Un conflitto in punta di piedi
L’uccisione di 12 lavoratori nepalesi in Iraq nel mese di settembre ha fatto il giro dei mezzi di comunicazione di tutto il mondo, portando il piccolo e montuoso regno asiatico agli onori della cronaca per qualche minuto. Quello che i mezzi di comunicazione internazionali non dicono, però, è che la morte violenta di persone in Nepal, Paese dilaniato da otto anni da un conflitto civile caratterizzato da livelli altissimi di brutalità e violazioni dei diritti umani fondamentali, è notizia di tutti i giorni.
La “guerra del popolo” dichiarata nel 1996 dal partito maoista entrato in clandestinità con lo scopo di rovesciare la monarchia e instaurare un regime comunista, combattuta senza esclusione di colpi dai gruppi guerriglieri e dall’esercito del re Gyanendra, ha mietuto finora circa 10.000 vittime.
Un rapporto di Amnesty International, pubblicato il 31 agosto, giornata internazionale dei desaparecidos, denuncia un’impennata nel numero di persone fatte “sparire” dalle forze di sicurezza. Solo nell’ultimo anno sono stati denunciati all’organizzazione 378 casi di sparizione forzata: più che negli ultimi cinque anni messi insieme. A sparire sono contadini, insegnanti, commercianti, studenti, attivisti politici, giovani, donne, membri di minoranze etniche, sospettati di simpatizzare con i maoisti e portati via da agenti in borghese senza che se ne sappia più nulla. Alle sparizioni e agli arresti arbitrari ad opera delle forze di sicurezza fanno da contraltare i sequestri, individuali o di gruppo, da parte dei maoisti, di persone ritenute vicine alle forze di sicurezza o di quanti si siano rifiutati di pagare le “tasse di guerra” imposte da questi gruppi.
Un inferno quotidiano
Agguati, assassini e torture sono all’ordine del giorno. Lal Bahadur Tamang, un contadino di Ramechhap, è stato fermato da una pattuglia dell’esercito mentre portava al mercato uno dei suoi bufali. È stato ucciso sul posto perché sospettato di essere membro della guerriglia maoista. Ishwari Pandit è caduto in un’imboscata maoista mentre cercava di recuperare il cadavere del fratello ucciso: è sopravvissuto, ma ha riportato ferite su tutto il corpo, ha parzialmente perduto l’udito da un orecchio e non riesce più a dormire per il trauma psicologico delle torture subite. Deena Karki, una bambina di nove anni, stava giocando nella giungla con alcuni compagni quando è scoppiato uno scontro a fuoco. Finito lo scontro, i bambini hanno trovato una bomba inesplosa e se la sono portata a casa: quattro di loro sono rimasti feriti quando la bomba è improvvisamente scoppiata.
Cartoline da un inferno quotidiano dalle tinte dantesche, a volte anche troppo orribili da descrivere. Immagini che contrastano con quella del paradiso montano, tutto vette da conquistare e mistici silenzi, che viene proiettata all’esterno per continuare ad attirare un esercito di scalatori e turisti armati di zaino e scarponi… e dollari. Sembra paradossale, ma per il Nepal tenere nascosto il conflitto che lo dilania è almeno in parte una scelta. Nell’ambito di un’economia disastrata, che fa del Paese uno dei dieci più poveri al mondo, le entrate garantite dal flusso di stranieri che sciamano ogni anno verso l’Everest e l’Annapurna, ignari della tragedia che si consuma intorno a loro, sono fondamentali per lo Stato. E anche per i maoisti, che accolgono i turisti con murales di benvenuto e riscuotono dalle loro guide una tassa per l’accesso ai percorsi di trekking nel territorio sotto il loro controllo.
Si soffre e si muore, dunque, in Nepal, in punta di piedi, in silenzio, come per non disturbare. Intanto, sempre in silenzio, gli Stati Uniti della guerra al terrorismo post-11 settembre fanno affluire aiuti militari e la Gran Bretagna addestra le truppe del re Gyanendra. In silenzio si piazzano mine nei campi e sulle strade: mine prodotte industrialmente negli impianti dello Stato nepalese (uno dei 15 Paesi al mondo che continua a fabbricarne e uno dei 42 che ancora non hanno aderito al trattato internazionale che le mette al bando) o artigianalmente negli accampamenti maoisti, ma in entrambi i casi letali per una popolazione mortalmente intrappolata nel fuoco incrociato di un conflitto che non sembra avere sbocchi.
Nessuno è troppo forte per vincere
Secondo alcuni analisti, i maoisti non sono abbastanza forti per vincere, rovesciando la monarchia, ma sono troppo forti per perdere. Come dimostrano anche i recenti assedi alla capitale Kathmandu, i gruppi maoisti controllano una parte importante del territorio e godono di notevoli appoggi nel popolo in nome del quale combattono. Un popolo che vive per il 70% in povertà assoluta, oppresso da un rigido e spietato sistema di caste, abolito ufficialmente ma ancora fortemente radicato e sovrapposto in un complicato intreccio a un mosaico etnico composto da 61 etnie schiacciate dalla “hinduizzazione” imposta dalle classi alte. Un popolo, ancora, dove nascere donna significa un destino segnato da sottomissione, ignoranza (il tasso di alfabetizzazione femminile scende dal 66 al 30 per cento – raggiungendo addirittura il 7 nelle caste degli “intoccabili” dalit – “perché tanto il posto di una donna è in casa”), violenza (si calcola che in otto anni di guerra siano state fatte “sparire”, uccise o violentate almeno 15.000 donne) e sfruttamento sessuale.
Ma anche un popolo che, malgrado tutto, reagisce e si organizza. E cerca, attraverso il lavoro paziente, coraggioso e determinato dei gruppi per la difesa dei diritti umani, delle associazioni femminili e giovanili, delle organizzazioni che si prendono cura delle vittime del conflitto, di creare un’alternativa pacifica al circolo vizioso della violenza e del sopruso.
Simona Beltrami, Coordinatrice della Campagna italiana per la messa al bando delle mine