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A MANI NUDE CONTRO IL FASCISMO STORIE DI DIFESA POPOLARE NONVIOLENTA Articolo di Carlo Gubitosa - Associazione PeaceLink - <c.gubitosa@peacelink.it> Roma, dicembre 1939. La Cecoslovacchia è già stata occupata dai nazisti, e in un'aula della facoltà di Lettere una ragazza si alza dal suo banco. Prima che arrivi il professore, sulla lavagna compare una scritta: "Viva gli studenti di Praga morti per la patria e la libertà". A poche aule di distanza ci sono i delegati della "Gioventù Universitaria Fascista", che dispongono di un telefono per mettersi in contatto con la direzione della GUF o con le forze di polizia. Ma nessuno denuncia la ragazza, e il professor Pietro Paolo Trompeo dà la sua benedizione alla scritta cominciando la lezione come se nulla fosse, senza neppure cancellare la lavagna, dove la scritta rimarrà presente per parecchi giorni. Questo episodio, e in generale tutte le azioni di resistenza non armata e nonviolenta compiute in quegli anni nelle università, nei sindacati, nelle chiese e nelle famiglie, sono pagine di storia minima che disegnano a tratti morbidi un quadro molto diverso da quello a cui ci ha abituato la storiografia ufficiale, tutta centrata sulle battaglie e le azioni militari. Durante il fascismo, i gruppi armati di resistenza sono stati solamente la punta dell'iceberg di un movimento popolare vasto e diffuso, formato da milioni di italiani che attraverso la non collaborazione e il sostegno ai perseguitati hanno creato un contesto sociale senza il quale la liberazione sarebbe stata impossibile. Secondo Giorgio Giannini, ricercatore del Centro Studi Difesa Civile, le azioni non armate di lotta per la liberazione "sono meritevoli di un proprio riconoscimento autonomo perché rappresentano una vera e propria modalità di resistenza, distinta dalla lotta partigiana armata e praticata spontaneamente da moltissime persone, forse anche in numero maggiore rispetto ai partigiani combattenti". Uno dei testimoni più alti di questa lotta a mani nude contro il fascismo è Aldo Capitini, promotore della prima "Marcia per la Pace" da Perugia ad Assisi e "importatore" del pensiero gandhiano nel nostro Paese. Nel suo libro "Il messaggio" (Ed. Lacaita) Capitini racconta che "imparai il valore della non collaborazione (anzi lo acquistai pagandolo, perché rifiutai l'iscrizione al partito, e persi il posto che avevo); feci il sogno che gli italiani si liberassero dal fascismo non collaborando, divenni vegetariano perché pensai che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell'uccidere gli uomini". La scelta vegetariana diventa per Capitini uno strumento di lotta, e nel periodo trascorso alla Normale di Pisa come segretario del prestigioso ateneo, ogni pasto di Capitini diventa il pretesto per un piccolo comizio contro la violenza e la repressione, fino al giorno in cui la sua testimonianza quotidiana gli fa perdere il posto di lavoro. Oltre alla testimonianza solitaria di Capitini, sono molti gli esempi di azioni collettive che hanno gettato dei granelli di sabbia negli ingranaggi della macchina repressiva nazifascista. Uno di questi episodi è stato ricordato da Lidia Menapace, ex staffetta partigiana tuttora attiva nei movimenti per la pace. "Una mattina - racconta Lidia - sentiamo le sirene e prima crediamo sia un allarme aereo, poi si sparge la voce che 'le fabbriche scioperano'. Lo sciopero era vietato per legge durante il fascismo, chi scioperava o tentava di organizzarlo era licenziato e finiva anche sotto processo; durante la guerra, con le fabbriche militarizzate peggio che mai, sotto i nazi era un crimine senza speranza. Comunque ci precipitammo davanti alle fabbriche, si aprono i cancelli e operai e operaie escono sui piazzali e 'incrociano le braccia', una frase oggi un po´ retorica, ma allora eloquente: voleva dire 'siamo qui, siamo contro di voi, non vogliamo obbedirvi, ma siamo inermi': infatti con le braccia incrociate non si può nascondere nemmeno una chiave inglese. Ebbene, la civile e nonviolenta espressione dello sciopero superò la ferocia nazi: non ebbero il coraggio di sparare, non potevano, avrebbero dovuto ucciderci tutti. Con che gioia ironica ci aprimmo, per lasciarli passare, carichi di ferraglie, quando i loro comandanti dettero il dietro-front! Capimmo