Educare alla Pace, Commissione Giustizia e Pace CEI (1998)
Conferenza Episcopale
Italiana
Commissione
Ecclesiale Giustizia e Pace
EDUCARE
ALLA PACE
Nota pastorale
Roma, marzo 1998
Presentazione
Ecco la Nota
pastorale Educare alla pace. Con Educare alla legalità (1991) e Stato
sociale ed educazione alla socialità (1995) essa costituisce una piccola
trilogia, che riteniamo non solo facilmente accessibile e maneggevole per le
modeste dimensioni, ma anche pastoralmente utile. Sottolineiamo la possibilità
di adoperare con vantaggio nella pastorale ordinaria questi strumenti, che la
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, già autorevolmente presieduta da S.E.
Mons. Giovanni Volta e da S.E. Mons. Tarcisio Bertone, ha predisposto e la cui
pubblicazione è stata approvata dal Consiglio Permanente della Conferenza
Episcopale Italiana.
Legalità, socialità, pace: sono valori strettamente collegati, non
dissociabili uno dall’altro. La loro attualità è permanente, se non perenne.
L’illegalità, organizzata o individuale ed episodica, non recede dagli
ambienti che è riuscita a inquinare o controllare. La socialità, intesa come
apertura della coscienza e della volontà al bene comune, sembra seriamente
minacciata dall’individualismo, dal corporativismo, da una visione grettamente
o sottilmente improntata a utilitarismo, la quale condiziona e orienta la vita
di molte persone, famiglie, aggregazioni d’interessi.
La pace, poi, non è necessario ripeterlo, è un valore così necessario,
prezioso, fragile, che non si può mai essere certi d’averla in possesso e
godimento una volta per tutte: questo è vero della “grande pace”
internazionale, che abbiamo temuto di perdere anche nella recente, seconda crisi
mediorientale, come per la tranquillità di singoli paesi (pensiamo
particolarmente al cuore, così spesso insanguinato, dell’Africa nera, ma
anche a situazioni d’altri continenti: la penisola balcanica, l’America
latina, l’Asia), che effettivamente sembrano privati da troppo tempo di quella
“tranquillità dell’ordine” senza della quale la nostra vita non sarebbe
nostra, non sarebbe vita.
Con la conclusione di questo discorso, che vuole rivolgersi umilmente,
concretamente, alle singole coscienze ed alle comunità cristiane, a cominciare
dalle parrocchie, dai gruppi, dalle associazioni, la Commissione Ecclesiale
Giustizia e Pace conclude anche quest’altro quinquennio della propria attività.
Mancheremmo a un preciso dovere se non dicessimo, anche con queste righe, la
nostra riconoscenza più viva ai componenti la Commissione, dei quali conosciamo
e possiamo testimoniare l’alta sapienza, il generoso spirito di
partecipazione, il profondo amore per la Chiesa: per quella che è in Italia e
per quella universale, della quale è pastore grande e maestro di educazione
alla pace Giovanni Paolo II.
Roma,
19 marzo 1998
festa
di San Giuseppe
+
Pietro Nonis
Presidente della Commissione Ecclesiale
Giustizia e Pace
Introduzione
1.
- La pace è una promessa e insieme un’invocazione, che nasce nel profondo
dell’essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano immagini di
tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di conflitto, di vita e di
morte; essa vive della memoria del dolore, della paura che il dolore si rinnovi,
della speranza di esserne risparmiati. La pace appare come la condizione e la
sintesi di ogni altro bene desiderato.
Eppure
c’è uno scarto tragico fra la sincerità dell’invocazione e la realtà
della vita. Si fa la guerra affermando di avere in cuore la pace. In nome del
proprio sogno si contrasta il sogno dell’altro e non gli si fa posto. Il
conflitto è contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e
l’ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più
forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra (cf. Gen
4,10).
2.
- È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la pace,
sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell’uomo, non ci sarà
nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il realizzarsi del sogno?
Certo
la pace chiama in causa le istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono
regolate la vita e le relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell’uomo
che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la
solidarietà. La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità
fra uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle
sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è quindi
necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore
dell’uomo.
Infatti
il volto definitivo dell’uomo non è quello del carnefice né quello della
vittima, perché entrambi si mostrano disumani. Nel profondo dell’esistenza
personale l’uomo avverte che la propria “verità totale” è una sorta di
traguardo: egli “diventa” uomo, nella continua tensione verso la pienezza
del proprio essere. Poiché dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è
l’educazione, se si vuole che il seme dell’invocazione alla pace diventi
frutto, occorre educare alla pace.
3.
- È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci, concludendo un
itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con il tema
dell’educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il tema
dell’educazione alla socialità (1995).
Le
pagine che seguono si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e
condividere con ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute
nell’invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano
l’invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione, che
coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione costruttiva, che
comunque l’invocazione rivela, spuntano valori umani che vanno condivisi e
stimati per se stessi, ma che - per chi crede in Gesù di Nazaret - si
manifestano pure come germi del regno di Dio che cresce nella storia, fino alla
pienezza di novità del giorno ultimo (cf. Parte prima).
