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I Berretti Bianchi in Palestina


Notizie, testimonianze, informazioni

19-20 agosto 2002

Elenco contributi
Nablus e dintorni
Martedì, 20 agosto 2002

L'assemblea del mattino che doveva iniziare alle nove comincia alle 10.30 presso la casa Hussein, perché aspettiamo tutti gli altri che sono sparsi nel distretto di Nablus.
I punti all'ordine del giorno sono:
  1. come distribuire gli "scudi umani", cioè tutti noi;
  2. come e quando fare una iniziativa per gli abitanti del campo di Askar, che soffrono particolarmente le restrizioni di movimento per la vicinanza di coloni; tra poco riaprono le scuole e i bambini rischiano di trovarsi in situazioni di serio pericolo perché non c'è scuola dentro il campo;
  3. come "disturbare" l'azione dei militari che occupano in continuazione case per usarle come caserme temporanee cacciando i legittimi inquilini;
  4. organizzazione e preparazione della manifestazione di sabato prossimo insieme ai palestinesi e agli israeliani di Ta’ayush;
  5. come intervenire nei villaggi che sono sotto coprifuoco da quasi sessanta giorni e non hanno la possibilità di fare provviste.
La discussione è sempre molto ordinata e con interventi brevi; unico handicap la lingua. Gli italiani hanno qualche difficoltà a seguire gli interventi, soprattutto quando parlano alcuni "americani" che considerano la loro lingua come lingua madre per tutti!
Alle 11.30 ci rechiamo al M.R.C. per l'appuntamento che il dr. Allan aveva preso con noi. Ci sono delle incomprensioni tra gli ISM e il MRC: il dr. Allan ritiene che a volte gli ISM agiscano indipendentemente dalla popolazione palestinese e questo crea qualche malumore. Poi Allan ci porta in un locale del centro di Nablus, dove di solito si tengono riunioni "importanti" socialmente (matrimoni, funerali,...…) e di lì a poco arriva il Prefetto di Nablus, che tiene una conferenza stampa sulla situazione di Nablus. Parla in arabo e l'interprete è una ragazza che Elisabetta aveva conosciuto a Gerusalemme.
"L'obiettivo delle distruzioni effettuate dall'esercito non può essere altro che l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Sharon è il vero colpevole di questa situazione: 280 case sono state distrutte totalmente in città, altre centinaia sono fortemente danneggiate. Da aprile ad oggi si contano 130 morti. Ogni giorni si cercano scuse per continuare con queste azioni. Noi aspettiamo ancora prove concrete delle loro affermazioni; qui la vita è diventata impossibile; non c’è lavoro, non si può procurare il cibo, tutte le attività sono sospese; la situazione sanitaria è molto precaria; l'istruzione è a rischio e molti ragazzi possono perdere l'intero anno scolastico".
Finita questa esposizione, un giornalista chiede come si può ridurre il peso di Jihad e Hamas. Il Prefetto risponde che per farlo occorre creare un clima politico che permetta un reale cambiamento. Altra domanda: e per fermare gli attentati terroristici? Risposta: i palestinesi si stanno difendendo, l'unico terrorista è il Primo Ministro Ariel Sharon!
Al pomeriggio andiamo a Betibe, uno dei villaggi rimasti isolati sin dall'inizio del coprifuoco. Ci porta un taxi che rischia licenza e auto, non essendo autorizzato a muoversi; visitiamo varie famiglie, a cui portiamo alcune cose comperate al mercato di Nablus. Presso la seconda famiglia viene a trovarci un medico, che poi ci guida in altre case che si trovano in particolari difficoltà. Tra queste, una famiglia composta dai genitori e da sette figlie, tutte femmine; una di loro si chiama Palestina Libera! Il fratello del dottore è uno dei "fortunati" che ha avuto la casa occupata dai militari e ci porta a visitarla mostrandoci i danni compiuti dai "soldatini". Mentre siamo con loro, passano un carro armato e un'autoblinda che con l'altoparlante ci intima di stare dentro le case. Si sta facendo tardi e così richiamiamo il nostro tassista temerario che questa volta rischia il doppio, perché con il buio le auto si vedono meglio. A metà percorso il motore si ferma (rottura della coppa dell'olio) e tutti scendiamo per spingere l'auto in una zona dove non può essere schiacciata con i tank. Il tassista ci vuole invitare a cena a casa sua e a dormire, ma non possiamo accettare perché le case dove dormiamo sono "a rischio" distruzione e la nostra presenza potrebbe salvarle. Allora ferma un collega per farci portare a destinazione, a Balata; anche il collega si presta a correre il rischio e non vuole neppure uno shekel.
Quando arriviamo al campo è notte e ci fermiamo a prendere un "panino" arabo: anche questo ci viene offerto dal gestore e devo dire che per me è stato difficile non cedere alla commozione. Tornando verso la "nostra casa" (è difficile non sentirsi a casa con questa gente) un anziano signore mi chiede con quali soldi siamo venuti, se qualcuno ci paga e cosa racconteremo quando torneremo a casa. Io ho risposto guardandolo negli occhi che ci paghiamo da soli e che racconteremo quello che abbiamo visto. Lui mi ha stretto la mano e se ne è andato. Mi era successa la stessa cosa nel 1991, ma non lo ricordavo più.
Francesco
 
