[Grida Burundi] [Aderenti alla campagna] [Notiziario N. 1]
Ruanda, comprare la morte
Un canto della popolazione mongala dell'Equateur (regione del Congo) recita: «Liwa liboyi mbongo» (la morte non si lascia comprare). Forse, la saggezza popolare, si riferisce a tempi andati. Il 20 aprile scorso, assistendo alla proiezione del documentario Rwanda, une république devenue folle (realizzato da Luc Heusch, prof. emerito dell'Univ. libera di Bruxelles, 1977, 73'), mi ha impressionato, nel racconto dei superstiti del genocidio, l'espressione: Comprare la morte. Molte vittime, per non essere fatte a pezzi e morire lentamente, chiedevano ai loro assassini di essere uccise a colpi d'arma da fuoco.
1. La giustizia - Oggi, in Ruanda, la morte ha preso possesso del paese. La morte è chiamata da un sistema giudiziario che, nel migliore dei casi, applica la legge del taglione. La giustizia pare appannaggio dei vincitori. Per qualcuno 130 mila, per altri 190 mila prigionieri, accusati di genocidio, languiscono e muoiono di inedia . Su 300 persone giudicate 130 sono state condannate a morte. Il 24 aprile ne sono state giustiziate 33, in 5 diversi stadi del paese. Gli appelli del papa e di organismi e associazioni umanitarie sono stati inutili. Secondo Amnesty International si tratta di «una brutale pretesa di giustizia, di una decisione che contribuirà soltanto a rafforzare il ciclo di violenza e a minare il processo di riconciliazione nel paese».
Fra i condannati a morte, ricorda Amnesty International, vi è Silas Munyangishali, ex assistente del pubblico ministero di Kigali, «vittima di un processo iniquo. ... I testimoni della difesa sono stati minacciati e intimiditi e, di fatto, è stato loro impedito di testimoniare» (Fonte: Misna).
E' stata confermata la condanna a morte per i due abbé Jean-François Kayranga ed Edouard Nturiye (Cfr. Grandi laghi africani, Ruanda, 3.5.1998). Non è stato permesso loro di difendersi in tribunale e la condanna è stata pronunciata nonostante le testimonianze, anche di cittadini tutsi, a favore dell'innocenza dei due preti.
Attorno al 15 febbraio, Jean Bosco Sakindi, un hutu che ha salvato innumerevoli vite durante i massacri del 1994, è stato rinchiuso nella prigione centrale di Kigali. Accusato di aver partecipato al geneocidio, passò due mesi in carcere. Ne uscì grazie alle numerose testimonianze in suo favore. Ma, dal giorno della "liberazione" fu perseguitato da richieste di denaro e da ricatti. Dopo aver pagato alcune volte, Sakindi decise che «era preferibile essere libero in prigione che prigioniero in strada».
Amnesty non risparmia critiche al funzionamento del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), istituito ad Arusha (Tanzania), per lentezze, inadempienze, gaffe madornali sul segreto che deve accompagnare istruttorie e testimoni.
Tuttavia, dalle deposizioni rese al Tpir, vengono a galla altre gravi responsabilità. Il governo francese è direttamente implicato nell'addestramento delle Far, della guardia presidenziale, degli interamwe, e degli impuzamugambi, nel rifornimento di armi. L'ONU, informata dal generale Romeo Dallaire, ex comandante della Missione delle Nazioni Unite di assistenza al Ruanda, proibisce verifiche e ricerche (cfr. Gli occhi chiusi dell'Occidente, Internazionale, n. 229, pp. 39-46). Il governo belga sapeva.
Secondo Joan Farrigan, giornalista che vive e lavora a Nairobi, la Banca mondiale ha, per mancanza di controlli o per pigrizia, partecipato a finanziare i massacri. Parte dell'aiuto allo sviluppo, infatti, fin dal 1991 è stato speso per comprare 581 tonnellate di machetes, l'arma assurta a simbolo del genocidio (cfr. Avvenimenti, anno XI, n. 14). L'occidente, che da tempo sapeva cosa si preparava in Ruanda, ha chiuso gli occhi. Le lacrime di oggi, alla luce anche degli avvenimenti del novembre 1996, previsti da almeno due anni, hanno il sapore delle lacrime di coccodrillo. Osservatori arrivano a pensare che il mea culpa della Francia, per non fare che un esempio, sia un modo per non farsi buttar fuori dalla regione dei grandi laghi africani. Immane il genocidio, immane lo sconvolgimento della regione che non pare avviata ad uscire dal caos in tempi brevi.
2. Uno stato di diritto - Succeduto a questo disastro il governo di Kigali deve assicurare lo stato di diritto. Deve spazzare via il senso di impunità diffuso nel paese e giudicare, condannare i mandanti, i programmatori e gli istigatori del genocidio. Ma nulla di meglio incoraggia i criminali di oggi, come il costatare che la giustizia è sparita dal paese o che si è alleata al vincitore. L'enormità del massacro non può bandire la legge e chiudere gli occhi sui delatori, i detentori di prigioni private, i boia di oggi. L'Onu, l'Ue, l'Oua devono, se non vogliono macchiarsi di altro crimine, mettere a disposizione mezzi e personale per far funzionare in modo corretto il Tpir e la giustizia in Ruanda.