I
credenti in Cristo sanno di dover condividere l’invocazione di pace di tutta
l’umanità, ma anche la ricchezza del messaggio evangelico sulla pace, donato
loro per grazia, rivolto però a tutta l’umanità. Una sintetica proposta di
tale messaggio viene quindi offerta fraternamente, come contributo al crescere
della speranza e della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
Dall’ascolto
e dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto di
educazione alla pace, con l’unico desiderio di contribuire all’elaborazione
di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile. Le sue
ragioni vanno perciò fondate sull’invocazione umana più vera e drammatica, e
vanno alimentate ai valori di vita che la fede cristiana aiuta a riconoscere e a
vivere come dono dall’alto, ma che ognuno può scoprire scrutando il proprio
cuore. La pace infatti è di tutti e può nascere solo con l’opera convergente
di tutti (cf. Parte terza).
Parte prima
IN
ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI
4.
- Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di
sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della
contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra - per certi versi
diventata “fredda” e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli
emergenti - ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una
miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore
di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi “informazione consumatoria”
e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
Si
possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o
etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa...
Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle
“pulizie etniche” di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli
scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come
parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse
dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento
operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
La
stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire
lo scontro, talora offrendo una specie di “bandiera” che serva a
identificare il “nemico”, o più spesso in nome di radicalismi e
fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l’odio per
l’“altro” in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà
religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l’uomo e gli impedisce la
libera ricerca dell’Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
Episodi
di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita
sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle
nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed
economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni
genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che -
in ogni campo - espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e
di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica
e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell’aggressività cieca che
devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.
5.
- Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono
insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla
criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il
controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette
“trasversali”, dei “veleni” riversati sulle istituzioni,
dell’investimento nel mercato di morte della droga.
Più
in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come
mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti
di forza. Il “bipolarismo incompiuto” della politica è vissuto come
polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e
progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento,
partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di
gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di
un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano
anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il
proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche
tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la
regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l’armonizzazione
dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non
solo politico, necessario alla loro soluzione.
La
stessa “diaspora politica” dei cattolici non si configura come opportunità
per l’animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e
diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all’interno delle
comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.
6.
- È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato
chiamato “guerra” e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò
che si continua a chiamare “pace”.
Un
aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della
generalità e dell’ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò
significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali
e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni
interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà
di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada
nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e
coglie alcuni fatti significativi.
Pace
e giustizia
7.
- Ci sono situazioni in cui l’ordine regna; ma non sempre l’assenza della
guerra è sinonimo di pace. C’è infatti assenza di conflitto anche nelle
situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e
non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la
maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull’ingiustizia:
essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro
alla disperazione degli oppressi.
Il
giogo dell’ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l’uomo che la
subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la
libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita
di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini
porta talora a giustificare un’azione violenta che non si cura della bontà
dei mezzi. L’umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c’è
pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia
però è per l’umanità un’invocazione e un sogno, che deve faticosamente
farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell’uomo e nella
storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero
fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
Il
dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza
con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e
complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore
dell’uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa
dall’obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata
e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti,
la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della
costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.
8.
- La ferita più profonda inferta dall’ingiustizia è quella della violazione
dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non
può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione
prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e
dall’indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia,
riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta
nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta
pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell’essere umano
nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale
dell’incapacità dell’uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
La
stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la
salute, la casa, l’istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all’incontro
casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con
l’indifferenza degli altri. Diversi modelli di “Stato sociale” mostrano il
limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da
parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e
soprattutto perché l’apparato confida nell’efficienza organizzativa e
dimentica che l’uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede
ascolto.
Ritardare
la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si
appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le
rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la
promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace
durevole.
9.
- Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove
frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e
interpellano l’umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione
consegna all’altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo
migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla
tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il
dominio dell’uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di
responsabilità e di doveri.
La
sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici,
ripropone l’immagine dell’uomo come custode e non dèspota del creato,
impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino
irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro.
La violenza alla natura prepara altre violenze.
Pace
e solidarietà
10.
- La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all’osservanza
della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo
astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta.
L’uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio
dell’amore, quando si affaccia sulla realtà dell’altro, lo riconosce e lo
accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
La
coscienza e l’esperienza comuni avvertono infatti che l’atteggiamento di
pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la
diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della
natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l’originalità di ogni
fisionomia e cultura, arricchisce l’orizzonte della collaborazione. Lo scambio
di un gesto d’amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il
senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e
rifiutati, e quando l’essere dell’uomo viene squalificato - da sé o da
altri - nasce l’odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra
un’incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è
il “nemico ereditario” della storia dell’uomo, dei popoli, delle fazioni,
dei gruppi ostili. Quanto più l’odio distende le radici, tanto più vi è
ostacolo alla pace.
Non
solo l’odio tiene l’uomo lontano dai sentieri della pace: c’è anche il
nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza.
Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa
noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la
vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi,
fuga nella realtà “virtuale”, talora anche violenza rivolta contro sé
stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio,
il brivido dell’autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di
vita disumanizzante delle metropoli fatte di “folla solitaria”, dove
l’indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti
avviene con la pura forza della suggestione e dell’abitudine.
Una
società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell’amore alla vita, non può
essere una comunità di pace. La tempra dell’uomo costruttore di pace non si
manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all’odio,
ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all’amore.
11.
