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testimonianze, informazioni
21 giugno 2002
Remedial
Education Center, Gaza |
Venerdì,
21 giugno 2002
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Incontro con il Remedial Education Center, che opera in Gaza
dal 1993 in collaborazione con il dipartimento dell'educazione
e del servizio sociale dell'UNRWA. Il centro opera a favore
dei minori che nella Striscia di Gaza costituiscono il 51%
della popolazione e sono la fascia più vulnerabille
nella difficile situazione attuale.
Il centro rivolge la sua attenzione ai minori con problemi
di apprendimento e di comportamento, che in questa zona sono
il 17%, media superiore a quella europea che èdel 10%
nelle elementari.
In Gaza esistono altre associazioni che si occupano dell'handicap,
ma solo il centro segue i bambini con difficoltà comportamentali
e di apprendimento: 3.000 dalla sua fondazione, nella consapevolezza
che, se non seguiti adeguatamente ora, essi saranno persone
con grosse difficoltà di inserimento sociale e lavorativo.
E' importante sottolineare che gli obiettivi non sono soltanto
di recupero scolastico ma anche di educazione alla pace e
ai diritti umani. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso
un metodo attivo che permette di sperimentare direttamente
il significato di democrazia, nonviolenza...
I bimbi sono inviati al centro dalle scuole o direttamente
dalle famiglie. Nel programma
vengono inseriti quelli che presentano un q.i. compreso tra
70 e 89. Vengono ricercate le cause dei disturbi di apprendimento
e di comportamento con il supporto di un equipe formata da
psicologi, assistenti sociali, educatori. Alla radice dei
problemi spesso ci sono i traumi vissuti dai bambini, in particolare
la paura. Essi vengono aiutati a riflettere sulla situazione
e a parlare
della loro sofferenza.
Il programma prevedere consulenza familiare e di gruppo e
il follow up dello sviluppo. Dal 2001 è iniziata l'attività
dei campi estivi, con nuove esperienze di valorizzazione del
rapporto madre-figlio. Si vuole sfatare l'idea che le madri
palestinesi, oppresse dalla situazione, siano affettivamente
distaccate dai figli, fino a spingerli al suicidio. Attraverso
le attività del centro le madri vengono condotte a
scoprire le potenzialità dei figli, in modo da collaborare
a svilupparle. Da quest'anno vengono tenuti anche campi estivi
in Italia per gruppi di dieci bambini, a Bologna
e a Grottammare.
L'Italia offre supporto a questo programma, in particolare:
tramite la regione Lombardia, "Salam, i ragazzi dell'ulivo",
famiglie italiane che ogni tre mesi versano 320 shekel (circa
80 euro) per ogni bambino con cui la famiglia paga i 130 shekel
(circa 35 euro) richiesti dal centro e con il resto provvede
alle necessità del figlio.
Noi crediamo che questo sia un progetto da sostenere attivamente
e ci facciamo referenti fornendo tutte le informazioni necessarie.
Fabio Cea
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Una
donna sul martirio |
Venerdì,
21 giugno 2002
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E' giusto che gli italiani possano conoscere le nostre storie,
ma non ci sono parole per spiegare i miei sentimenti, quando
vedo le immagini dell'Intifada in TV e vedo tutti quei ragazzi
che muoiono per la nostra sofferenza, non riesco più
neppure a trovare le lacrime, mi sono inaridita.
Tutti i palestinesi vivono questa sofferenza, se non hanno
un morto in famiglia, hanno avuto la casa demolita o bombardata,
oppure i loro frutteti sono stati estirpati e i loro campi
spianati con i carri armati.
i soldati non ci permettono di vivere tranquilli. Iloro coloni
vivono in pace e partecipano alle loro feste con gioia, ma
noi qui non suoniamo più neppure la musica ai matrimoni,
ci sono stati troppi morti durante questa Intifada e non abbiamo
nessuna voglia di far festa, nemmeno quando ci sposiamo.
