Non dimenticate l’ospitalità: potreste accogliere degli angeli
Ammonticchiati là come giumenti
sulla gelida prua mossa dai venti,
migrano a terre ignote lontane,
laceri e macilenti,
varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero
vanno, oggetto di scherno, allo straniero,
bestie da soma, dispregiati iloti
carne da cimitero
vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
Vanno ignari di tutto, ove li porta
la fame, in terre ove altra gente è morta;
come il pezzente cieco e vagabono
erra di porta in porta,
essi, così, vanno di mondo in mondo.
Questa poesia potrebbe essere stata scritta in queste ore, o nelle scorse settimane, o negli ultimi anni. In realtà questa poesia, intitolata «Gli emigranti», è stata scritta nel 1882 da Edmondo De Amicis, l’autore di «Cuore». Parla degli emigranti italiani. Così simili a tanti migranti che arrivano oggi da noi.
Qualcuno potrebbe obiettare: ma questi italiani che partivano avevano tanto di permesso, non erano clandestini. In realtà siamo stati anche noi non solo migranti, ma anche migranti clandestini. Nel 1905 su 4 italiani nell’Impero tedesco 3 erano clandestini; e nel 1951-52 l’80% degli italiani in Francia era entrato clandestinamente, e clandestino era il 90% dei familiari. Ce lo ricorda Sandro Rimauro nel suo bel libro «Il cammino della speranza» (Einaudi, 2009) che scrive: «Dopo aver attraversato i confini stranieri spesso a prezzo della vita, molti furono “sanati” ed equiparati agli immigrati regolari, ma quasi tutti vissero a lungo nell’illegalità, sperimentando sfruttamento e precarietà». Siamo figli carnali di migranti e di migranti anche clandestini. Dobbiamo ricordarcelo.
Ma siamo anche figli di profughi, di coloro cioè che sono costretti dalla guerra o da altre tragedie a fuggire dal proprio paese. Nel maggio del 1915, cento anni fa, la popolazione di Rovereto e di gran parte del Trentino fu evacuata a causa della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria. Tutti sperimentarono per tre lunghi, amarissimi anni la condizione di profugo (la maggior parte in Austria, altri nel Regno d’Italia). Come ci ricorda il catalogo della mostra «Lo sguardo inquieto. Rovereto 1914-1918» allestita a Palazzo Alberti Poja tra il 23 e il 24 maggio venne deliberato l’ordine di evacuazione della città che fu svuotata completamente. Ecco come descrive quei momenti Giuseppe Dalbosco, storico insegnate di questa città, nel suo libro di ricordi «Ma è solo infanzia?» pubblicato vent’anni fa:
«In pochi giorni dalle zone minacciate, dalla Val di Gresta, dalla Vallarsa, da Terragnolo, da Rovereto e dintorni una processione allucinata e sgomenta abbandona le proprie case, la propria roba, il proprio bestiame: gli evacuati lasciano tutto e non sanno, i più, dove saranno sbalestrati. A Rovereto un araldo preceduto da un trombettiere comunica l’ordine di sgombero entro quarantotto ore; il bagaglio personale non deve superare i cinque chilogrammi». Se ascoltate i racconti di questi mesi di tanti profughi siriani la descrizione è la stessa: improvvisamente hanno dovuto abbandonare tutto perché arrivava la guerra. E in queste, ore altri mille di loro sono arrivati sulle nostre coste. Quando li guardiamo scendere da quelle navi pensiamo che anche i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri bisnonni hanno sperimentato la stessa condizione. Hanno portato nel loro viaggio la stessa speranza: dove finiremo? come saremo accolti? Ci vorranno bene o ci guarderanno con diffidenza se non con ostilità? Ci metteranno al caldo o al freddo? In una casa o in una baracca? Pensiamoci quando veniamo a sapere che dei profughi da noi dormono all’aperto, come è capitato quest’estate, o sono alloggiati in sistemazioni indegne. O sono fatti oggetto di inimicizia.