- La pace nasce dalla liberazione dall’odio e dal superamento
dell’indifferenza, perché ambedue rimandano all’altro un messaggio di
squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo
bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e
realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti,
anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse
insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il
proprio bisogno, in concorrenza con l’altro e non necessariamente
“contro”. Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per
cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi
non può essere sognata nell’annullamento dei conflitti, ma nella costruzione
paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà,
per evitare che all’interno di questi meccanismi si insinui la dinamica
dell’odio e che la percezione del bene e della verità si deformi
nell’esclusione dell’“altro”, visto come una minaccia potenziale. La
realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di
tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole
e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell’altro
e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di
educare coscienze che riconoscano l’antagonista come un uomo dotato di pari
diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie “giuste pretese” non
siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non
siano la contropartita della sottomisura o dell’esclusione di altri al
banchetto dei beni della terra.
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico
(anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e
implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una
quiete a ogni costo, né di dissiparla nell’equiparazione di ogni opinione
soggettiva. L’amore per la verità sa invece distinguere l’errore
dall’errante e ha la forza di mantenere l’irriducibilità delle diverse
prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di
accoglienza nei confronti di ciascuno.
12.
- La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in
un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di
interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre
più fino ad abbracciare l’umanità intera.
La
storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di
alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se
l’umanità trovasse le vie per un’alleanza globale e stabile. Per quanto però
la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di
unificazione umana continui attraverso l’ampliamento dei trattati e delle
istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo
libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.
Scelte
e gesti di pace
13.
- L’ascolto attento di quanto risuona nell’invocazione umana alla pace
rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e
visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di
speranza. Attorno a questi “semi di pace” sono anche nati movimenti di
opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per
influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità
nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o
“schierate” dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali
percorsi.
a) Il rifiuto
della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la
distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e
soccorre. Così anche l’intervento armato può assumere il volto
dell’intervento umanitario, quando più nessun’altra ragione umana si rivela
capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però
pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra
i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a
rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell’umanità e una delle cause
più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l’Italia si sa
a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate
altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano
i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e
doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a
far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi
grondano sangue.
b) La
non-violenza: l’opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita
personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità
di provocazione. L’uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità
dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole
“nemico” perché altri lo hanno definito come tale.
c)
L’obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che
non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il
principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come
disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola
la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà
di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di
atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell’uomo. La stessa cultura
giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l’esistenza del
diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati,
l’obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la
sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un’ulteriore tendenza
secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al
vaglio di un’autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare
e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio
sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l’originario valore di
profezia dell’obiezione di coscienza non dev’essere comunque stemperato in
una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece
suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché
l’adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere
operatori di pace). Il significato autentico dell’obiezione infatti si misura
sulla condotta effettiva dell’obiettore: un servizio civile offerto
coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si
propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
d)
La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei
rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle
realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da
esperienze del genere “non profit”, quali le “banche etiche”, il
“commercio equo e solidale”, ecc. Spesso anzi proprio le “organizzazioni
non governative” raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non
arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove “uomini
senza frontiere” accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la
vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di
pace, perché restituisce visibilità all’appartenenza all’unica famiglia
umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con
il dono.
Parte seconda
CON IL DONO
DELLA PACE CHE VIENE DA DIO
14.
- I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna di questa
terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità per gli ostacoli
che essa incontra. Essi però sanno anche di aver ricevuto un messaggio capace
di illuminare e sostenere il cammino dell’umanità e di essere quindi chiamati
a testimoniarlo e a condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la
speranza e l’impegno.
Il
messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro alla domanda dell’uomo, il
quale - nell’apparente irraggiungibilità di una mèta tanto sognata - è
tentato di vedere e gridare una sorta di imperfezione di sé e del cosmo, che
sembra condannare all’assurdità le attese più profonde. Tale messaggio
infatti rivela la fonte ultima di ogni possibilità di pace nell’amore di Dio
Padre, che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv
3,16). Per chi crede in Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione
sono la promessa, la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore
della storia, anche se non ancora nella pienezza dei frutti.
La
pace: continua offerta di Dio nella storia dell’uomo
15.
- Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono scanditi
dalle parole: “E Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,4ss). Il cosmo
dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza di morte e
pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un costitutivo
essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo Creatore. Nello
stesso tempo Dio ha deciso di affidare all’uomo, fatto a sua immagine e
somiglianza, la responsabilità di coltivare e custodire il giardino del mondo;
gli ha chiesto pure di accogliere questo compito come una libertà ricevuta in
dono, non come spazio di chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17).
L’uomo
aveva però - e ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il
disegno di Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle
origini ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e del
creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen
4,1-16) e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech “Ho ucciso
un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà
vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,23-24). La violenza e
la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto: “Il Signore si
pentì di aver fatto l’uomo sulla terra” (Gen 6,6) e decise di
mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della morte: quando il mondo,
con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse dall’abisso delle acque, l’amore
infinito di Dio tracciò nel cielo l’arcobaleno, promessa di un nuovo e
definitivo patto di pace (cf. Gen 9,12-17).