Nablus
Lunedì, 19 agosto 2002

Il mattino seguente, dopo aver parlato con Hassib, partiamo per Gerusalemme per poi dirigerci verso Nablus. Tra Gerusalemme e Nablus vi sono due posti di blocco: il primo è praticamente solo per i palestinesi, a noi basta inventare un pretesto a cui i soldati fanno finta di credere; il secondo, Hawara, invece è un po più complicato. Mentre attendiamo il nostro turno ci viene incontro un "internazionale" tra i 50 e i 60 con un viso sconvolto: chiede al nostro autista se lo può portare indietro e così l'autista lo invita a salire; noi chiediamo subito che notizie ci può dare e lui inizia a dire che sono tutti matti, che questa mattina hanno fatto esplodere una casa nel centro di Nablus e che è un inferno; lui è un sanitario e aveva il compito di coadiuvare un medico dentista; quando si accorge che l'autista cerca di portarci più vicino al posto di blocco intima di fermare il mezzo perché lui non vuole fare neppure un centimetro verso Nablus; ha una faccia sconvolta e così lo lasciamo scendere.
Al posto di blocco raccontiamo ancora che siamo una delegazione universitaria e non fatichiamo troppo a convincere i militari. Dopo il check point proseguiamo a piedi verso Nablus; impieghiamo circa un'ora a percorrere la strada fino al Medical Relief Center e lungo tutto il percorso riceviamo saluti di benvenuto ("welcome, welcome!"), sorrisi e strette di mano da parte dei bambini che instancabilmente ci chiedono: "what's your name?". A metà percorso incontriamo tre altri internazionali, un italiano (Angelo) e due "americani" (uso le virgolette perché quando gli internazionali sono molti capita spesso che gli americani non USA contestino questa semplificazione). Ci scambiamo saluti e notizie: Angelo, nato a Siena, non manca di chiedere chi abbia vinto il Palio di agosto! Arriviamo al MRC e ci accoglie il dottor Allan, che Annick ha già conosciuto nel suo precedente viaggio. Mentre conversiamo con lui arriva Heidi, dell'International Solidarity Movement, e con lei facciamo il programma per il resto della giornata e ci organizziamo per la notte: Elisabetta Annick e Thomas andranno nel centro di Nablus, in un appartamento messo a disposizione da una famiglia (casa Hussein), io e Donato andremo al campo profughi di Balata (Titi house), in una delle case "a rischio" di demolizione, mentre Tom preferisce andare in un albergo non lontano dal centro. Gli altri partono subito per le loro destinazioni, mentre io e Donato aspettiamo Aisa, una ragazza giapponese che ci accompagnerà al Balata Camp.
Aisa giunge poco dopo con Connor, un giovane "americano". Quando entriamo nel Campo di Balata notiamo la solita sensazione degli altri campi profughi: qui il coprifuoco non è molto rispettato, né dai bambini, che spesso non lo rispettano neppure in città, né dagli adulti, che passeggiano e fanno i loro commerci per la via centrale del campo. Ci fermiamo a mangiare qualcosa e io vado a comperare una bottiglia di acqua in un negozio vicino; subito si avvicina un giovane che vende felafel e me ne regala uno appena tolto dalla friggitrice.
L'ingresso della casa che ci ospita è situato in un vicolo tanto stretto che il piccolo zaino che ho sulle spalle mi rende difficile la leggera rotazione necessaria a percorrere il vicolo senza strofinare le due pareti; la porta d'ingresso è messa in modo tale che siamo costretti ad entrare uno alla volta, perché quando la porta è aperta non si può accedere alle scale che portano all'interno. Credo di aver capito che questa è una precisa strategia per impedire ai militari di entrare in massa nelle case. I militari hanno trovato però il modo di entrare in gruppo: sfondano semplicemente le pareti!
La famiglia che ci ospita ha le solite foto dei martiri appese alle pareti. Ci offrono frutta e bibite. Noi alloggiamo al piano superiore, dove ha subito inizio una riunione per una nuova situazione venutasi a creare in una casa vicina ad un altro Campo di Nablus, quello di Askar: c'è una situazione di tensione in una casa che i militari stanno cercando di occupare con il loro metodo preferito: chiudono gli abitanti della casa all'interno lasciandoli senza viveri e senza acqua fino a che non cedono "spontaneamente" la casa; gli internazionali cercano di portare cibo e acqua ai legittimi proprietari tentando di scoraggiare i militari da questa azione. Partono subito tre volontari, anche se è già buio e con il coprifuoco in corso muoversi non è prudente. Io e Donato restiamo con Peter e Ky. La notte passa tranquilla
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Francesco