GRANDI LAGHI AFRICANI

Caritas Diocesana di Bologna - Centro Missionario Diocesano

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E' un servizio della Caritas Diocesana e del Centro Missionario Diocesano di Bologna per gruppi missionari e Caritas parrocchiali.

[Grida Burundi] [Aderenti alla campagna] [Notiziario N. 7] [Notiziario N. 9]

Congo, il verme e il fagiolo

Pare che il calvario dei popoli del Congo non abbia fine. All'inizio dell'anno, all'angelus, il papa ha ricordato la tragedia che travolge il paese, riferendosi all'ennesimo massacro. In tre giorni (29 dicembre '98-1° gennaio '99), in rappresaglia a un attacco di mayi-mayi , i ribelli hanno massacrato quasi 600 civili a Makobola II, a 18 km da Uvira (Sud Kivu). Il massacro si inscrive nella "normalità" della guerra: uccisioni, deportazioni, sparizioni, ruberie e violenze di ogni genere. Secondo un rappresentante delle Nazioni Unite, gli sfollati di questa guerra (iniziata il 2 agosto), sarebbero almeno 200 mila. A questi si aggiungono migliaia e migliaia di rifugiati in Uganda, in Tanzania e in Repubblica Centroafricana. Anche le Forze armate congolesi (Fac) sono responsabili di saccheggi, di violenze su civili nonché di numerosi massacri.

A fine gennaio 1999, il 50% della Repubblica democratica del Congo è in mano ai ribelli, sotto lo strapotere dei loro padrini, nonché di bande armate che operano nella regione. «Non viviamo che di uccisioni, di massacri, di distruzioni, di arruolamenti forzati di minori... Ragazzi della stessa famiglia sono inviati su fronti diversi, per combattersi. La morte colpisce i soldati e i civili, gli adulti e i ragazzi, i congolesi e gli stranieri, difficilmente distinguibili gli uni dagli altri. Tutti sono vittime della violenza cieca, sistematicamente organizzata», hanno scritto i vescovi del Kivu nell'ottobre 1998.

Nelle zone sotto controllo "tutsi" i genitori si rifiutano di mandare i bambini a scuola, per paura che siano rastrellati e portati al fronte. L'impossibilità di coltivare, di produrre ha distrutto le reti commerciali. L'insicurezza, la miseria e la fame regnano soprattutto nelle regioni in guerra, alle quali non hanno accesso né gli organismi umanitari internazionali né nazionali.

Nonostante la situazione, le popolazioni dell'est del Congo fanno di tutto per boicottare gli aggressori, non ne vogliono sapere di questa guerra, imposta loro dai governi dei paesi vicini, incapaci, quanto i dirigenti del Congo, di trovare soluzioni democratiche ai loro problemi. I vescovi, quanto le associazione di base, sono convinti che:

le crisi politiche in Uganda, Ruanda, Burundi, dovute a regimi militari, siano state rovesciate sulla Repubblica del Congo;

i tre paesi hanno aggredito il Congo per annettersi le regioni orientali, per appropriarsi delle sue ricchezze, in connivenza con società minerarie internazionali e in obbedienza a potenze occidentali, primi gli Stati Uniti. «E' una guerra per il controllo delle ricchezze del Congo. Rivela un colonialismo retrogrado che, in nome della non ingerenza, portando al potere etnie minoritarie o di regimi impopolari, cerca di mantenersi in Africa», scrive l'Associazione dei moralisti del Congo. La difesa delle frontiere dei paesi aggressori, che poteva avere un senso dal '94 al '96, ora appare sempre più come un semplice pretesto. E' chiaro, comunque, che la sicurezza delle loro frontiere non sarà assicurata senza democrazia interna;

la legittimazione della comunità internazionale di governi militari, che hanno conquistato il potere con le armi, sia una delle principali cause di questa guerra;

la lotta armata tra le fazioni congolesi per la conquista del potere sia una delle più gravi cause del disastro. A questo proposito citano il proverbio: «Il verme che rode il fagiolo è dentro il fagiolo».

Kabila, confiscando e gestendo in modo dispotico e personale tutto il potere dello stato, senza ascoltare le legittime aspirazioni della società civile, della gente e di uomini politici, sia non meno responsabile della crisi.