Così
tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla rivelazione biblica, è la
storia dell’appassionata ri-offerta all’uomo della possibilità e della
responsabilità di aderire al “regno di Dio”, cioè al progetto di costruire
la storia umana come storia di pace. La chiamata di Abramo, promessa di
benedizione per tutte le genti (cf. Gen 12,1-3), è l’avvio di questo
cammino. La liberazione di un popolo di schiavi - con l’offerta di un patto
d’amore e con la proposta di una legge che temperasse l’istinto della
violenza - è il gesto decisivo e rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es
3,7-12; 21,23-25).
L’annuncio
profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele come una promessa di
pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del Servo di Jahweh, che
prende su di sé la violenza dei propri carnefici e li redime (cf. Is
52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei fallimenti umani, è offerta la
promessa del dono di un “cuore nuovo”, che cambi dall’interno i passi e le
vie dell’uomo (cf. Ez 11,19; Sal 51,12).
La
pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto
16.
- Il dono divino della pace culmina nella persona, nell’insegnamento e nella
vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l’uomo nuovo che può
dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo stesso pensa di offrire e
che risulta impossibile senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27).
Infatti la pace offerta da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e
amorosa, di dare la vita sino al termine estremo della morte di croce,
accompagnata dal perdono per i crocifissori: “Egli è la nostra pace, colui
che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo, cioè l’inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in se
stesso l’inimicizia” (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo
sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La risurrezione di
Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il primo saluto del
Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo stesso del messaggio
evangelico: “Pace a voi!” (Gv 20,19).
Ogni
giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella vita
personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la domanda, che anche
Paolo di Tarso ha sperimentato: “Io non riesco a capire neppure ciò che
faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Sono
uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm
7,15.24).. Di fronte all’annuncio di Cristo risorto però possiamo anche
sperare nella possibilità che la nostra domanda non si perda in un cielo vuoto,
ma incontri un dono e divenga grido di riconoscenza: “Siano rese grazie a Dio
per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rm 7,25). Se il sangue di
Abele continua a gridare dalla terra le sconfitte generate dall’odio, il
sangue di Cristo, “dalla voce più eloquente di quello di Abele” (Eb
12,24), grida più forte la speranza di pace.
La
pace: dono di Dio affidato all’invocazione dell’uomo e alle sue mani
17.
- La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l’uomo ha il potere
tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso, deve conoscere
i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si possa mietere la spiga (cf.
Mc 4,26-29). L’attesa umana della pace allora si colloca al crocevia
fra l’invocazione alla grazia divina che cambia il cuore e il proposito di non
rinnegare il compito affidato da Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza,
alla nostra generosità.
Perciò
il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica della croce,
cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del possesso (cf.
Mc
10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia “nuova” e “superiore”,
che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni rapporto umano, fino a chiedere
forme d’amore inattese e impensabili (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza
l’impegno a edificare la pace diventa testimonianza resa all’amore di Dio (cf.
Mt 5,9), perché si alimenta al distacco dall’ansia dell’avere,
proprio di chi si sa affidato all’amore del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed
è quindi capace di condivisione fraterna (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica
quotidiana della riconciliazione nell’unità, diventa segno offerto al mondo,
perché possa credere che Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).
La
pace: dono di Dio offerto nella speranza
18.
- La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di Dio già opera
come lievito nella storia e che alla fine ci saranno “un nuovo cielo e una
nuova terra” (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace regneranno e ogni
lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella forma del “già e non
ancora”. È quindi nostro compito rendere ragione di fronte alla storia della
speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e assumere la fatica fiduciosa di
orientare tale storia al suo traguardo, contro ogni pronostico disperato e con
la consapevolezza che fino all’ultimo le tracce del male renderanno la pace
incompiuta.
Tale
impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi aspetti
più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo assumono devono
mettere in conto il rischio di trovarsi “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt
10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di ricevere rifiuto, ostilità,
persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma, come Cristo risorto, i
discepoli continueranno portare al mondo il saluto di pace (cf. Mt
10,12s), a dire con efficacia: “Pace a voi” (1 Pt 5,14), così che la
pace augurata diventi dono maturo.
La
pace: dono di Dio e frutto del perdono
19.
- L’ascolto dell’invocazione umana alla pace e della risposta che ad essa
offre l’amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e tremenda: il
perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e domanda di riparazione
e riconciliazione; non distrugge la memoria di ciò che è accaduto, ma proprio
perché non dimentica, può misurare per intero l’irreparabilità del dolore e
della violenza e compiere il miracolo dell’andare oltre. L’uomo che tenta di
chiedere o di dare il perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per
compensare il male inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo
respiro può bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo
d’amore.
La
via del perdono rimane comunque una via che appare talora assurda per l’uomo,
e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle sue forze. Il perdono invece
corrisponde sì a una delle aspirazioni umane più profonde, ma è anzitutto
dono e grazia da accogliere, perché è attributo dell’amore di Dio. Dio
infatti perdona perché sua è l’onnipotenza dell’amore che crea ogni cosa
e, sola, può ri-fare il cuore traviato dell’uomo. Gesù di Nazaret manifesta
tale onnipotenza perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male
fisico dell’uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente
ogni male e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
Non
si può dunque annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il
nostro perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la
preghiera del “Padre nostro”; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e lo
impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di riconciliazione,
di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel suo nome lo doniamo, per
rinnovare il miracolo di una nuova creazione che cancella l’inimicizia nel
mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che prometteva settanta volte sette
vendetta, si impone il comando di Cristo di offrire settanta volte sette il
perdono (cf. Mt 18,21s).
