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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Alberto Bobbio

Caucaso senza negoziato, non è uno scontro di civiltà

"Italia Caritas" ottobre 2004

La questione del Caucaso non è mai entrata nell’agenda internazionale, in virtù della divisione del mondo stabilita a Yalta, assecondata da anni di Guerra Fredda e riproposta con grande temerarietà sulla scena geopolitica dopo l’11 settembre. È una di quelle crisi che ha rafforzato l’incubo del terrorismo solo perché è stata dimenticata. Il massacro della scuola di Beslan ne è stato un capitolo, una tappa verso il baratro di terrore e orrore in cui è precipitata una regione che alle spalle, e purtroppo anche davanti, ha solo funerali. Neppure si fa un buon servizio alla verità e alla soluzione del problema se si tratta la partita cecena, che del Caucaso è un piccolo pezzetto, come se fosse la frontiera della civiltà occidentale opposta all’Islam, baluardo dei valori democratici contro la barbarie. L’oblìo delle memorie porta allo scontro di civiltà e alla guerra di religione, fa solo il gioco del terrorismo e di chi intende combatterlo con la guerra. Dall’11 settembre in poi ogni nefandezza e ogni risposta alla nefandezza viene giustificata chiamando in causa l’estremismo jihadista, sicché c’è una parte del mondo che applaude, una che subisce e una parte consistente (dalla Cina all’India all’America Latina) che resta a vedere se alla fine può lucrare qualcosa.

Diplomazia cinica
Il Caucaso è uno di quei luoghi dove nessuno ha voluto sperimentare una soluzione attraverso il negoziato. Il mondo ha delegato la questione ai nuovi zar di Mosca, prima Eltsin poi Putin. In Iraq almeno ci sono state discussioni sulla guerra, alcuni paesi hanno espresso dissenso.

Invece la crisi del Caucaso assomiglia più a quella mediorientale: in pochi accettano di capire (senza indulgenza verso le forme barbare di un terrorismo disperato) la posta in gioco e il terreno dove la crisi affonda le radici. È troppo facile liquidare tutto come scontro di civiltà. Tuttavia conviene: ognuno ha le mani più libere e governi, guerriglieri e terroristi infilano senza tentennamenti orrori sempre maggiori. L’opinione pubblica piange, marcia, si indigna: pronta a digerire la prossima ferocia.

Il problema ceceno, e quello più ampio del Caucaso, traggono origine della pagine più tragiche della storia russa. Nessuno è mai riuscito, da Mosca, a normalizzare la Cecenia. Putin ha deciso di applicarvisi perché un eventuale successo restituirebbe alla Russia il ruolo di grande potenza che solo pochi amici, di solito interessati e poco amanti della verità, oggi le riconoscono.
Il momento può essere buono e il clima di scontro di civiltà e di religioni è in grado di favorire tale disegno. Così Putin ha presentato la lotta di un popolo come parte di un complotto del “terrorismo internazionale”.

Ma anche gli indipendentisti caucasici hanno sfruttato l’occasione per giustificare il ricorso a forme sempre più estreme di violenza per far parlare della questione. Attorno si gioca una partita diplomatica cinica e a volte anche meschina. Francia e Germania appoggiano Putin ed esibiscono l’amicizia come una solida alleanza da sbattere in faccia a Bush. L’Italia, con la sua diplomazia da Costa Smeralda, si preoccupa di mediare, dati anche i nostri interessi petroliferi nell’area.

Gli americani tacciono, perché le azioni dei terroristi e le risposte militari di Putin servono alla causa della lotta globale al terrorismo, alla politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca e alla sua rielezione. L’Europa, come sempre, è assente. Mentre nel Caucaso ci sono bambini che si rifiutano di aprire gli occhi per vedere il mondo che gli ha ucciso mamma, papà, fratelli e sorelle.

articolo tratto da IC logo

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