Anche noi siamo figli di migranti e di profughi. E questa è la condizione di tutti gli essere umani, di tutti i popoli. Perché le guerre, le carestie, le miserie non hanno risparmiato nessun popolo. E anche perché l’essere umano è una creatura in movimento per sua natura, non destinata a vivere inevitabilmente nello stesso posto. Movimento è libertà. E l’essere umano è stato fatto libero. Ce lo ricorda anche la Bibbia. A partire da Abramo stesso, il padre comune delle tre grandi religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo, islam- che era un emigrante. Come dice il libro della Genesi: «Il Signore disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò». La migrazione non solo come condanna, ma anche come libertà. Poi il nipote di Abramo, Giacobbe, sperimenterà la migrazione per fame, in Egitto.
Comunque li si intenda questi antichissimi racconti, al di là dal dato religioso o di fede, essi vogliono dirci qual è la condizione dell’essere umano e come dobbiamo comportarci di conseguenza. Ecco allora cosa dice il libro biblico del Levitico: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto». Rileggiamolo questo grandioso comando.
Siamo o siamo stati tutti stranieri, migranti o profughi, ma tutti stranieri. È la condizione umana, il suo destino: il suo presente, il suo passato, il suo futuro. L’umanità ha imparato faticosamente a prendere atto di questa comune condizione. Da qui nascono i diritti. Le leggi riconoscono che la persona umana, per la sua condizione, per il suo destino, inviolabile e sacro, di libertà e di dignità è portatrice di diritti. E questi diritti degli esseri umani vengono prima e sono superiori alle stesse leggi che uno Stato si dà. Non è la legge che crea la dignità dello straniero, è la dignità dello straniero come persona umana uguale a noi che fonda la legge. Che spinge a creare le leggi quando non ci sono. E quando le leggi non riconoscono questa dignità sono disumane e vanno cambiate.
In questi giorni le cronache sono state occupate dalla tragedia della nave traghetto Norman Atlantic. Il nostro pensiero va alle vittime, note e ignote. E tra quelle ignote ci sono, sembra, anche molti migranti. Tragedia nella tragedia. Morti che si aggiungono ai 3.419 morti accertati quest’anno nel Mediterraneo. Una strage infinita. Quella di Patrasso e dei tir caricati sulle navi che da lì partono è anche la rotta di tanti migranti verso la libertà, o verso, purtroppo, la morte. Ma il giorno prima che accadesse questa tragedia i giornali avevano parlato di uno scontro tra Ministero degli interni e Marina militare a proposito dei salvataggi in mare. Sappiamo che l’operazione italiana di salvataggio dei migranti, Mare Nostrum, è stata chiusa ed è stata sostituita dall’operazione europea Triton. Questa è una operazione di sicurezza, di controllo delle frontiere più che di salvataggio. Le navi utilizzate sono più piccole e si muovono più vicino alle coste italiane. Il salvataggio è previsto solo in casi di massima emergenza. Ciò impedisce di soccorrere in tempo quelle imbarcazioni in difficoltà che sono più lontane dalle coste italiane. Il Ministero degli interni ha accusato la Marina militare di continuare a mantenere delle navi su una linea più avanzata, come era per Mare Nostrum. La Marina militare ha risposto che è impensabile, vista la situazione in Nord Africa, lasciare tante persone su navi alla deriva senza soccorrerle. La questione, come possiamo capire, è di una gravità inaudita e va a toccare al cuore quei diritti fondamentali della persona umana, a partire dalla vita stessa, che le leggi e i comportamenti di uno Stato devono semplicemente riconoscere e tutelare. Credo che a partire anche da questo nostro incontro dobbiamo far sentire forte la nostra voce per lodare il comportamento della Marina militare (potrà sembrare strano per dei pacifisti), per incoraggiarla a continuare a salvare le vite umane in pericolo, mentre dobbiamo esprimere al Ministero degli interni tutta la nostra indignazione e protesta per queste prese di posizione che vanno contro il rispetto e la difesa della vita umana. È veramente una vergogna. Una vergogna inammissibile in uno Stato che si vuol dire civile. Ma anche in una Europa che ha sperimentato in un recente passato la vergogna della violazione dei diritti fondamentali della persona umana.