A queste vanno aggiunte cause passate: la disgregazione dello stato provocata dalla dittatura di Mobutu; il comportamento equivoco di Kabila con l'Alleanza delle forze democratiche di liberazione; il disprezzo che lo stesso ha manifestato nei confronti delle richieste della Commissione per i diritti dell'uomo delle NU, incaricata di indagare sui massacri di civili durante la campagna per la conquista del paese.

Come finirà?

Benché la società congolese sia costituita da numerose etnie, vuole mantenere l'unità nazionale, dentro le frontiere ereditate dalla colonizzazione, in ossequio alle disposizioni dell'OUA. Non vuole la balkanizzazione della zona, che invece interessa altri paesi. Ma, chi tiene conto delle aspirazioni dei popoli?

Qualcuno sa come andrà a finire e dice espressamente come vorrebbe che finisse. Chi ha liquidato Lumumba e imposto Mobutu, chi si è opposto all'intervento delle forze dell'ONU in difesa dei profughi del Kivu (1996), chi ha portato Kabila al potere, chi ha avallato questa guerra? Senza nominarli, l'arcivescovo di Bukavu, mons. Kataliko, scrive che: «Il tentativo di ridefinizione geopolitica delle frontiere è orchestrato dai grandi ed eseguito per procura, in disprezzo della Carta dell'ONU e dell'OUA e della sofferenza della gente». L'indifferenza dell'ONU, dell'Organizzazione dell'Unità africana e dell'UE, fanno presagire un triste epilogo. Si parla, infatti, con sempre maggior insistenza della spartizione del Congo in almeno 4 parti. Preludi all'epilogo sarebbero le stipule, sempre più numerose, di accordi tra le forze ribelli e di occupazione con paesi e società minerarie transnazionali.

La voce della chiesa

La Conferenza episcopale del Congo, il 5 novembre 1998 ha incontrato il presidente Kabila. Mentre i vescovi hanno reiterato la condanna dell'aggressione ed espresso la necessità di difendere l'integrità territoriale, "non negoziabile", hanno chiesto al capo dello stato la democratizzazione della politica del paese e la celebrazione di libere e trasparenti elezioni, dichiarando la disponibilità della chiesa a contribuire alla ricostruzione del paese, nonché a partecipare alla costituente.

I vescovi, che in questi ultimi tempi hanno scritto numerose lettere per esprimere il loro pensiero sulla situazione e incoraggiare il popolo ("Conduci i nostri passi sulla via della pace", Kinshasa, 7. 11. '98, "Rimetti la tua spada nel fodero", Kinshasa, 1.10. '98), chiedono a questo di non lasciarsi travolgere da sentimenti di xenofobia.

Anche l'associazione dei moralisti del Congo interviene sull'argomento. «L'Associazione dei moralisti congolesi denuncia con forza la violenza che si è installata nella nostra società. Al di là dell'euforia cieca in cui questa guerra ci ha precipitato, le scene di violenza e di giustizia popolare, come l'arbitrarietà, che spesso le hanno accompagnate, contraddicono la volontà di questo stesso popolo di incamminarsi verso uno stato di diritto, di pace e di giustizia. (...). Un popolo che prende gusto alla violenza diventa un pericolo per se stesso, per i suoi vicini e per i suoi dirigenti».

Mentre mons. Monsengwo, arcivescovo di Kisangani, ricorda al governo del paese e agli occupanti che «non si massacra il popolo che si vuole governare», mons. Kataliko, invita i cristiani e le persone di buona volontà a lavorare per la pace. Scrive: «La pace non è solo un dono di Dio, da implorare ogni giorno con fervore, e neppure il frutto di negoziati, condotti altrove da alcuni grandi, senza la partecipazione del popolo. Essa è soprattutto il frutto del nostro impegno quotidiano, fondato sui valori cristiani e umani della fiducia, della solidarietà, del perdono, della riconciliazione e della giustizia e del lavoro. La pace non è sicuramente il risultato di una lotta armata, quanto il risultato di un combattimento umano, culturale e spirituale» (Bukavu, 5. 12. '98).

A metà gennaio 1999, il vescovo di Dungu-Doruma ha chiesto ai missionari europei di lasciare la sua diocesi, perché non può fare nulla per assicurare la loro incolumità. I bianchi, infatti, anche se missionari, sono ritenuti dei ricchi, pieni di soldi e di mezzi e, quindi, sono bersaglio di tutti coloro che hanno un'arma in mano: ribelli o soldati governativi.

Bologna, 29 gennaio 1999

Giacomo Matti