Il governo di Sharon non può comprendere cosa sta succedendo
qui. Loro vogliono distruggere tutto, ma noi siamo delle persone
umane. Loro vengono da tutte le parti del mondo per vivere
nello stato di Israele, non capisco perché noi ce ne
dovremmo andare, noi vogliamo vivere qui, nella nostra terra.
Loro hanno preso l'intera Israele, ma almeno lasciateci un
poco di terra su cui vivere in pace. Invece no, vogliono ucciderci
tutti e noi non possiamo difenderci. Se spariamo da qui, da
Al Tufah, o anche da Raffa, non gli facciamo nessuna paura,
nessun soldato viene ucciso o ferito, muoiono solo i nostri
figli, muoiono perché tirano sassi contro i loro carriarmati,
muoiono perché non riescono piu a controllarsi, nessuno
riesce più a trattenere la loro rabbia, devono fare
qualcosa, anche se è inutile, ma almeno sentono di
aver fatto qualcosa.
Noi non possiamo difenderci, ma nonostante tutto crediamo
fermamente che questa è la nostra terra, la nostra
patria, il posto in cui siamo nati, il posto in cui vogliamo
vivere.
Se qualcuno venisse ad occupare il vostro paese, anche voi
fareste qualsiasi cosa per riconquistare la vostra terra e
la vostra libertà ed è lo stesso per noi.
Io credo che i nostri martiri, quelli che si fanno esplodere
dentro Israele, siano di aiuto alla nostra causa, perché
Sharon non ha paura di nulla eccetto che dei giovani suicidi
che si fanno esplodere. Questi giovani martiri credono una
sola cosa: devo fare questo sacrificio per il mio popolo,
per la mia terra.
Molti di voi italiani non possono capire questo nostro modo
di lottare contro l'oppressione israeliana, molti di voi credono
che le nostre madri mandino i loro figli a morire, ma non
è vero, le madri non sanno nulla di ciò che
fanno i loro figli, se lo sapessero, forse tenterebbero di
fermarli.
La verità è che, in questa situazione divenuta
ormai insostenibile, non riescono a controllare la loro rabbia,
la disperazione, il senso di impotenza che cresce loro dentro
un giorno dopo l'altro. Molti di noi non credono che l'ANP
possa difenderci, molti di noi pensano che dobbiamo difenderci
da soli fino all'ultimo palestinese.
[chi scrive non condivide necessariamente i concetti espressi
in questa intervista]
Maurizio
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La
madre di Muhammed, amico di Shadi |
Venerdì,
21 giugno 2002
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Sono nata a Sen Sen, un villaggio a nord di Eretz, fuori dalla
Striscia di Gaza. Quando sono venuta ad abitare a Khan Younis
con la mia famiglia avevo solo tre mesi, mio padre era stato
ucciso durante la guerra del 1948 e noi siamo stati sfollati
nella Striscia di Gaza e siamo venuti a vivere a Khan Younis.
Oggi viviamo qui in questa baracca di lamiere con il pavimento
di
sabbia perché ci hanno bombardato la casa.
Mio figlio Muhammed era sposato e andava a lavorare in Israele
come bracciante agricolo o muratore, era lui che manteneva
la nostra famiglia. Quando è morto ha lasciato due
figli, uno di tre anni che porta il suo nome e uno di tre
mesi nato dopo la sua morte.
Non sapevo nulla della sua attività nella resistenza
armata, quella sera Muhammed mi disse che andava ad un matrimonio
con i suoi amici, Shadi e Ahmed. Più tardi, quella
notte, qualcuno venne a dirmi che Muhammed era morto in uno
scontro a fuoco con i soldati israeliani, poi
venne un altro e mi disse che era rimasto ferito. Poi vennero
i suoi fratelli e mi confermarono che era morto. Il giorno
dopo portarono il corpo di Muhammed a casa ed io potei vederlo
e salutarlo per l'ultima volta.
Ora siamo senza di lui e i miei due figli non lavorano e non
c'è nessuno che ci aiuta ad andare avanti. L'ANP ci
da' una piccola pensione di guerra, ma è insufficiente;
anche l'UNRWA ci da 120 kg di farina ogni anno, ma non ci
basta per vivere. Mio marito è morto durante la prima
Intifada e io sono rimasta con due figlie e quattro figli,
compreso Muhammed che era il più giovane, aveva dodici
anni quando è morto suo padre e dopo 11 anni è
morto anche lui, sempre a causa degli israeliani.