E pensavo, a questo proposito, al caso Grüninger. Qualcuno di voi conoscerà senz’altro la storia di Paul Grüninger, l’ufficiale di frontiera di San Gallo, in Svizzera, che negli anni 1938-1939, nel periodo dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista,violando le leggi svizzere che avevano chiuso l’accesso agli ebrei in fuga dall’Austria, falsificò i documenti di 3.600 ebrei (cambiando la loro data e apponendone una anteriore all’entrata in vigore della legge elvetica di divieto) facendoli passare e salvandoli da morte sicura. Grüninger fu radiato dalla polizia elvetica ancora nel ’39, condannato ad una ammenda, privato del diritto alla pensione. Vivrà in condizioni precarie, facendo lavori saltuari. Morirà in povertà nel 1972, a 83 anni. Invano chiese di essere riabilitato. Solo molti anni dopo, nel 1995, lo stesso tribunale di San Gallo che lo condannò, riaprì il caso e lo assolse. E nel 1998 il governo cantonale pagò agli eredi (due figlie) quelle somme che sarebbero spettate al capitano Grüninger e con quei soldi gli eredi istituirono la fondazione Grüninger. Lo Stato svizzero è arrivato molti, molti anni dopo il capitano Grüninger a capire che la dignità umana è superiore alle leggi. Ma ci è arrivato, infine.
La Marina Militare oggi fa, e noi dobbiamo volere con tutte le nostre forze che continui a fare, quello che faceva il capitano svizzero: salva delle vite umane, qualunque cosa dicano le leggi, i regolamenti, i decreti dello Stato o dell’Unione Europea che vorrebbero invece impedire di salvare degli esseri umani in pericolo di vita. Che fuggono dalle repressioni della feroce dittatura eritrea, dai massacri in Siria, o da tanti altri regimi che violano costantemente i diritti umani, o da tante situazioni dove la dignità umana non esiste.
Ma non basta salvare la vita di tanti migranti. Bisogna accoglierli come devono essere accolte delle persone. Ancora non lo si sta facendo a sufficienza. E la prima causa di questo è che siamo sempre in una cultura politica dell’emergenza. Bisogna capire una volta per sempre che non c’è una emergenza profughi o una emergenza migranti. Finché perdureranno le guerre ai confini d’Europa, finché perdureranno dittature feroci, finché i paesi impoveriti dell’Africa non daranno futuro a tanti giovani la fuga di tante persone verso i nostri paesi non si arresterà. La politica, le istituzioni, la società civile devono insieme costruire un sistema di accoglienza che prenda atto di una questione destinata a durare nel tempo. Non c’è più una emergenza, ma un dato ordinario e duraturo. Bisogna trarne le conseguenze, cambiare mentalità, tutti: singoli, associazioni, istituzioni. Costruire con la partecipazione di tutti un sistema di accoglienza capace di far fronte alle necessità che inevitabilmente sorgono e sorgeranno. Basta interventi di emergenza. Solo così si sconfiggono le paure e le ostilità e si è all’altezza della sfida umana e sociale che abbiamo davanti.
Voglio concludere con un pensiero, che è anche un augurio, che mi ha sempre profondamente colpito e che si trova nella Lettera agli Ebrei, un testo del Nuovo Testamento, di prima del 70 dopo Cristo, che veniva attribuito a Paolo ma che ora si pensa sia della sua cerchia. È un testo molto ricco e complesso, dove si riassumono i tratti fondamentali della dottrina cristiana della chiesa primitiva. C’è un breve passo nelle raccomandazioni finali che recita: «L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli». Lo trovo meraviglioso. Ci ricorda come un volto sconosciuto che abbiamo accolto possa essere un messaggero di qualcosa di divino, di inaudito, di inatteso, di straordinario.