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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Diritto, pace e guerra preventiva

Antonio Papisca

Il diritto internazionale cosiddetto “nuovo” (in realtà ha già oltre cinquant’anni) lo è rispetto a quello che fino a poco tempo fa veniva insegnato come l’unico diritto internazionale, che aveva preso forma ufficiale, espressione istituzionale a partire dalla Carta Convenzionale del 1648 (la cosiddetta Pace di Westfalia). Il diritto internazionale è stato inteso come quel complesso di principi e di norme interessate a regolare i rapporti tra gli Stati, ciascuno sovrano (quindi superiorem non recognoscens), assumendo come esclusivo soggetto di diritto, appunto, lo Stato. Per la persona umana non c’era spazio né rilevanza. Le comunità umane erano parte integrante della persona giuridica “Stato”, e quindi patrimonio dello stesso.

Il principio di sovranità degli Stati aveva poi dei corollari, come la non ingerenza negli affari interni. In questo vecchio diritto internazionale, pace e guerra erano sullo stesso piano. E la sovranità dello Stato aveva due attributi, lo jus ad bellum e lo jus ad pacem, che venivano richiamati a seconda della convenienza di un determinato Stato nel fare il proprio cosiddetto interesse nazionale, interpretato in quel momento storico dall’autorità di governo. Difficile quindi individuare dei valori di etica nel vecchio diritto internazionale.

Ci sono due principi sacri di carattere etico: “i patti devono essere rispettati” (pacta servanda sunt) e “la consuetudine deve essere rispettata” (consuetudo servanda est). Ma ci possono essere anche patti scellerati.

Primo, i diritti umani
Il nuovo diritto internazionale inizia a manifestarsi nel 1945 con la Carta delle Nazioni Unite, in cui per la prima volta un accordo giuridico internazionale si apre con l’affermazione di soggettività umana: “Noi popoli delle Nazioni Unite...”. E nel dispositivo della Carta delle Nazioni Unite la promozione e la protezione dei diritti umani sono assegnati come obiettivo sia per l’ONU sia per gli Stati.

La Dichiarazione Universale dei Diritti umanidel 1948, a sua volta, declina un elenco di diritti fondamentali della persona, esplicitando un principio che verrà ripreso da trattati internazionali successivi, e cioè che il riconoscimento dell’uguale dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo. Alla base dell’ordine mondiale di questo ordinamento sta dunque il valore della dignità umana e non più il principio della sovranità degli Stati.

Per dire della novità del nuovo diritto internazionale e della sua valenza umanocentrica, basta ricordare l’articolo 1 della Dichiarazione Universale: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e sono dotati di coscienza e di ragione e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Noi oggi diciamo che humana dignitas servanda est, la dignità umana deve essere rispettata: questo diventa il principio fondativo di un nuovo diritto universale, gerarchicamente superiore a pacta servanda sunt e a consuetudo servanda est, che diventano strumentali rispetto al conseguimento in via primaria del bene comune della famiglia umana.

Oggi siamo in presenza di un corpo organico di principi e di norme giuridiche internazionali che, sviluppando l’umanizzazione del diritto internazionale, comportano un nucleo di principi che la dottrina giuridica chiama di jus cogens. Questi principi sono validi erga omnes, a prescindere dall’avere o meno ratificato quella determinata convenzione giuridica internazionale. Sono cioè principi muniti di fortissima precettività.
I diritti umani sono al centro di questo nucleo di jus cogens. Proibiti e sanzionati, così, sono i crimini di tortura, trattamenti inumani e degradanti, la schiavitù nelle sue varie forme. Siamo anche giunti, mediante Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni internazionali, ad attrarre nella medesima logica di assoluta precettività il divieto della pena di morte.

