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14-17 agosto 2002
La
storia di Shadi |
Lunedì,
17 giugno 2002
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Prima di venire in Palestina, abitavamo ad Abu Dabi negli
Emirati Arabi Uniti, ci siamo trasferiti nella Striscia di
Gaza nel 1992 in seguito agli accordi di Oslo e alla creazione
dell'Autorità Nazionale Palestinese.
Shadi aveva 11 anni, io [Rina] 12 e il nostro fratello maggiore
Fadik 13, le mie sorelline erano molto piccole e i due fratellini
sono nati qui.
Quando siamo arrivati alla periferia di Khan Younis vicino
al check point di Al Tufah, qui c'era solo sabbia e i soldati
israeliani non sparavano a nessuno. Mio padre tornò
ad Abu Dabi per lavorare un altro anno e noi rimanemmo qui
a vivere con i nonni. Quando mio padre ritorno da Abu Dabi,
aveva risparmiato abbastanza denari per costruire questa casa
dove abitiamo con tutta la nostra famiglia. La vita era buona,
non c'erano problemi con i soldati e noi potevamo vivere in
pace. E'
stato solo nell'autunno del 2000 che la nostra vita si è
trasformata in un inferno a causa di Sharon. Ho chiesto a
mia madre se ricordava altri periodi come questo e mi ha risposto
di no, nemmeno la guerra del 1976 è stata così
brutta. Questo è il peggior periodo della storia della
Palestina.
Molti nostri amici sono morti, erano ragazzi giovani di 20,
21, 19 e 17 anni. Mio fratello Shadi era sempre molto arrabbiato
per quello che succedeva qua, ad Al Tufah, a Raffa e anche
per quello che si vedeva in TV.
Avevamo un amico che studiava all'università di Gaza
e ogni giorno attraversava il semaforo di Abu Hol. Un giorno
gli hanno sparato mentre era seduto in macchina in attesa
di passare e l'hanno ucciso. Lui voleva solo andare a studiare,
come molti altri quel giorno, ma l'hanno ucciso, hanno sparato
su tutte le macchine in attesa di passare il semaforo. Shadi
rimase molto turbato da quel fatto.
un giorno alcuni elicotteri Apache fecero un incursione vicino
al check point di Al Tufah e bombardarono alcune case, mio
fratello Fadik si era nascosto in una di queste e un muro
gli crollò addosso, un suo amico lo tirò fuori
dalle macerie salvandogli la vita e lo accompagnò all'ospedale.
Di ritorno dall'ospedale, questo nostro amico andò
a sparare ad Al Tufah e fu ucciso.
Quel giorno Shadi disse che voleva anche lui un kalashnikov
per andare ad uccidere i soldati, per lui le continue aggressioni
e tutti quei morti erano diventati un incubo insopportabile,
così insieme ai suoi amici andava a sparare alla torretta
del check point di Al Tufah, per la rabbia di aver perso tanti
amici e per l'impotenza e la disperazione di non aver alcun
modo per difendersi dall'occupazione. Solo così poteva
sentirsi meglio, perché aveva fatto qualcosa, forse
era inutile ma almeno aveva fatto qualcosa. Noi a quel tempo
non sapevamo nulla di quello che faceva Shadi, lui non ci
raccontava nulla.
Una volta gli israeliani hanno risposto al fuoco con il gas
velenoso e anche Shadi lo ha respirato. Lo hanno subito trasportato
all'ospedale, dove per una settimana è rimasto immobile
nel letto, stava molto male. molti altri in questa zona hanno
respirato i gas velenosi dei soldati israeliani.
Durante la convalescenza all'ospedale, Shadi incontrò
un uomo della resistenza armata palestinese che lo arruolò
per combattere i soldati israeliani. Shadi non voleva uccidere
civili, ma voleva combattere i soldati perchè erano
loro che ci aggredivano continuamente.
Più tardi, quando uscì dall'ospedale, fu chiamato
per una missione a Raffa, la città al confine con l'
Egitto. In quell'occasione fecero saltare in aria un carro
armato. Quando tornò a casa mi disse che un carro israeliano
era esploso a Raffa, io gli chiesi come lo sapeva, perché
la TV non aveva detto nulla, ma lui rispose solo: "Io
lo so".