che avevano perso, che non erano invincibili. E anche loro capirono che avevano perso; infatti negli archivi si trovano notizie precise e allarmate quasi più sugli scioperi che sugli scontri". L'11 settembre 1944 anche i ferrovieri di Torino proclamano uno sciopero generale, "per cessare definitivamente di servire i traditori fascisti ed il nemico tedesco". I risultati di questa disobbedienza civile sono stati descritti da Edio Vallini, nel suo libro "Guerra sulle rotaie" (Ed. Lerici). Vallini racconta che "malgrado le rappresaglie nazifasciste, malgrado le squadre di SS e della legione Muti inviate ad arrestare ed a ricondurre ai luoghi di lavoro i ferrovieri in sciopero, malgrado le difficoltà economiche derivanti dall'astensione dal lavoro, che accentuavano le già difficili condizioni di vita di quel quarto inverno di guerra, numerosi ferrovieri torinesi, tra i quali diverso personale di macchina, seguirono l'ordine del Comitato di Agitazione e non si presentarono al lavoro che ad insurrezione avvenuta". Oltre agli operai e ai ferrovieri italiani, anche nel resto d'Europa migliaia di persone hanno combattuto il nazismo senza armi. Hedi Vaccaro, membro del Movimento Internazionale di Riconciliazione, ha descritto una di queste azioni sull'agenda "Giorni Nonviolenti" delle Edizioni Qualevita. "Quando i tedeschi occuparono la Norvegia - racconta Hedi Vaccaro - uomini d'affari, appaltatori e anche alcuni operai si misero a collaborare con l'invasore sotto la guida di Vidkun Quisling, il capo del partito unico Nasjonal Samling (Unione Nazionale). Ma dalle scuole, le chiese e i lavoratori nei sindacati veniva una tenace resistenza nonviolenta: quando i tedeschi vollero trasformare le scuole a modo loro nel 1941 gli insegnanti fecero un grande sciopero, aiutati da genitori e scolari e dalle chiese. Malgrado le pressioni, le scuole rimasero chiuse, e si facevano delle scuole alternative con l'aiuto dei genitori, che inondarono il ministero dell'istruzione con lettere di protesta. Milletrecento insegnanti furono arrestati e inviati ai lavori forzati nei campi di concentramento, nel freddo nord del paese. Centinaia di essi furono torturati, ma pochissimi cedettero. Così, tra maggio e ottobre dello stesso anno 1942 gli arrestati furono rilasciati e nell'autunno le scuole riaprirono senza i programmi nazisti". Un'altra significativa azione nonviolenta da recuperare alla memoria storica è quella realizzata dai cittadini della Danimarca, che durante la seconda guerra mondiale si sono rifiutati in massa di collaborare con i tedeschi per la persecuzione degli ebrei. Dopo aver ricevuto l'ordine di scrivere "Jude" (ebreo) sulle vetrine dei negozi ebrei, anche gli altri negozianti hanno fatto la stessa cosa, rendendo di fatto indistinguibili i negozi. Un comportamento analogo è stato messo in atto quando tutti gli ebrei presenti in Danimarca furono costretti a portare la stella gialla come distintivo. In quell'occasione tutta la popolazione, con il re in testa, fece altrettanto, e grazie a questa forma di tutela collettiva non armata furono pochissimi gli ebrei danesi deportati nei campi di concentramento. L'esempio più geniale di resistenza all'occupazione nazista è forse quello della tenuta agricola di Tor Mancina, nella provincia di Roma, dove l'intera comunità dell'azienda è riuscita a coalizzarsi per sottrarre alle razzie naziste una quantità inimmaginabile di beni. Sono stati moltissimi i sotterfugi utilizzati per questa "mimetizzazione" di un intero complesso agricolo: maiali "parcheggiati" nelle grotte prossime a Tor Mancina, latte sottratto alle mucche di notte per nutrire i partigiani alla macchia, 400 quintali di grano e 300 di avena occultati in un silos, mobili, attrezzi, olio e masserizie murati nei locali sotterranei. Tutte le operazioni di muratura del materiale occultato sono state eseguite dal muratore Amato Salvatore della classe 1914, un protagonista della nostra storia che rischia di essere dimenticato per il nostro morboso interesse verso le battaglie e le sparatorie. [Questo articolo è stato pubblicato sul mensile "Terre di Mezzo", nel numero di aprile 2003, dedicato al tema della liberazione. Ringraziamo la redazione di "Terre" per la diffusione in formato elettronico.] |
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