Conflitto, conflitto armato, guerra
Che cos’è il conflitto? In che cosa si differenzia dalla guerra? Senza voler fornire una risposta approfondita a queste domande, occorre chiarire che il concetto di conflitto non ha un significato necessariamente negativo e, comunque, non può essere considerato in modo automatico come sinonimo né di violenza né di guerra.
Molti sono i significati che possono essere attribuiti al termine conflitto, a seconda del livello, della “qualità”, dei soggetti coinvolti e delle dimensioni del conflitto stesso, così come diverse possono essere le concezioni attorno ad esso. In generale, il conflitto è una dimensione costitutiva della condizione umana, una dimensione cioè con la quale fare i conti, in tutta la sua complessità, sia a livello personale sia a livello interpersonale sia, infine, a livello sociale (nazionale e internazionale).
Ad esempio, una situazione di contrapposizione fra due o più parti sociali che, in un determinato momento, hanno interessi divergenti può assumere forme differenti: si va da casi di contrapposizione non acuta a circostanze in cui sono in gioco bisogni umani fondamentali non negoziabili e in cui il conflitto assume forme estreme di contrapposizione.
Pur avendo a disposizione, nella lingua italiana, due distinti termini, tuttavia nel linguaggio comune si è portati a sovrapporre il termine guerra con quello di conflitto, ma quando ciò avviene si intende chiaramente con quest’ultimo il conflitto violento e/o armato. In tal senso, allorquando si parla di “conflitti dimenticati” s’intendono ovviamente quelle situazioni di tensione nelle quali la violenza organizzata viene utilizzata nella gestione di conflitti tra popoli (Stati) diversi o all’interno di uno stesso popolo (Stato).
Il diritto considera conflitto armato internazionale l’uso della forza armata fra due o più stati, sia nel caso di guerra dichiarata sia nel caso di qualsiasi altro conflitto armato sorto fra due o più stati, anche se lo stato di guerra non sia stato riconosciuto da uno di questi. Inoltre, il conflitto armato internazionale può verificarsi in tutti i casi di occupazione totale o parziale o del territorio di uno stato, anche se l'occupazione non incontra alcuna resistenza militare.
Un conflitto armato può anche non rivestire il carattere internazionale, allorquando cioè scoppia sul territorio di un singolo stato (le cosiddette guerre civili). In tal caso, lo scontro si verifica generalmente fra le forze armate dello Stato e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del territorio dello stato, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate. Anche in questo tipo di conflitti, si applica il diritto internazionale umanitario. Lo stesso diritto internazionale contempla, tra i conflitti armati, anche quelli nei quali i popoli lottano contro la dominazione coloniale e l'occupazione straniera e contro i regimi razzisti, nell'esercizio del diritto dei popoli di disporre di se stessi, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati in conformità della Carta delle Nazioni Unite.
Al di là delle definizioni giuridiche, coloro che studiano le guerre, considerano come “conflitto armato” quel tipo di conflitti in cui le parti su entrambi i fronti fanno ricorso all'uso della forza. Anche in questo caso, tuttavia, esistono diverse classificazioni.
Scrive Francesco Strazzari (in Caritas Italiana, Guerre alla finestra. Il Mulino, Bologna 2005, pp. 36-37):
La letteratura scientifica tende a distinguere dai «conflitti armati» la categoria dei conflitti violenti (violent conflict, deadly conflict), intendendo per questi ultimi i conflitti in cui la violenza è esercitata da un lato solo su civili non armati, in circostanze in cui - per esempio - vengono perpetrati genocidi e crimini contro l'umanità. Recentemente si è rafforzata anche la tendenza a registrare come conflitti armati solo quelle controversie violente in cui almeno una delle due parti e una autorità di governo riconosciuta, andando così a costituire la categoria dei factional conflicts (scontri violenti fra fazioni locali o signori della guerra in assenza di coinvolgimento statale).
Parlando di conflitti armati tecnicamente intesi, la definizione di guerra passa attraverso un lavoro di raffronto fra i differenti progetti di ricerca che monitorano costantemente lo stato della violenza organizzata nel pianeta. Pur con visibili differenze, la comunità scientifica ha infatti identificato diverse soglie e parametri per decidere cosa e come contare.
La soglia su cui convenzionalmente concordano i programmi di ricerca che registrano la magnitudine delle guerre è quella dei mille morti in battaglia. Per major armed conflict il Conflict Data Project condotto in Svezia dall'Università di Uppsala, in associazione con l'istituto Sipri, intende un conflitto nel quale l'uso della forza tra le forze militari delle due parti - delle quali una almeno è un governo di uno stato - ha causato almeno 1000 morti in battaglia in un qualunque anno di tale conflitto. Raggiunto questo grado di escalation, per rimanere nel computo di Uppsala/Sipri è sufficiente che si registrino dei morti in scontri armati negli anni successivi.
Questo programma di ricerca dispone i conflitti armati su una scala che si compone di quattro diversi gradi di intensità, a seconda del numero di vittime causate dal conflitto. Il livello più basso è quello del minor armed conflict, che si verifica quando si hanno almeno 25 morti in battaglia per anno, e almeno 1000 durante tutto l'arco temporale del conflitto. L'intermediate armed conflict si ha, invece, qualora si verifichino almeno 25 morti in battaglia per anno ed un totale di almeno 1000 morti, ma meno di 1000 per anno. La soglia del major armed conflict si supera con il superamento dei 1000 morti in battaglia per singolo anno e continuazione di ostilità anche minori nel tempo; fra questi conflitti, si possono distinguere le «guerre a tutti gli effetti in corso» le quali includono la soglia dei 1000 morti in battaglia nell'ultimo anno di svolgimento del conflitto.
Per avere un'idea di come sia difficile trovare un unico criterio d'identificazione delle varie situazioni conflittuali, si può spaziare su altri programmi di ricerca. Il Programma di Ricerca Interdisciplinare sulle Cause Prime delle Violazioni dei Diritti Umani (Pioom) dell'Università olandese di Leiden, classifica tre diversi livelli di intensità. In cima alla scala si trovano i conflitti di alta intensità (Hics), cioè conflitti armati che raggiungono la soglia dei 1000 morti, non necessariamente in battaglia, in un anno, e che si caratterizzano per l'uccisione indiscriminata di civili non combattenti. I conflitti di bassa intensità (Lics) sono, invece, conflitti che causano in un anno fra le 100 e le 1000 vittime, e che sono caratterizzati da un graduale cambiamento della natura del conflitto, da guerriglia a conflitto convenzionale. Infine, il livello più basso è quello dei conflitti politici violenti (Vpcs), in cui si verificano fino a 100 morti in un anno, e che vedono una progressiva escalation da un confronto non violento fra attori, all'utilizzo di strategie violente.
l'Armed Conflict and Conflict Management Programme del SIPRI
http://www.sipri.org/contents/conflict/
l'Uppsala Conflict Data Program dell’Università di Uppsala
http://www.pcr.uu.se/research/UCDP/index.htm
la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Leiden
http://socialsciences.leidenuniv.nl/
la sezione sulla metodologia per lo studio dei conflitti dell’Università di Barcellona
http://www.ub.es/conflictes/welcome.html
il progetto canadese Ploughshares
http://www.ploughshares.ca/libraries/ACRText/ACR-TitlePageRev.htm
il programma di ricerche statunitense The Correlates of War Project
http://www.correlatesofwar.org/