Seppi che era stato lui solo dopo la sua morte, quando me
lo raccontò un suo amico. Si era specializzato in esplosivi
e lo mandavano in missioni per far esplodere i carri armati
e i bulldozer che demoliscono le nostre case. Tutti i giorni
andava con i suoi amici e partecipava a queste missioni oppure
andava a spare al check point di Al Tufah, ma non ci diceva
nulla, solo che usciva con gli amici.
Una sera uscì di casa per andare ad una festa e mio
padre gli disse di non fare tardi, verso mezzanotte e mezzo,
qualcuno bussò alla porta e disse che c'era stato un
ferito durante uno scontro a fuoco al check point di Al Tufah.
Lo avevano portato davanti a casa nostra, in strada, e volevano
un auto per accompagnarlo all'ospedale. Farik, mio fratello
maggiore, uscì per prendere l'auto e quando vide il
ferito si rese conto che era Shadi: rimase lì davanti
al corpo
insanguinato di suo fratello, che era privo di sensi, rimase
lì e non sapeva cosa fare.
Poi finalmente lo portarono all'ospedale e videro che era
ferito ad una gamba, lo medicarono e lo ingessarono. Shadi
rimase a casa immobilizzato dal gesso per due mesi, poi cominciò
ad essere impaziente e andò a chiedere al dottore di
togliergli il gesso, ma il dottore si rifiutò perché
non era nacora guarito. Shadi insistette e minacciò
il dottore, lui doveva liberarsi dal gesso che lo costringeva
a camminare con la stampella, quella lì appesa al muro.
Così, nonostante il dottore gli avesse proibito di
togliersi il gesso, Shadi andò da un amico e con il
suo aiuto se lo tolse. Quando tornò a casa stava molto
male e rimase a letto per quattro giorni.
Poi venne a cercarlo il suo amico Ahmed. Io gli dissi che
Shadi stava riposando e che non volevo svegliarlo, ma lui
insistette che era molto importante, così andai a chiamare
Shadi, che uscì insieme ad Ahmed per andare al matrimonio
di un loro amico. Dopo la festa partirono per una missione.
Quella sera i miei genitori erano andati a trovare dei parenti
e qualcuno telefonò a mio padre sul cellulare per informarlo
che c'erano stati tre feriti sul fronte di Raffa. Mio padre,
che lavora alla TV palestinese, trasmise la notizia in redazione,
senza farci troppo caso. Poi il suo amico lo chiamò
nuovamente e gli chiese dove fosse Shadi. Mio padre rispose
che era ad una
festa, non poteva immaginare che invece era morto a Raffa
e il suo amico non sapeva come dirglielo, cosi gli chiese
di mandare qualcuno a cercarlo. Fadik andò a cercare
Shadi ma non lo trovò in nessun posto. Mio padre capi
che doveva essere successo qualcosa di grave e richiamò
il suo amico, che gli disse che Shadi era stato ferito gravemente
e stava all ospedale di Raffa. Mio padre prese l'auto e corse
a Raffa, quando arrivò all'ospedale vide i tre corpi
di Shadi, Ahmed e Muhammed: erano tutti morti. Stavano preparando
due mine anticarro da usare contro i bulldozer, ma i soldati
li avevano visti e avevano sparato una granata che aveva fatto
esplodere anche le mine, uccidendoli sul colpo. Shadi era
tutto punteggiato di scheggie sul volto e gli altri due erano
sfigurati e irriconoscibili.
Quando mi dissero che Shadi era stato ferito non volli crederci,
lui aveva moltissimi amici ed erano tutti là fuori,
in strada, a sparare e piangere di rabbia, ma io non riuscivo
a credere che gli fosse successo qualcosa e non volevo neppure
uscire in strada, non volevo sapere nulla, i miei sentimenti
mi soffocavano e non riuscivo a muovermi. Rimasi in casa a
piangere per molte ore, mentre fuori gli amici di Shadi sparavano
in aria, poi portarono a casa il corpo di Shadi per un ultimo
saluto prima del funerale, allora lo vidi e credetti alla
sua morte. Mio padre mi disse che Dio ci aveva dato il meglio
e che Shadi era morto da martire.
Shadi diceva sempre che lui viveva per questa terra, la nostra
terra e che non voleva nulla per se, solo morire per la sua
terra.
