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Kenya

La grazia costa 4000 dollari

Per merito d’una grazia presidenziale, 28 condannati a morte, dopo aver trascorso oltre 20 anni in attesa della forca, sono usciti dalla prigione da uomini liberi. Questi poveri disgraziati raccontano le sevizie subite e come fosse possibile evitare il boia pagando una certa somma.
Zachary Ochieng

Dopo aver trascorso fra i 15 e i 22 anni in attesa del cappio del boia nella terribile prigione di massima sicurezza di Kamiti, 28 prigionieri non credevano alle loro orecchie quando gli è stato detto che erano liberi. Gibson Njau, un ex commerciante in ricambi per veicoli che ha passato 16 anni nella cella della morte, così ricorda il memorabile momento: "Quella mattina del 25 febbraio un gruppetto di agenti di custodia d’alto rango è entrato nella nostra cella ed io ho pensato che qualcosa fosse andato storto. Uno di loro ci ha rassicurato dicendo che era tutto a posto, poi ha aggiunto che chi di noi avesse sentito fare il suo nome all’appello che si accingevano a fare, si sarebbe dovuto ritenere libero".

Njau, 56 anni, era stato messo in galera per rapina aggravata e condannato a morte nell’87. Il crimine, che Njau giura di non aver mai commesso, riguardava il brutale assalto operato ai danni del Vice Ministro Achya Echakara che venne assalito mentre si trovava in compagnia di una fidanzata ugandese, certa Margaret Musungu, fuori Nairobi, sulla strada per Langata. Nell’occasione venne picchiato fino ad essere lasciato abbandonato, senza conoscenza, mentre il suo veicolo veniva rubato. Echakara morì 10 giorni dopo. Nel frattempo, mentre la polizia continuava le sue indagini, Njau, che aveva un negozio di parti di ricambio dalle parti di Gikomba, a Nairobi, veniva arrestato per una rissa da bar e solo più tardi messo in collegamento con l’assalto al Vice Ministro poiché il veicolo della vittima era stato ritrovato vicino a casa sua. La polizia riteneva che intendesse cannibalizzare la macchina per farne pezzi di ricambio. Njau e l’altro accusato del crimine, Peter Murigi, vennero imprigionati sulla base dell’evidenza delle circostanze addotte dalla testimone d’accusa chiave, la signorina Musungu.

Questa li identificò nel corso di un confronto all’americana che ebbe luogo alla stazione di polizia di Makongeni a Nairobi. Mentre Murigi venne riconosciuto per via di un vuoto nella sua dentatura superiore, un medico legale affermò che qualche fibra della maglietta verde di Njau era stata rinvenuta sulla giacca grigia di Echakara. Njau ha ora indicato ad "AfricaNews" un punto nella foresta di Karura dove lui e Murigi sarebbero stati torturati perché confessassero il violento assalto. Al momento, in quella terribile occasione, i due professarono immediatamente la propria innocenza.

Ma, ciò che sancì il loro destino fu il giudizio del 13 agosto ’87, emesso dall’allora presidente del tribunale di Nairobi, il giudice Lucas Osiemo, che fece tuonare queste parole: "L’unica condanna prevista dalla legge è la morte. Non ho alternative." Allora, come adesso, i due si dichiararono estranei al fatto ma, il magistrato neanche li sentì mentre li portavano via a testa bassa. Quel momento che segnava l’inizio del loro lungo viaggio verso il patibolo terminato alla fine di febbraio di questo anno, quando vennero a sapere di essere liberi.

Peter Gitau, un ex macellaio che ha passato 20 anni nella cella della morte ricorda che, ogni mattina, quando sentivano bussare alla porta, pensavano che fosse arrivato il loro turno, di essere i prossimi ad essere impiccati. L’ex detenuto ha spiegato ad AfricaNews che un bel numero di prigionieri venne impiccato nell’87, quando lui si trovava in attesa della sentenza, ed ha aggiunto:" Non puoi mai sapere quando viene il tuo turno".

Altrettanto angosciante, secondo il racconto di un singhiozzante Njau, era anche il fatto che alcuni boia tormentavano i detenuti in vari modi: comparendo dinanzi a loro con abiti macchiati di sangue, come a dire che avevano appena impiccato qualcuno. Oppure mostrando loro la forca da lontano facendoli sbiancare in viso dal terrore perché era terrificante vedere dove si sarebbe andati a morire.
Peter Gitau, a sua volta, ricorda un boia, un certo Nganga, che si piazzava davanti a loro, puntando qualcuno e dicendogli che sarebbe stato il prossimo a trovarsi il cappio al collo.