Parte terza
PER
UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE
20.
- L’invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere tradotta in
coerenza di vita; il dono della pace che viene dall’alto attende di essere
accolto e custodito. La via da percorrere è quella dell’educazione alla
pace, perché su questa via la pace diventa possibile.
Ci
si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi siano maturi per tale
progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti i segni della speranza sono
visibili nella nostra storia e il “vangelo della pace”, che abbiamo
condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi si lascia raggiungere da Cristo,
a ogni uomo e donna di buona volontà. È dunque possibile, ed è necessario,
che l’educazione alla pace diventi una scelta decisa.
Ora
si può “imparare la pace” anzitutto esercitandosi a praticarla ogni giorno,
all’interno di ogni relazione e in ogni àmbito di vita. L’educazione alla
pace però si propone pure come processo esplicito, intenzionale e permanente,
che prevede spazi di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente
strutturati all’interno dell’itinerario educativo globale. Ci sono poi
contesti umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo
sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far crescere
uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e consapevole.
L’educazione
alla pace deve quindi anche tradursi in un progetto formale, che
determini gli obiettivi e le condizioni per il loro raggiungimento, individui i
soggetti da chiamare in causa e i percorsi da compiere. Tale progetto deve però
nascere come esito condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le
diverse opzioni culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi
alla crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo sembra
utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri àmbiti e ad
altre competenze l’individuazione di itinerari più precisi e specifici.
Il
contesto sociale dell’educazione alla pace
21.
- Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale che offra le
condizioni necessarie per un’esperienza quotidiana di relazioni costruttive e
per una proposta educativa non resa vana dalle circostanze nelle quali si
compie. In continuità con il precedente documento Educare alla legalità
quindi, si vede necessario mettere a fuoco l’esigenza di promuovere
un’adeguata cultura della regola, al di là di ogni prospettiva
puramente formale. L’illegalità infatti è nemica della pace e ogni giorno
verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa
organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e
di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto
delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell’economia.
La
cultura della regola (o della legalità) diventa invece via di educazione alla
pace anzitutto e normalmente attraverso la prevenzione, ma anche proponendo vie
di riconciliazione là dove le contese già insorte chiedono una soluzione
pacificante e non soltanto tecnica. In questa linea il mondo della legge ha
introdotto la figura del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre
meglio il volto del compositore dei conflitti, non l’immagine tradizionale di
chi alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il
processo penale va incoraggiata la ricerca di “mediazioni” che - accanto
alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non c’è spazio
per la composizione - pongano attenzione al tema della riparazione, non per
risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire uno spazio di incontro e di
possibile pacificazione fra il reo e la sua vittima.
Lo stesso fenomeno del “pentitismo” dovrà sempre meglio configurarsi
dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo determinante anche la
proposta evangelica del perdono.
In
ogni caso ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte
minima della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per
questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori familiari, altre
iniziative di volontariato per l’“ascolto”, alle quali può contribuire
anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini a sanare le fratture e a
evitare il senso della sconfitta che diventa voglia di rivalsa. Infatti quando
un equilibrio infranto si ricompone per una scelta non subìta ma condivisa, un
reale esercizio di pace si è compiuto.
22.
- Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura politica
che sia supporto autentico all’educazione alla pace. La competizione anche
dura è parte integrante del gioco politico, ed è anzi garanzia della
democraticità del sistema. Quando però la competizione non si colloca sul
piano del confronto democratico fra progettualità diverse e assume le forme
dell’aggressione personale e della contrapposizione preconcetta e senza scambi
fra blocchi, o quando diventa l’arena di singoli protagonismi o di interessi
di parte, allora la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il
senso dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della
politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate sullo
scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a far ritrovare
alla politica il suo profilo alto, che significa capacità autentica di
governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in spirito di servizio nei
confronti del bene comune e nel contesto di una globalizzazione sempre più
ampia dei problemi e dei rapporti.
Ci
sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della politica
devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti di educazione alla
pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della partecipazione,
attraverso la definizione di un sistema compiuto di autonomie, che faccia
arretrare lo stato dall’invasione burocratica della società civile e riapra
la “vicinanza” e la corresponsabili fra cittadini e istituzioni. La seconda
riguarda la capacità di comporre le autonomie in un quadro unitario di
responsabilità e di solidarietà, che garantisca in tutto lo Stato eque
opportunità di sviluppo e non abbandoni i rapporti reciproci alle spinte
egoistiche locali o di gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di
uomini liberi e responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di
condivisione e di scambio.
23.
- Una terza condizione per l’educazione alla pace è lo stabilirsi di un
contesto caratterizzato da un’economia per l’uomo e per la comunità.
Anche l’economia infatti è una realtà strutturalmente conflittuale, perché
si trova a soddisfare bisogni molteplici con risorse sempre limitate e perché
la distribuzione dei beni è talora inestricabilmente legata a rapporti di
forza. Già la precedente riflessione su Stato sociale ed educazione alla
socialità aveva messo in luce che molti conflitti sociali nascono proprio
dallo squilibrio nell’accesso ai beni della terra e possono essere affrontati
solo con la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il
problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l’avere è vissuto come
segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della condivisione
viene giustificato con il “merito” di chi ha accumulato beni con la propria
intraprendenza, anche se la bilancia del merito è spesso truccata da condizioni
di partenza disperatamente diseguali; quando la legittima soddisfazione dei
bisogni personali viene sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina
e sfruttamento sistematici.