Per la pace e la vita
E poi c’è il divieto della guerra. Non c’è, invece, il divieto dell’uso della forza, cioè della coercizione, anche militare ma condizionata dai princìpi di etica umana che possiamo ricondurre a vita e pace. Vita e pace sono delle categorie ontologiche, sono la sostanza del nuovo diritto internazionale, dove non vi può essere posto né per la pena di morte né per la guerra intesa tradizionalmente come operazione condotta con le armi da parte di uno Stato nei confronti dello Stato nemico. In questo contesto rispettare la vita significa non solo salvaguardare l’integrità fisica e psichica della persona, assicurare insomma la sua sopravvivenza, ma anche al tempo stesso creare condizioni sociali, economiche e politiche per lo sviluppo integrale della personalità di ciascuno. Diritto alla vita, dunque, come diritto a vivere nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti che a questa ineriscono.

Un diritto, dunque, per la pace e la vita: “ut populi vivant” (perché i popoli vivano) e “ne populi ad arma veniant” (perché i popoli non vengano alle armi).
Per secoli, mettendo sullo stesso piano guerra e pace, le norme che hanno regolato i rapporti tra gli Stati hanno finito per far prevalere la prima sulla seconda. Il nuovo diritto internazionale ribalta questa impostazione. Alla logica del tenersi preparati alla guerra, la Carta delle Nazioni Unite sostituisce quella del disarmare, del prevenire, del far funzionare il sistema della sicurezza collettiva.
La stessa eccezione dell’autotutela successiva a un attacco di uno Stato contro un altro Stato, rigorosamente limitata e circostanziata, conferma la regola. E la cosiddetta guerra preventiva è vietata in radice dal diritto: chi la fa viola fondamentali princìpi e norme, incorrendo in crimini gravissimi, compreso quello di aggressione.

L’uso della forza è consentito a certe condizioni: non ci può essere il fine della distruzione del nemico, quanto fini di giustizia penale internazionale. In questi casi l’obiettivo, anche con l’uso dello strumento militare, è la cattura dei presunti criminali, la salvaguardia dell’incolumità delle popolazioni e delle infrastrutture produttive, la somministrazione di viveri e così via.
L’uso eventuale del militare nelle relazioni internazionali è finalizzato a scopi di giustizia e non di conflitto, di occupazione. I bombardamenti sono esclusi, non c’è più il nemico “Stato”, e i nemici sono persone ben individuate e perseguite con strumenti di polizia internazionale. Questa è la nuova frontiera per quanto riguarda l’uso di poteri forti dell’autorità del sistema internazionale.

Strutture e persone
Mi sembra opportuno citare la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1999 sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti.
L’articolo 1 di questo documento solenne recita: “Tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la promozione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale”.
Non ci sono, dunque, frontiere per l’affermazione e l’osservanza di queste nuove norme giuridiche, tanto è vero che anche i singoli e le formazioni sociali possono agire dentro e fuori del proprio Paese per l’affermazione dei diritti umani e quindi della pace. L’articolo 11 afferma che “tutti hanno il diritto, individualmente o in associazione con altri, di partecipare ad attività pacifiche contro le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Addirittura si dice che tutti hanno diritto a ripensare nuovi traguardi per lo sviluppo dei diritti umani e quindi del nuovo diritto internazionale.

Questo documento rafforza la tesi che le persone e le loro formazioni sociali hanno non soltanto una legittimazione politica ad agire, anche in sede internazionale, ma anche una legittimazione di carattere giuridico. Questo è il nuovo diritto internazionale che bisogna sviluppare.
Nell’ultimo messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio scorso, si dice che bisogna mirare a “un grado superiore di ordinamento internazionale”. Significa che bisogna cogliere tutto quello che c’è di potenziale nel nuovo diritto internazionale e svilupparlo, esplicitarlo e rafforzarlo.