3. La guerriglia - «La pace senza giustizia è impossibile», ha dichiarato il presidente Bill Clinton a Kigali a fine marzo. Il paese, infatti, invece di ritornare alla normalità e alla pace, si sta avvitando in una spirale di violenza. Le Monde, che dal 29 aprile ha dedicato 5 lunghi articoli al Ruanda, riporta le dichiarazioni di operatori, di volontari e di organizzazioni internazionali che testimoniano dei crimini commessi sia da gruppi armati non ben qualificati, da bande delle ex Forze armate ruandesi e dagli interhamwe, sia dall'esercito nazionale, le Forze patriottiche ruandesi. Queste, per impedire ai ribelli, che attaccano a partire dalle foreste dell'ex-Zaire, strutture di utilità pubblica, hanno costretto la popolazione a radere le colline, togliendo agli attaccanti la possibilità di nascondersi e di nutrirsi. Ma la tecnica della terra bruciata colpisce, come sempre, i cittadini. Nelle prefetture di Ruengeri, di Gisenyi e di Kibuye, dove la repressione dell'esercito è insopportabile, si comincia a morire di fame, dichiara un medico, o di malattie dovute alla fame. In queste regioni l'esercito opera con elicotteri e mortai, procede a operazioni di "pulizia" di ampio raggio. Gli attacchi dei ribelli provocano rappresaglie e queste altri attacchi. «L'esercito, incapace di uscire dal ginepraio è disposto a tutto», anche ad eliminare testimoni stranieri scomodi. Il direttore del Centro de informacion y documentation africanas, Bartolomé Burgos, cita le dichiarazioni di testimoni oculari secondo cui il massacro di 5 religiose non sarebbe stato commesso da estremisti hutu, ma dall'esercito nazionale (cfr. Mea culpa por un genocidio, Madrid, 2 aprile 1998). Un osservatore dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite conferma: «La politica dell'esercito è ambigua. L'esercito uccide sia perché non è grave uccidere degli hutu, facendo la guerra, sia perché sono hutu e, per questo, devono essere uccisi. Credo che l'esercito se ne infischi di una popolazione civile che ha partecipato al genocidio. E' triste, è orribile colpevolizzare un'intera comunità, ma è la realtà».
4. La lotta di potere - Il sospetto sistematico, la corruzione, la lotta tra i gruppi tutsi al potere aggravano ulteriormente la situazione. L'esilio ha svigorito le alleanze tra i lignaggi più o meno nobili della monarchia tutsi. Oggi esistono reti di solidarietà formatesi in esilio. Per questo la gente parla di tutsi ugandesi, di tutsi tanzaniani, di tutsi burundesi e di tutsi zairesi. Ora, «tutti gli uomini chiave della struttura di potere in Ruanda sono "ugandesi" e quasi tutti ufficiali dell'Esercito patriottico ruandese (APR), braccio armato dell'ex FPR, e attuale esercito nazionale. Nell'esercito i colonnelli "ugandesi" occupano i posti chiave e costituiscono la nuova élite ruandese. Dal governo sono man mano scomparsi gli hutu che, prima della morte di Habyarimana, erano entrati nel FPR e che vi avevano un certo peso politico, come il primo ministro Faustin Twagiramungu e il ministro degli Interni Seth Sendashonga (fuggito in Kenya, ove è sopravvissuto a un attentato, ndt)» (da Mundo Negro, aprile 1998, n, 418).
Soluzioni politiche, per il momento, non se ne vedono. Seth Sendashonga ritiene impossibile la riconciliazione nazionale senza l'intervento militare della comunità internazionale; i paesi vicini pensano che sia necessaria una vasta azione militare per farla finita con la resistenza hutu (per qualcuno esisterebbe già un piano); Mohamed Sahnoun, crede necessario organizzare un Piano Marshall perché, a suo avviso, si tratterebbe di un problema anche di risorse; la conferenza episcopale invita la comunità cristiana a esercitare la giustizia, il perdono e la riconciliazione, armi capaci di debellare l'etnocentrismo, virus della divisione.
5. Apriamo gli occhi - Siamo
parte della tanto invocata comunità internazionale, che
è corsa con barelle e disinfettanti nei campi profughi,
mentre si contrabbandavano le armi e gli assassini si nascondevano
fra gli innocenti. Abbiamo rimosso questa guerra perché
non capiamo, perché siamo convinti di non poter fare nulla.
E' il momento di informarci, di aprire gli occhi, di fare pressione
sul nostro governo, sull'Ue, sull'Unu perché si prendano
le misure necessarie, idonee a riportare la giustizia e la pace.
E' ora di superare la solidarietà del superfluo, perché
«a noi è stata data la parola di riconciliazione.
Vi supplichiamo, in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con
Dio» (San Paolo). «Ceux qui tiennent conseil,
Dieu les rejoint». «L'amulette ne préaut
pas contre Imana» (proverbi ruandesi).
Per informarsi: * Mundo Negro, aprile 1998, n. 418, Le chiavi del potere tutsi.
* Rémy Ourdan, in Le Monde, dal 29 aprile al 5 maggio
* Idem, in Internazionale, 24 aprile 1998, n. 229, pp. 39-46
* Roberto Cavalieri, Balcani d'Africa. Burundi,
Ruanda, Zaire: oltre la guerra etnica Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1997.
Per collaborare: Informati
presso la Caritas o il Centro missionario diocesani sulle modalità
per collaborare a progetti di ricostruzione, soprattutto per ricucire
il tessuto sociale e sostenere le iniziative di riconciliazione.
Bologna, 13 maggio 1998 Giacomo Matti
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Realizzazione a cura di Giacomo Matti e Carlo Pentimalli .
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