Esiste
quindi un nesso profondo fra la pace e la “questione sociale” della giusta
distribuzione dei beni, secondo criteri dinamici di valutazione, che tengano
conto dello sviluppo tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di
reciprocità del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione
fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di Dio.
Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace sociale, non può
accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma deve contribuire
all’innalzamento generalizzato della qualità della vita, al rispetto
dell’ambiente e alla diffusione dei beni spirituali, che salvano dalla
tristezza del consumo diventato costrizione priva di senso umano.
Una
particolare attenzione va riservata al tema del lavoro, che si rivela
sorgente continua di conflitti e postula il confluire delle rivendicazioni
contrapposte in un "patto" condiviso. Appare dunque provvida la rete
di regole dettate direttamente dallo Stato a tutela di diritti non negoziabili
che toccano l’integrità e la dignità della persona che lavora (rifiuto delle
discriminazioni, difesa della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale
rete però si pone il campo della contrattazione collettiva, nel quale si
definiscono altre regole di condotta, non imposte dall’alto ma generate dal
consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che lo
strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi divergenti in un
obiettivo comune; a stipulare accordi che non dimentichino o cancellino le
giuste rivendicazioni di altri settori, magari troppo deboli per farsi sentire,
come quello dei senza-lavoro. Il controllo dell’asprezza del conflitto e del
suo dilagare sociale, chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta
adeguati al fine, senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si
ritorcano contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla
reale controparte.
24.
- Ma c’è un’ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente necessaria
per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non semplicemente
come gestione di mezzi informativi, ma come via privilegiata alla fraterna messa
in comune dei pensieri, dei sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro
libero dall’inganno e dalla violenza.
Esistono
infatti conflitti interpersonali, generazionali e sociali che derivano o sono
resi più acuti da una comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa
necessario approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione
alla pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano
personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca
continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che non
prescinde dalla domanda sull’Assoluto; favorisce la formazione di convinzioni
e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette la condivisione e
l’interscambio di valori comuni in base ai quali costruire la convivenza, a
partire dalle comunità originarie; assicura il riconoscimento effettivo dei
diritti della persona e l’educazione a viverli in modo solidale e non
contrappositivo.
Sul
piano invece dell’organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione
educa alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di
crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo; rende
possibile un’effettiva integrazione tra persone e comunità, in un contesto
ormai definito di globalizzazione integrale del mondo; consente agli utenti di
non essere fruitori passivi e deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere
artefici e protagonisti di cultura nella propria comunità.
C’è
una comunicazione che educa alla partecipazione e quindi alla pace, perché la
partecipazione induce alla condivisione e alla corresponsabilità, genera
democrazia. C’è invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non
sanno e troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma
esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che minano alla
radice ogni reale possibilità di pace.
Obiettivi
per un progetto di educazione alla pace
25.
- L’articolazione di un organico progetto di educazione alla pace chiede la
definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che si presenti
strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi più propriamente
culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in altre sedi. È qui
sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e la prima riguarda
l’obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso comporta.
A
tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti di una tolleranza di
matrice illuministico-borghese, che presuppone un soggetto umano individuale così
sicuro di sè da poter “portare” (o sop-portare) l’altro e il diverso
“anche se” diverso, con magnanimità e distacco. Nella prospettiva invece di
una soggettività in relazione (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità
e il continuo definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l’altro
diventa un elemento di costruzione dell’identità individuale, “perchè”
diverso, in quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di
significato i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di
pace in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale,
interreligiosa.
26.
- Un altro obiettivo dell’educazione alla pace è individuabile nel “circolo
virtuoso” che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo
di ridurre i conflitti che si generano nell’accedere al banchetto dei beni
della terra. Infatti la globalizzazione e l’interdipendenza dei problemi
economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni
molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è
meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell’uso dei beni
(evitando sia l’accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta
distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in
una prospettiva di giustizia e non di elemosina.
27.
- Un’ultima indicazione può essere data circa l’obbiettivo
dell’educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono
un’esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro
presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti
per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra
opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei
diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di
sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno
faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il
secondo si riferisce all’assunzione competente e responsabile del metodo
democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente
con la forza dei numeri, ma con l’accettazione sincera e consapevole di una
regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero
possibile di persone.
Luoghi
e soggetti dell’educazione alla pace
28.
- In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e con forza la
responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale della vita,
cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa l’educazione alla pace
inizia con l’esperienza del “prendersi cura” della diversità di ciascuno
rispetto all’altro. Ciò accade anzitutto nella relazione coniugale, quando le
inevitabili ferite reciproche - tanto più crudeli perché inferte in un
contesto di “prossimità” intensamente voluto - vengono riconosciute
sinceramente e lenite nell’esercizio quotidiano della comprensione, della
riconciliazione, del perdono.