Non è più possibile, allora, mettere in dubbio il divieto della guerra: perché la vita e la pace sono valori fondativi prima ancora di essere “in crisi” nella lista dei diritti fondamentali. Il problema, piuttosto, diventa quello delle istituzioni internazionali deputate a garantire questo diritto internazionale. Occorre esercitare capacità di pensiero, capacità di governo, arricchire l’agenda dell’agire politico. Un problema di strutture, anche, ma innanzi tutto, come dice il Papa, di persone. Insistiamo tanto sulle Nazioni Unite, perché rappresentano la casa madre, che ha generato il nuovo diritto internazionale. C’è preoccupazione per le istituzioni in quanto tali, per il loro sviluppo, la loro riforma, la loro efficacia. Ma le strutture sono derivate da persone che fanno avanzare le istituzioni.
Diventa, dunque, ineludibile il problema della formazione delle persone. Dobbiamo ammettere che non abbiamo ancora classi governanti con la mente formata, competente e con il cuore sensibile. E invece il corretto funzionamento delle istituzioni nel perseguire il bene comune dipende dalla responsabilità di coloro che operano al loro interno. C’è, quindi, la necessità di investire, in modo prioritario, risorse adeguate nell’educare e formare tutti, specialmente le nuove generazioni, perché interiorizzino la cultura della pace e dei diritti umani. Quella che serve è una vera e propria mobilitazione educativa a raggio mondiale, che faccia lievitare una leva universale della pace composta di persone generose, competenti, addestrate, con un forte senso della legalità, dei diritti e dei doveri universali, motivate a esercitare concreti gesti di pace di ruoli di alta responsabilità politica come nei molteplici luoghi dell’ordinaria vita sociale.

Quale democrazia?
Sicuramente il tema della democrazia è legato a quello dei diritti umani e della pace.
Ma, la democrazia non si esporta. È frutto di un percorso lungo, certamente non esauribile nelle sue espressioni elettorali o parlamentari (assolutamente irrinunciabili) né racchiudibile nei confini territoriali degli Stati. D’altra parte, è sempre più vero che le grandi decisioni per la vita dei popoli vengono assunte al di fuori e al di sopra dei confini geografici, non più controllabili dall’interno dei singoli Stati.
Occorre allargare il campo d’azione della democrazia: alla perdita di capacità degli stati, quale risultato dell’erosione della loro sovranità provocata dall’interdipendenza globale, non si può ovviare mediante strategie di un’illusoria ri-nazionalizzazione. Il principio guida non può che essere quello della sussidiarietà, che rischia di esaurirsi in uno sterile esercizio di geometria delle competenze istituzionali, se non lo si riempie di contenuti sostanziali: e questi sono i bisogni vitali, e quindi i diritti fondamentali, delle persone e dei popoli.
Sul versante delle Nazioni Unite, democratizzazione vuol dire maggiore legittimazione degli organi che decidono, maggiore partecipazione. Bisogna, cioè, iniettare dentro le Nazioni Unite “protagonismo umano”, quello che sente i valori fondativi del nuovo diritto internazionale: non solo gli Stati, dunque, devono stare dentro le Nazioni Unite, ma anche la voce, la soggettività della famiglia umana. Proposte in tal senso sono state avanzate puntualmente dalle organizzazioni della società civile nel quadro del dibattito sulla riforma delle Nazioni Unite, mentre gli Stati sono troppo preoccupati di altri aspetti più legati agli equilibri nei rapporti di forze.

Gli obiettivi della democratizzazione e della good governance in sede internazionale possono essere perseguiti attraverso un lavoro di dialogo e di pressing “dentro” il sistema, utilizzando tutti gli interstizi, le aperture già esistenti. E dall’altro, rafforzando e coordinando il lavoro di rete della sempre più vasta e diversificata rete di associazioni, gruppi, movimenti che formano la società civile globale: tutti quei soggetti, cioè, che condividono la cultura dei diritti umani, della pace, della solidarietà, operando per via transnazionale e costituendo anche una ricca miniera da cui è possibile estrarre nuove generazioni di responsabili della cosa pubblica. E dobbiamo tutti aiutare la crescita di una nuova leadership con mente e cuore di pace positiva.

* professore ordinario di Relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, dove insegna anche Organizzazione internazionale dei diritti umani e della pace e Tutela internazionale dei diritti umani. Titolare della cattedra UNESCO “Diritti umani, democrazia e pace”, è direttore del Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova, direttore del Master europeo in Diritti Umani e Democratizzazione e della rivista “Pace diritti umani”.

Intervento tenuto in occasione dell’Assemblea Nazionale di Pax Christi Italia
(Santuario di Oropa, Biella, 30 aprile-2 maggio 2004)

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