GRANDI LAGHI AFRICANI

Caritas Diocesana di Bologna - Centro Missionario Diocesano

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E' un servizio della Caritas Diocesana e del Centro Missionario Diocesano di Bologna per gruppi missionari e Caritas parrocchiali.

[Grida Burundi] [Aderenti alla campagna] [Notiziario N. 6]

André Sibomana, senza passaporto

1. «Quale difensore dei diritti umani dichiaro di aver sollecitato da parecchio tempo il passaporto, ma lo stato ruandese non ha tenuto conto dei miei diritti».

2. «Gettarmi addosso un passaporto quando la malattia è giunta allo stadio finale vuol dire coprire altre ingiustizie, nascondendole nel silenzio. Respingo con il passaporto la complicità nella violazione dei diritti umani dei miei concittadini. Con questo rifiuto rivendico, in modo inequivocabile, la necessità di far affiorare tutte le situazioni di ingiustizia. Da quando ne fui colpito la prima volta, nel 1976, la mia malattia mi è diventata familiare. Le cure mediche disponibili in Ruanda non sono sufficienti. La virulenza attuale è devastante. Se passerà tanto meglio. Se, invece, mi stroncasse, lascerà a chi mi ha rifiutato i diritti fondamentali, un debito da pagare».

Pochi giorni dopo aver rilasciato questa dichiarazione-testamento André Sibomana moriva a Muyunzwe, nel suo paese, il Ruanda. Era il 9 marzo 1998. André Sibomana chiudeva, da uomo libero, i 44 anni della sua esistenza, realizzando così la profezia del suo nome: "Non sono (Si) quelli lì (bo) a guidare la mia vita, ma Dio (Mana)". Andare a morire all'estero sarebbe stata una fuga inutile e uno scagionare gli estremisti del governo ruandese in carica, come del precedente, che più volte hanno cercato di ammazzarlo. Era nato nel comune di Masango nel 1954.

Militante per la difesa dei diritti umani

Andreya non è mai scappato. Lo incontrai il 10 ottobre del 1996. Insistetti più volte per farmi ricevere. Era stanco, turbato. In quei giorni il governo del Fronte patriottico ruandese, al potere dal luglio 1994, anno del genocidio, preparava l'attacco ai campi profughi nell'allora Zaire. Al corrente di quanto si tramava, era certo che un'altra tragedia incombeva sulla sua gente: guerra, fame, sofferenze, uccisioni.

- Non ha mai pensato di rifugiarsi all'estero?

- In queste prigioni ci sono i miei fratelli, le mie madri, i miei padri. Non posso abbandonarli.

Già in seminario aveva dimostrato più volte di non cedere alle ingiustizie commesse da professori e superiori nei suoi confronti come nei confronti dei suoi compagni tutsi.

Da prete si adoperò per la riconciliazione dei suoi parrocchiani e incominciò a rilevare e a denunciare le ingiustizie cui erano vittime i suoi concittadini.

Dal 1988, nominato direttore di Kinyamateka, settimanale della conferenza episcopale del Ruanda, denuncia la corruzione, gli intrighi, le ruberie, gli assassinii commessi da Habyarimana e dalla cerchia dei suoi famigliari e fratelli di clan. All'arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, che lo convoca perché le inchieste e le rivelazioni di Kinyamateka, lo mettono a disagio nei confronti dell'amico presidente Habyarimana, risponde chiaramente che non ha nulla da farsi perdonare e che continuerà il suo lavoro.

Andreya non risparmia critiche ai vescovi del suo paese «che hanno trincato» con l'apparato della dittatura prima e che ora «tacciono succubi del nuovo potere, per non essere rimproverati di aver taciuto allora».

Prete e giornalista, a conoscenza dei preparativi del genocidio, ha fatto il giro delle ambasciate, ha contattato rappresentanti delle Nazioni Uniti e di organismi internazionali, informando, producendo documenti, ma invano. «Tutti mi ascoltavano con interesse, ma non volevano credere all'evidenza».

Presidente dell'Associazione per la difesa dei diritti umani del Ruanda, tiene conferenze, con altre organizzazioni umanitarie raccoglie prove, presenta rapporti. Inutile. Quando scoppia il caos, mentre cerca di salvare la propria pelle, trova il modo per nascondere, sfamare e proteggere centinaia di tutsi.

Dopo il genocidio, nominato amministratore della diocesi di Kabgayi, tratta con il governo e ottiene di apportare migliorie e di ingrandire la prigione dove sono rinchiuse le persone accusate di aver partecipato al genocidio. In funzione di vescovo e giornalista, mentre esorta alla riconciliazione, denuncia i crimini del nuovo governo, le vendette della gente, chiede giustizia. Con la sua azione pastorale riesce a convincere i suoi concittadini superstiti a lavorare insieme, a costruire insieme. E' felice il giorno che hutu e tutsi bevono la birra insieme, dopo aver costruito insieme 200 case.

Sono questi segni di buona volontà, la sua fede incrollabile, la conoscenza profonda della realtà del suo paese a non fargli perdere la speranza. Nell'orrore, nella tragedia che per due volte ha travolto il suo paese in due anni e che ora si è imbarcato in una nuova guerra con il Congo, dichiara: Conservo la speranza per il Ruanda. Una speranza che non gli viene dal governo né dagli organismi internazionali, ma solo dalla fede. «So di essere in pericolo, ma non ho il diritto di andarmene. Sarei potuto andare in esilio dieci ... venti volte. Il mio posto è qui, tra la mia gente (...) Non ho mai rimesso in discussione la mia fede e non ho mai dubitato. Ma ho scoperto, nel sangue e nelle lacrime, che il cammino della verità non è necessariamente un cammino felice... Non è Dio a pormi dei problemi, ma l'uomo... Io cerco il modo di trovare la strada giusta, il modo di seguirla e di condurvi altri uomini».

Che altro aggiungere? Ha amato la verità perché era certo di essere amato da Dio. Ha amato la sua gente e l'ha difesa "come una bestia selvaggia" da chi l'ha voluta traviare.

Giacomo Matti

Bologna, 17 settembre 1998

Il libro intervista di André Sibomana J'accuse per il Ruanda, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998, pp. 192, L. 22.000, è la testimonianza di una vita costruita e donata con sacrificio, ma è anche una fonte indispensabile per capire quante, quali sono e di chi sono le responsabilità di quanto è successo in Ruanda.