Shadi aveva 19 anni, sua sorella Rina, di 22, ci ha raccontato
la sua storia.
Maurizio
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La
storia di Rami |
Sabato,
15 giugno 2002
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Siamo ad Al Bassan Al Kabira, dove viviamo in una casa in
affitto. Davanti all'internet point Quick Net, incontriamo
Rami; l'algerino che gestisce il negozio ci traduce la sua
storia.
Era il 22 aprile 2000, l'Intifada non era ancora iniziata,
Barak era al governo in Israele e Clinton alla Casa Bianca.
Sono le quattro del pomeriggio quando arriva la notizia che
alcuni carri armati hanno oltrepassato la linea verde. Subito
Rami, 20 anni, e suo cugino Ahmed, 12, corrono verso quel
punto a circa 2 km dalle loro case, per vedere cosa succede.
Quando arrivano sul posto vedono due carri armati che sostano
a copertura di un caterpillar gigantesco che sta demolendo
una casa ormai disabitata, troppo vicina alla fascia di sicurezza.
Il manovratore ha le cuffie dello stereo e pare ascoltare
musica. i due ragazzi iniziano a tirare sassi al bulldozer,
quando vedono alcuni militari scendere da un blindato e venire
nella loro direzione, si nascondono dietro un cespuglio. In
quel momento uno dei carri armati apre il fuoco con proiettili
da 55mm: uno di questi colpisce Rami di striscio alla testa.
Rami cade in una pozza di sangue mentre Ahmed piange terrorizzato.
Da lontano altri osservano la scena e subito chiamano l'ambulanza
che trasporta Rami all'ospedale di Gaza, dove rimane in coma
per 12 giorni: quando i medici avevano
ormai perso le speranze, Rami si sveglia miracolosamente,
tuttavia le sue condizioni sono molto precarie e i medici
consigliano di trasferirlo in un ospedale estero meglio attrezzato
per la riabilitazione motoria. Ma questo è ovviamente
impossibile per ragioni di costi e, oggi, anche a causa dell'Intifada.
Oggi Rami vive su di una carrozzina e racconta la sua storia
ai pochi stranieri che passano da questa strada, per trovare
il modo di andare all'estero ed avere una possibilità
di ricominciare a camminare. Egli è paralizzato al
braccio e alla gamba sinistra, mentre il proiettile ha lasciato
una conca sulla parte destra del cranio delle dimensioni di
un pugno chiuso.
Maurizio
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Un
villaggio beduino |
Venerdì,
14 giugno 2002
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Stanotte abbiamo dormito vicino alla strada dei coloni che
porta al semaforo di Abu Hol, in un piccolo villaggio di quindici
casette col tetto di lamiera abitate da 200/250 beduini appartenenti
allo stesso clan familiare. La famiglia originaria fu sfollata
dalla citta di Beer Sheva nel 1948; rifugiati nel Sinai, furono
poi obbligati dagli egiziani di Nasser a trasferirsi nella
Striscia di
Gaza.
La strada che porta al villaggio si snoda tra i campi di mais
e pomodori, lungo un tratto di un paio di chilometri i filari
di fichidindia che costeggiavano la strada sono stati abbattuti
dai carri armati qualche giorno fa, per permettere una completa
visuale alle tante torrette di controllo e alle telecamere
montate sui tralicci che sorgono sulla by pass road dei coloni.
Superato il pezzo di strada costeggiato dai filari abbattuti,
procediamo lungo un profondo e stretto canalone che pare fosse
un torrente prima che i coloni lo prosciugassero deviando
il corso dell'acqua verso i loro insediamenti.
Il padrone di casa che ci ospita ha 28 anni, ha mandato la
famiglia dall'altra parte della strada dopo che alcuni soldati
sono entrati in casa sua, perquisendolo e domandandogli se
aveva visto movimenti della resistenza armata palestinese.
Sono ormai sette mesi che non vede la moglie e i figli, nonostante
essi abitino a pochi metri in linea d aria.
Mentre camminiamo, O. [il ns ospite] mi mostra lungo la via
mucchi di immondizie, resti di abiti e altre cose e mi fa
capire che lì alcuni palestinesi sono stati uccisi
dai militari, che penetrano il territorio quasi tutte le notti.