Il
percorso di accoglienza reciproca e di continua riconciliazione della coppia, ha
anche il potere di ripercuotersi positivamente sui figli, per sé esposti ai
traumi derivanti dalle tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati
come “ostaggi” o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del
“prendersi cura” dell’altro va però inserito anche il tema
dell’accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della denatalità
che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è contrario alla cultura di
pace perché spesso è segno di un conflitto fra la responsabilità verso una
nuova vita e la conservazione della libertà e del benessere personali; e perché
riduce le possibilità di sperimentare l’“essere fratelli” nel suo
contesto primario e naturale.
L’educazione
alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i
conflitti generazionali, tra genitori e figli, superando da una parte
l’autoritarismo che impone senza motivare e dall’altra la tentazione di
liquidare facilmente la saggezza maturata dall’esperienza di vita. Per questo
occorre definire regole semplici e condivise di vita familiare, dove ciascuno
possa conoscere e sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire
un dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l’impaccio delle
differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e amore donati
senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il “genio” femminile
dell’educare alla pace, perché la contiguità della relazione educativa con
quella connessa al dono della vita (fin da quando essa è custodita nel grembo)
può fondare un rapporto che porta in sé l’offerta e la certezza
dell’essere accolti e amati.
Infine,
la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica, in nome
della propria quiete, e diventa luogo nel quale trovano risonanza, ascolto e
risposta le sofferenze e le attese del mondo, con la collaborazione di tutti i
membri. Ciò comporta scelte quali la determinazione del livello di benessere
familiare con attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse
possedute; la disponibilità a mantenere nell’àmbito familiare i membri che
hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di affido, di
adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità negli spazi di
partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in quelli che richiedono
l’esperienza di coppia o di genitori (scuola, consultori matrimoniali, ecc.).
Ovviamente, perché la famiglia possa far fronte alle proprie responsabilità
verso la vita e verso l’educazione, occorre anche una politica familiare che
risponda all’esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure
parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del diritto alla
casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa, anche in riferimento
alla scelta scolastica.
29.
- Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede il
coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta
sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della
famiglia per proseguire l’educazione alla pace, attraverso un intervento
pedagogico che ha al suo centro l’esperienza culturale. Tale compito (dal
quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur con la specificità
che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi concreti nei quali sono vissute
le relazioni scolastiche e nei quali la scuola si inserisce nel più ampio
contesto sociale, coinvolgendo i diversi soggetti in una prospettiva di
“comunità educante”. Si può allora “imparare la pace” a scuola,
vivendo processi effettivi di partecipazione, democrazia e responsabilità nel
lavoro, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è
più debole ed evitando che l’apprendimento diventi puro spazio di
competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che
strumento di relazione e di aiuto reciproco.
In
secondo luogo la scuola risponde al progetto di educazione alla pace con
l’offerta di un “sapere per la vita”, identificato nell’apprendimento
dei percorsi cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il
distacco critico e l’autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà
e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa ovviamente che
il tema della pace debba configurarsi come contenuto di una particolare
disciplina scolastica. È invece necessario che nella didattica e nei contenuti
dei diversi saperi siano fatti emergere esperienze comunicative, quadri di
riferimento e significati valoriali che possono dar vita a un’organica cultura
di pace. Nella programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere
utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare organicamente il
tema della pace nel contesto della ricerca storica, letteraria, religiosa,
filosofica, economica, geografica, ecc.
30.
- L’educazione alla pace costituisce però un itinerario di formazione
permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle quali si realizza
lo sviluppo integrale della persona umana, valorizzando anche dimensioni
interiori e “gratuite”, quali la contemplazione, la creazione e ri-creazione
estetica, la riflessione sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti
sociali del conflitto.
Per
questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e complesso mondo
dell’associazionismo, nel quale le persone di ogni età si raccolgono
spontaneamente per rispondere al bisogno di continua crescita personale, di
comunicazione e di socializzazione, di cultura, di esperienza religiosa, di
sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a disposizione competenze ed energie
in varie forme e organizzazioni di volontariato sociale e di impegno civile,
sindacale e politico. Anche tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi
esperienziali, animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad
ogni livello.
Comunità
cristiana e educazione alla pace
31.
- La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e di sorelle
riconciliati per grazia dall’amore di Dio, nonostante le continue resistenze e
cadute, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo e con l’opera
incessante dello Spirito di carità e verità. Essa quindi risponde
all’invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e celebrando nella storia
il mistero della pace che viene dall’alto, e sottoponendosi alla sua potenza
rinnovatrice per rendergli testimonianza davanti a tutti.
I
segni di questo cammino sono dunque l’ascolto della Parola, che convoca
l’umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la partecipazione,
soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del Sangue di Colui che ha dato
se stesso per riconciliare i dispersi; la gioiosa esperienza del perdono del
Padre, reso presente nel sacramento della riconciliazione; l’appartenenza a
una comunità che vive, custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti
poveri e compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di
Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare sul
mondo uno sguardo che riconosce in ogni “ultimo” la presenza di Colui che si
è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire gesti di carità che
diventano annuncio e svelamento del volto di Dio, perchè solo a Lui sia resa
gloria.