I soldati mi hanno strappato il padre ancora prima che nascessi,
poi hanno ucciso mio marito e ora mio figlio, mi hanno bombardato
la casa costringendomi a vivere in questa baracca di lamiere,
come posso desiderare la pace? Gli israeliani uccidono tutto
cio che è palestinese, animali, alberi, case, persone,
molti dei nostri figli sono orfani di padre, per questo vanno
a combattere e nessuno riesce a fermarli.
Noi amiamo la pace, ma finché Sharon sarà al
governo non ci potrà essere pace.
Maurizio
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La
madre di Ahmed |
Venerdì,
21 giugno 2002
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Siamo
venuti ad abitare a Khan Younis nel 1996, vivevamo in Arabia
Saudita e, come chiunque altro, volevamo rientrare nella nostra
terra in seguito agli accordi di Oslo e alla creazione dell'ANP.
Mio marito è un ingegnere edile e l'ANP gli aveva commissionato
molto lavoro in Palestina. Oggi lavora ad Abu Dabi negli Emirati
Arabi Uniti, ma non riesce a raggiungermi in Palestina, io vivo
qui da sola con le mie tre figlie e, finché era vivo,
con Ahmed.
Ahmed e Shadi erano legati da una profonda amicizia, anche più
forte dei legami familiari, erano sempre fuori insieme, stavano
in casa molto poco.
un giorno il fratello minore di Shadi era andato a tirare sassi
al check point di Al Tufah, così Shadi e mio figlio andarono
a prenderlo per riportarlo a casa, ma sulla via del ritorno
si divisero, da una parte Shadi e il suo fratellino e dall'altra
Ahmed. Sulla via di casa Ahmed si era riparato dietro un muro
perché i soldati gli sparavano, ma alcuni proiettili
dum dum raggiunsero lo spigolo del muro ed, esplodendo a pochi
centimetri dalla sua faccia, sbrecciarono lo spigolo, così
che le
scheggie del muro lo ferirono ad un occhio.
Quando lo portarono all'ospedale dissero che doveva essere operato
perché rischiava di perdere la vista, allora l'ANP lo
fece trasferire in Arabia Saudita dove lo operarono due volte
e riuscì a recuperare la vista, anche se doveva portare
gli occhiali.
Era un venerdì sera quando Ahmed mi disse che andava
ad un matrimonio a Raffa con i suoi amici Shadi e Muhammed,
io non sapevo nulla di quello che faceva Ahmed nella resistenza,
però sentivo che sarebbe successo qualcosa di brutto,
ma non sapevo che cosa.
Più tardi chiamai due volte mia sorella che vive a Raffa:
la prima volta le chiesi di mandare suo figlio a vedere dove
era Ahmed, la seconda volta parlai direttamente con suo figlio
che era già tornato a casa e mi disse che Ahmed era ancora
alla festa.
Era già notte quando mi chiamò il marito di mia
figlia chiedendomi se Ahmed era tornato a casa. Gli risposi
di no, che non era ancora rientrato. Quando mia sorella venne
a Khan Younis e bussò alla mia porta in lacrime capii
che Ahmed era morto.
Dopo tre giorni dalla disgrazia vennero a trovarmi la madre
e la sorella di Shadi, che era morto insieme a mio figlio, ma
io non riuscivo ancora a piangere, non so perché, forse
il mio dolore era troppo grande.
Oggi quando vedo la TV e guardo tutti quei giovani che muoiono
nella West Bank, mi ricordo di Ahmed e piango molto, ma non
riesco a farlo davanti alle mie figlie. Piango da sola, non
voglio che altri vedano il mio dolore.
Ahmed era il mio unico figlio maschio e quando tutte le mie
figlie saranno sposate io rimarrò sola, non ho altri
figli maschi che si prendano cura di me quando sarò vecchia.
Maurizio |
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