
telecamere, computer, software e modem satellitari. Ma quelli sembrano
giorni lontanissimi.
“Oggi il movimento civile non è più in grado di lavorare. Se in una
città c’è l’esercito non possiamo fare nulla. Quando si spara, le voci
delle esplosioni coprono la nostra voce. Ci resta solo facebook.
Abbiamo artisti, musicisti, poeti, disegnatori. La prima cosa per noi
è l’arte, vogliamo mostrare all’estero che la rivoluzione siriana non
è solo la guerra. Che c’è un pensiero, che ci sono dei sogni”.
Peccato però che all’estero questa voce non stia proprio arrivando. La
Siria è raccontata esclusivamente come il teatro di una guerra civile.
“Alcuni egiziani mi chiedono come andare in Siria per combattere la
jihad e difendere i sunniti. Pensano che la guerra sia tra sunniti e
sciiti, non hanno capito che è una rivoluzione. E tutto questo a causa
delle notizie diffuse in modo distorto da Al Jazeera e Al Arabiya, i
cui editori, Arabia Saudita e Qatar, hanno una chiara agenda
politica”.
Un’agenda che spaventa Wassim e gli altri attivisti del movimento
civile. Dopotutto gli unici che stanno finanziando l’esercito libero
sono governi islamisti. L’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia. E poi
ci sono gli Stati Uniti che appoggiano i Fratelli musulmani, come
hanno fatto in Egitto. L’esercito libero siriano non ha un’agenda
islamista, ma ha un dannato bisogno di soldi e di armi.
“Ho un amico, un ex generale che ha disertato, ci ho parlato su skype
l’altro giorno dopo averlo visto su Al Jazeera con la barba lunga
quando so che è un gran bevitore di raki. Dice che in guerra se non
hai armi muori, e che con la barba lunga lo pagano meglio. Per lui è
tutta una farsa, ma poi le milizie dei mujahidin ci sono davvero.
Hanno portato in Siria combattenti libici, ceceni. Le loro idee
radicali ci fanno paura. Non vogliamo uno stato islamico. Sono ancora
una minoranza, ma sono un pericolo. Anche perché la stampa
internazionale parla solo di loro e così discredita la rivoluzione”.
E lo stesso sta facendo la propaganda del regime. Che ormai si tiene
in piedi soltanto grazie a una sapiente costruzione della paura.
“Quando è uscito il video di alcuni combattenti dell’esercito libero
di Feriana che tagliavano la gola ad alcuni alawiti sospettati di
essere shabbiha, il regime ha mostrato le immagini in tv dicendo ecco
come i terroristi sgozzeranno gli alawiti e i cristiani se vincono la
guerra.”
Grazie a quella paura, secondo Wassim, un 25% del popolo sostiene
ancora con il regime. E un altro 50% – la maggioranza – semplicemente
non prende posizione. Odiano il regime, ma hanno paura di esprimerlo.
Oppure hanno paura della piega che sta prendendo la rivoluzione da
quando è iniziata la guerra.
Il dottor Farzand è uno di loro. È un medico curdo di Aleppo sulla
quarantina, padre di due bambini. Un anno fa era sceso in piazza
contro il regime. Oggi ha lasciato la Siria per mettere in salvo la
famiglia. Parla con le lacrime agli occhi, soppesando ogni singola
parola, come se ammettesse per la prima volta la sconfitta.
“Un anno fa avevamo un sogno. E non era la fine del regime. Il nostro
sogno era la costruzione della Siria del futuro. Dopo 40 anni di
dittatura e di terrore, il popolo siriano aveva sconfitto la paura,
avevamo ritrovato la dignità e ripreso a sognare. La fine del regime
era un passo necessario, ma non era il nostro obiettivo. Era il primo
passo di un lungo cammino che doveva portarci a un futuro di libertà,
diritti e giustizia. La guerra ha ucciso tutto questo. Non voglio che
cada il regime se poi arriva un altro regime. Non voglio che cada il
regime se deve essere versato il sangue di decine di migliaia di
innocenti. La guerra è una follia, per uccidere un uomo bisogna essere
malati. Ho paura di quello che sta succedendo nel mio paese”.
Il no alla guerra dei pacifisti siriani non è un atto di accusa contro
l’Esercito libero, ma piuttosto l’amara consapevolezza di come
l’inaudita violenza del regime abbia trascinato il paese in una
spirale di violenza che nessuno sa dove porterà. A parlare sono
rimaste soltanto le armi e gli uomini di religione. Contro i quali
Maan, un altro attivista esiliato della compagnia del Cairo, non si
risparmia:
Il Corano è pieno di pagine che sono un inno alla vita. È scritto che
chi uccide un uomo è come se avesse ucciso l’intera umanità. Ma gli
uomini di religione in Siria vedono soltanto i versetti del jihad. E i
ragazzi delle campagne credono veramente alle loro parole. Credono che
se moriranno da martiri in guerra finiranno dritti in paradiso
circondati da splendide vergini. E finiscono per preferire la morte a
una vita miserabile come quella sotto una guerra. Non si rendono conto
che è un suicidio collettivo, stanno mandando a morire i nostri
migliori ragazzi.”
Ma d’altronde non c’era da aspettarsi altro. Abbandonati dalla
comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a torture e massacri,
difficilmente i siriani avrebbero potuto reagire altrimenti. Sangue
chiama sangue. È la più antica legge del mondo. E al popolo siriano
non è rimasto che stringersi alle armi e alla religione. Non più per
fare la rivoluzione. Ma semplicemente per salvarsi la vita.
5/5 FINITO
Questo articolo è stato espressamente rifiutato in Italia – tra gli
altri - da Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, L’Espresso e
Vanity Fair. Alle testate minori non è stato mai proposto,viste le
vergognose condizioni di sfruttamento lavorativo ivi praticate.
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su questa pagina potrete anche vedere le belle foto tratte dal sito
siriano Al Fann wa al Hurriya - Arte e libertà