Sugli alberi lungo il canalone si possono ancora vedere i
segni dei proiettili, per terra una scarpa bianca da donna
ha il tacco spezzato. Più avanti una bimbetta si è
arrampicata su di un albero altissimo per raccoglierne i frutti.
Il villaggio sorge su di una spianata ed è punteggiato
da alberi di fico e da giardini di ulivi. Quasi ogni casa
ne ha uno, le piante di ulivo vicine alla strada sono state
completamente estirpate, quelle cresciute nei giardini delle
case sono tutte molto giovani.
Appena entriamo i bambini ci si fanno incontro curiosi, sulla
by pass road, a pochi metri da lì, il traffico è
scarso, si tratta principalmente di mezzi militari, perché
tra poco inizia il shabat shalom [la domenica degli ebrei].
Su tutti i lati del villaggio gli uomini hanno costruito degli
argini di sabbia alti almeno 20/25 metri, per impedire ai
bulldozer di entrare nel villaggio. Purtroppo i carri armati
tengono facilmente sotto tiro le case dalla loro strada, mentre
i soldati entrano a piedi e con le jeep quando vogliono. Poco
tempo fa hanno fatto saltare in aria una delle case e tutte
quelle vicine sono state danneggiate dall'esplosione. In quell'occasione,
i soldati hanno anche ucciso due asinelli di pochi mesi, una
crudeltà che è rimasta incomprensibile per i
beduini e devo dire anche per me.
Mentre gli adulti, seduti in cerchio sotto un grande albero
di fico, ci raccontano tutte queste cose, i bambini sgranocchiano
cetrioli crudi come fossero dei Magnum Algida. Una jeep si
ferma sul bordo della strada e osserva l'assembramento con
il binocolo.
Più tardi ci spostiamo da sotto il fico per andare
nel cortile di una casa dove ci offrono il caffè al
modo beduino, anche lì ci sentiamo osservati da una
telecamera a controllo remoto montata su di un traliccio.
Non ci sono posti dove occhi indiscreti non possano osservare,
registrare, fotografare ed archiviare la semplice vita di
queste persone. Il caffé bolle sul fuoco preparato
dentro un braciere e ci viene servito in piccolissime quantità
dentro piccole tazzine. Lo si
può sorseggiare una o due volte, mai tre, e non si
deve prenderlo con la mano sinistra ma sempre con la mano
destra. se se ne vuole ancora basta muovere la tazzina e subito
qualcuno ne verserà un altro goccetto. Non è
zuccherato, ma è molto aromatico, buono. Stiamo finendo
di sorseggiare il caffe, mentre uno dei giovani ci racconta,
tra le risate generali, di una volta che gli hanno sparato
in casa proprio mentre stava facendo il suo dovere con la
giovane moglie e dalla paura ha dovuto interrompere il coito.
Non si può neppure far l'amore in pace in questo paese!!!!
E' già sera quando sentiamo la voce di un megafono
piazzato su di una jeep bianca, è quella dell'ufficiale
responsabile della sicurezza dei coloni, egli informa tutte
le sere la popolazione che dalle 20,00 alle 06,00 è
in vigore ilcoprifuoco e che nessuno può uscire di
casa fino al mattino, chi lo facesse metterebbe in pericolo
la sua vita: "Entrate in casa, forza!!! Ialla al
beit!!! Entrate in casa o vi spariamo". Dopo questa ultima,
allucinante intimidazione - almeno per un europeo panciuto
come me - entriamo in casa, dove dividiamo una cena frugale
con gli amici beduini. Anche qui il calcio mondiale impone
i suoi noiosissimi riti.
Un bambino seduto con noi continua a ripetere che gli elicotteri
Apache uccidono i bambini e le mamme li piangono, l'avrà
ripetuto almeno venti volte, mentre il suo amichetto più
piccolino ce l'ha con Sharon e ne ripete il nome toccandosi
la tempia con il dito. Finita la cena, una donna se ne torna
a casa, ma prima si ferma alla finestra e ci informa che un
carro armato si è appena
posizionato sulla strada e terrà il villaggio sotto
tiro per tutta la notte.
Comunque, la notte passa quietamente: solo qualche sparacchiare
lontano, ma nulla di grave.
Al mattino salutiamo tutti e un anziano ci chiede di non dimenticarli,
di parlare di loro e di ritornare.
Maurizio
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