L’esperienza
del dono divino della riconciliazione, accolto e testimoniato, diventa per la
Chiesa possibilità concreta di uno stile di vita che educa alla pace.
a) Il dono della
pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va accolto in modo particolare
nella liturgia, dove Dio attualizza il suo fare grazia. È quindi importante
valorizzare i segni liturgici che esprimono e fanno sperimentare il dono
e l’impegno della pace, in particolare nella sequenza penitenziale di gesti di
riconciliazione che preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio
e da essa promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova
il suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria,
nelle occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione della
Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per ogni età e
condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi, associazioni e
movimenti ecclesiali, nelle “scuole di pace” promosse dalla comunità
ecclesiale.
b) Le comunità
cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso i problemi della pace
nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su di essi un discernimento
sapienziale di fede, dal quale derivino motivi di conversione e di impegno;
e esprimere nei loro confronti prese di posizione e gesti di partecipazione visibili
e coerenti, anche incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza,
dell’obiezione di coscienza, dell’autotassazione a vantaggio dei poveri ecc.
Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali parrocchiali
e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei laici cristiani e
delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo fiducioso e collaborativo con
i movimenti e le organizzazioni a favore della pace che operano nella società
civile.
c) Nella comunità
cristiana si incontrano gruppi e persone che interpretano in modi diversi
il cammino di fede e il rapporto con il mondo; non di rado tale diversità
diventa motivo di dubbi incrociati e di scarsa collaborazione, rischiando anche
di rendere meno efficace la testimonianza della comunione. Lo stile di
pace esige allora che ogni posizione accetti di subordinarsi al discernimento
della Parola, della comunità e dei Pastori, così che ogni dono dello Spirito
venga riconosciuto e armonizzato nell’unità della comunione e della missione.
In tal modo il pluralismo diventa ricchezza e non conflitto, nella continua
tensione di ricerca che sa coniugare verità e carità e si dirige verso
l’unità in Cristo. All’interno di questo cammino ecclesiale, le comunità
di vita consacrata possono rendere efficace la loro testimonianza evangelica
offrendo l’immagine di un’umanità nuova, convocata nella fraternità non
per la forza dei legami umani, ma per la potenza della comunione che viene da
Dio. La fatica e la gioia della continua riconciliazione nella comunità si
amplia poi nel dialogo ecumenico ed interreligioso, che -nelle sue varie
forme e organizzazioni- si sta oggi rivelando come una delle fondamentali vie di
pace, attraverso l’incontro nella preghiera, nella riflessione e
nell’impegno.
d) La comunità
cristiana riconciliata diventa capace di incontrare gli uomini e le culture
del proprio tempo con un atteggiamento di rispetto e di “compagnia”. La
Chiesa infatti esiste non per sé, ma per annunciare e testimoniare il vangelo a
ogni creatura, così come lo ha ricevuto dal suo Signore e Maestro. Ma la
testimonianza resa alla verità non può diventare motivo perché uomini e
movimenti di idee si sentano esclusi e non riconosciuti nel cammino di pace che
coinvolge tutti e all’interno del quale matura il progetto divino di
riconciliazione che chiamiamo regno di Dio. In questa prospettiva anche il progetto
culturale che sta maturando nella Chiesa italiana diventa contributo
all’educazione alla pace non solo assumendo il tema della pace come
riferimento valoriale decisivo, ma anche proponendo uno stile e forme concrete
di dialogo e di interscambio che favoriscano un confronto pacificante e
arricchente fra le diverse anime culturali del paese.
Conclusione
32.
- Il nostro tempo riconosce nel papa Giovanni Paolo II uno dei più
appassionati educatori delle coscienze e dei popoli alla via della pace. Il suo
magistero, specialmente nei messaggi per le Giornate mondiali della pace,
rappresenta un itinerario che ripercorre tutti i singoli tratti del progetto
educativo che si è tentato qui di delineare. Nel crepuscolo di questo
millennio, le sue invocazioni e i suoi gesti di perdono e di pace mettono in
crisi le sicurezze di chi pensa che il primo passo tocchi sempre agli altri e
richiamano ogni uomo e ogni nazione a far nascere gesti coerenti da un cuore
riconciliato. L’invito che egli fa risuonare per un Giubileo che rimetta ogni
debito e ridoni a ciascuno dignità e fraternità, risuona come una voce nitida
e solenne che indica con sicurezza il cammino della pace: “Alla crisi di
civiltà occorre rispondere con la civiltà dell’amore, fondata sui valori
universali di pace, solidarietà, giustizia e libertà, che trovano in Cristo la
loro piena attuazione” (Lett. apost. Tertio millennio adveniente, 52).
Mentre
nel cammino verso la celebrazione del Grande Giubileo del 2000 stiamo vivendo
l’anno dedicato allo Spirito Santo e ci apprestiamo a contemplare nel prossimo
anno il mistero del Padre, vogliamo riaffermare la nostra fede in Cristo, pace e
riconciliazione per tutti, Lui che è “la luce vera, che illumina ogni uomo”
(Gv 1,9). È lui il dono che il Padre, per mezzo dello Spirito, offre
all’umanità chiamata vivere il mistero della comunione trinitaria. Celebriamo
l’Incarnazione redentrice del Verbo e chiediamo che il Padre di ogni
misericordia e riconciliazione, il Figlio “principe della pace”, lo Spirito
Santo che è amore facciano diventare doni per tutti la giustizia e la pace:
“Allora il
deserto diventerà un giardino
e il giardino sarà
considerato una selva.
Nel deserto
prenderà stabile dimora il diritto
e la giustizia
regnerà nel giardino.
Effetto della
giustizia sarà la pace” (Is 32,15-17).