I segni premonitori delle esecuzioni imminenti non erano sconosciuti ai prigionieri. Secondo Njau e Gitau esse avevano luogo preferibilmente fra marzo ed agosto, di martedì o giovedì, alle 5 del mattino o alle 7 di sera. Quand’era il momento, diversi guardiani dall’aria ignobile entravano nelle celle e raccoglievano a mò di branco i prigionieri da giustiziare. Quelli che venivano presi, disperandosi, piangevano mentre venivano portati via. Gli veniva concesso tutto ciò che desideravano, prima dell’impiccagione. Poi veniva diffusa, da altoparlanti sparsi per la prigione, musica molto alta in una strana lingua che si interrompeva solo dopo che le esecuzioni avevano avuto luogo. Questo il vivido e tremendo racconto dei nostri due ex detenuti.

Oltre ad aspettare giorno dopo giorno la morte, i prigionieri dovevano restare in un blocco d’isolamento detto A, dove conducevano una vita quanto mai deprimente. Nonostante mangiassero bene, l’agonia dell’attesa del cappio del boia era insopportabile. Al mattino venivano svegliati presto da guardiani vocianti e condotti a fare la fila davanti a gabinetti all’aperto, senza ripari, dove facevano i loro bisogni sotto gli occhi di tutti. Poi, alle 7, arrivava il momento della prima colazione a base di porridge, mentre il pranzo era servito alle 10, seguito dalla cena alle 3 del pomeriggio.

I prigionieri vivevano in minuscole celle di 7 piedi per 8 in cui erano accalcate fino a 10 persone. C’era un catino di plastica in un angolo che veniva usato da gabinetto nel corso della notte. Questo stesso catino veniva svuotato al mattino ed usato per l’acqua da lavarsi. Malattie come la diarrea e il tifo erano ovviamente comuni e nessuno si prendeva cura dei prigionieri malati; molti di questi morivano per mancanza di assistenza medica.

Gli ex detenuti riferiscono anche di una corruzione fortissima all’interno della prigione. Gitau ricorda che, durante la sua lunga detenzione, a un buon numero di prigionieri venne commutata la sentenza di morte in quella a vita, l’ergastolo, nonostante i loro appelli fossero stati respinti dai giudici in tribunale. Il prezzo di tale "grazia" fraudolenta era valutabile fra i 200.000 e i 300.000 scellini kenioti, cioè dai 2.600 ai 4.000 dollari americani. Coloro che non erano in grado di raccogliere una somma del genere si rassegnavano ad attendere il giorno in cui avrebbero affrontato il boia e il patibolo. "Quelli di noi che erano poveri e i cui parenti non potevano raccogliere la somma richiesta, non potevano comprarsi la libertà (di non morire). La povertà sembrava aver posto un sigillo al nostro destino. Ma, il nostro Dio ha infine ascoltato le nostre preghiere." afferma un filosofico Njau che ha frequentato in prigione diversi corsi di studi biblici.

Ora godono della libertà, ma per molti di loro, che hanno passato almeno metà della vita in prigione, i sogni che hanno lungamente coltivato sono stati fatti completamente a pezzi. Quando Njau venne arrestato, nell’87, aveva una moglie e tre bambini, il primo di 9 anni, l’ultimo di 4. Sua moglie, Lucy Wambui, si ammalò di un tumore al seno mentre lui era in prigione e di questo è morta. Quando venne a sapere della morte della moglie chiese a suo fratello minore se poteva prendersi cura dei suoi bambini, ma, costui, che era disoccupato, non era in condizione di farsene carico.Si decise che i bambini venissero portati da una zia in Uganda, dove vivono tuttora senza che Njau li abbia potuti rivedere. Ora pensa di risposarsi, ma non ha una casa poiché quella che aveva è crollata mentre si trovava in prigione. Vive, intanto, con un fratello minore a Banana Hills circa 25 Km. a nord ovest di Nairobi. L’ex detenuto rivolge ora appelli al Governo e a possibili benefattori perché lo aiutino a metter su una casa, sposarsi ed avere un prestito per riprendere il suo vecchio lavoro.

Anche per Gitau, che ha ora 41 anni, la vita dopo la prigione si presenta quanto mai difficile. Rintracciare i parenti gli è stato impossibile ed ora questo ex detenuto condannato per rapina aggravata nell’83 per sopravvivere deve dipendere dalla bontà d’animo dei parenti di qualche suo ex collega di detenzione. Era celibe al momento dell’arresto e della prigionia ed ora sta cercando di farsi una famiglia. Sconsolato, ci ha detto: " Devo sposarmi, sto chiedendo al governo e a gente di buon cuore di aiutarmi con qualche prestito per avviare un’attività da falegname, essendomi qualificato a farlo con dei corsi in prigione."

Nonostante il grave dilemma che devono affrontare per rifarsi una vita, Njau e Gitau sono molto riconoscenti al nuovo governo della National Rainbow Coalition (NARC) che gli ha offerto una seconda possibilità nella vita. Ma, mentre assaporano la libertà, maledicono il regime di Moi per la disgrazia che gli è capitata di essere rovinati da un sistema giudiziario corrotto ed inefficiente che li ha imprigionati per crimini che giurano di non aver mai commesso.