Parole di Pace dai Vescovi
e dalle Conferenze Episcopali

 

- il magistero della Pace -




L'INVIATO DEL PAPA DA SADDAM:
NUBI MENO NERE SULL'IRAQ

Un lungo, e pacato, colloquio di un'ora e mezza. L'inviato speciale del Papa e Saddam Hussein si sono incontrati ieri mattina dopo che il rais aveva fatto attendere per giorni il cardinale francese. Massimo riserbo sul luogo e persino sulle circostanze, per non infrangere le rigidissime regole volute dal protocollo presidenziale, ma lo scambio incrociato di visite fra Vaticano e Baghdad - un progetto da temerari solo qualche settimana fa - pare riuscito, seppure i risultati concreti restino da misurare. Poche ore dopo la "missione impossibile" - un nuovo episodio nella storia della diplomazia vaticana - il cardinale Roger Etchegaray appare disteso e moderatamente ottimista. "Penso che questa visita possa contribuire ad allontanare un po' le nuvole nere che si stanno addensando sul cielo dell'Iraq. Credo di aver fatto del mio meglio come messaggero del Papa e testimone della sua azione di pace", commenta nel salottino della nunziatura apostolica.

Cardinale Roger Etchegaray, che impressione le ha fatto incontrare uno degli uomini politici fra i più inavvicinabili, misteriosi e temuti del mondo? Che senso attribuisce alla sua visita?
Il presidente iracheno, come noto, concede pochissime udienze. Il fatto che mi abbia ricevuto per un'ora e mezza è dunque un segno di riconoscimento dell'autorità morale del Papa. Saddam Hussein si è mostrato lieto di ricevere il messaggio personale che Giovanni Paolo II mi aveva consegnato. Mi è parso un uomo in buona salute, seriamente cosciente delle responsabilità che deve affrontare di fronte al suo popolo. Mi sono convinto che oggi sia volontà di Saddam Hussein evitare la guerra.

Qual è il significato di questa visita, ci può dire se esiste una mediazione vaticana per scongiurare in qualche modo un conflitto?
Comprendo la grande attesa suscitata da un incontro di questa importanza, ma il carattere spirituale della missione dona alle mie parole una tonalità particolare. La Chiesa ha la sua maniera di parlare della pace e rende omaggio a tutti coloro che in queste ore lavorano instancabilmente per essa. Vorrei ricordare, citando Giovanni Paolo II, che la Chiesa di fa portavoce della "coscienza morale dell'umanità che desidera la pace, che ha bisogno di Pace".

Questo lo spirito della sua missione, ci può tuttavia riassumere il senso del vostro colloquio?
Abbiamo certamente affrontato alcune questioni concrete che non posso menzionare per rispetto a chi mi ha mandato e a chi mi ha ricevuto. In ogni modo si è trattato di verificare se tutto è stato fatto per garantire la pace ristabilendo un clima di fiducia che permetta all'Iraq di ritrovare il suo posto nella comunità internazionale. Idealmente era presente tutto il popolo iracheno che ho incontrato da Baghdad a Mosul: in questi giorni ho potuto misurare fino a che punto aspiri a una pace giusta e duratura dopo anni di sofferenza e di umiliazione. Una sofferenza a cui la Chiesa e il Papa si sono mostratati da sempre solidali.

Come instaurare concretamente un clima di fiducia all'interno dell'Iraq e di fiducia dei Paesi stranieri nei confronti con l'Iraq?
Non sono venuto come un politico, non è mio compito preparare azioni concrete, ma sono convinto che sia fondamentale in questo momento restaurare un clima di fiducia, che è alla base di tutti gli sforzi che si stanno compiendo. La ricostruzione della fiducia è un grande lavoro e richiede tempo, comincia da piccoli gesti. Importante, poi, è dare fiducia al lavoro degli ispettori delle Nazioni Unite

Eminenza, lei ha appena auspicato che si possa "ridare un posto all'Iraq nella comunità internazionale". Questo significa che il Vaticano, se il disarmo dell'Iraq sarà completato e verificato, chiede la fine dell'embargo?
Senza dubbio, ma non sono io a dirlo: il Papa si è più volte pronunciato contro l'embargo.

Non crede, però, che sottolineare sempre le sofferenze della popolazione finisca con il creare un alibi alle responsabilità politiche del regime?
Potrebbe ma, di fronte a una popolazione che da tanti anni soffre solo per sopravvivere, non si può parlare di alibi, non ci sono alibi.

Dunque un appello alla pace come priorità?
A nome del Papa voglio fare un appello alla coscienza di tutti quelli che, in questi giorni decisivi, hanno influenza sull'avvenire della pace. In definitiva è la coscienza che avrà l'ultima parola, più forte di tutte le strategie, di tutte le ideologie, e perfino di tutte le religioni.

Un appello mentre in questi giorni si moltiplicano nel mondo le manifestazioni, i dibattiti, le veglie di preghiera per la pace. Sta nascendo una nuova coscienza nell'opinione pubblica mondiale per la pace? Nel mondo c'è bisogno di gesti che esprimano il desiderio di pace. Credo sia necessario che l'opinione pubblica influenzi le decisioni degli uomini che hanno responsabilità, ma è necessario che sia un'opinione ben formata e ben informata perché esiste - parlo in generale - il pericolo di manipolazioni. Un'opinione pubblica ben formata e informata è una condizione necessaria, ma non sufficiente per la pace. Il popolo iracheno ha una naturale bontà d'animo, ma dopo due guerre e l'embargo è colpito in ogni aspetto della sua vita e non ha la possibilità di informarsi.

Si conclude domani (oggi per chi legge, ndr) la sua visita, che era principalmente una visita pastorale. Che Chiesa ha trovato in Iraq?
Una Chiesa viva e profondamente affettuosa nei confronti del Papa. In poche parti del mondo c'è un sentimento così travolgente, quasi palpabile, per un rappresentante vaticano. Un affetto che nasce dalla situazione complessa di una minoranza che vive nella tensione di unità con Roma. Inoltre, dopo la visita di due giorni a Mosul, vorrei sottolineare l'aspetto ecumenico. Un ecumenismo fatto di solidarietà concreta fra cattolici e ortodossi: la domenica si scambiano le chiese e le due comunità si aiutano economicamente per costruire i loro edifici sacri. Qualcosa di ammirabile, da sottolineare.

È inquieto per la sorte dei cristiani iracheni?
Qui i cristiani sono iracheni prima di tutto e subirebbero la stessa condizione del resto del Paese. A parte sparuti episodi di intolleranza tra i musulmani e i cristiani, nell'insieme c'è osmosi nel vivere quotidiano. I cristiani sono ritenuti dei veri iracheni e - c'è da crederlo - seguiranno la sorte del loro Paese.

di Luca Geronico
da Avvenire del 16 febbraio 2003


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