Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Giampaolo Calchi Novati

Convivere con i fondamentalisti

"Il Regno" n. 18 del 1994

Dopo il colpo di stato - annullamento del secondo turno elettorale del gennaio 1992 di fronte all’annunciata vittoria del Fronte islamico di salvezza -, la repressione e la guerra civile, il governo di Zéroual tenta il dialogo con l’ala meno radicale del FIS. La crisi economica e un islamismo non passatista. Istituzionalizzare l’islamismo radicale o islamizzare la politica? Vie contrapposte per ricomporre una società divisa.

Da una parte l’esercito e dall’altra il movimento islamista. Le spinte a favore di una «terza forza» in grado di fare da fattore di intermediazione e moderazione sono rimasti al livello di auspicio. Da una parte la continuità e dall’altra la frattura, ma in un contesto che realisticamente non può escludere nessuno dei due antagonisti. L’inizio di una trattativa - prima nascosta, segreta, quasi negata, e ora allo scoperto - significa anche questo. La possibilità di un compromesso che disinneschi il micidiale ingranaggio della guerra civile e rilanci il discorso democratico dopo il trauma del 1991-92 - con il braccio di ferro fra il regime (allora ancora sotto l’egida del FLN) e il Fronte islamico della salvezza (FIS), che, uscito vincitore dalle elezioni che aveva chiesto con tutti i mezzi, fu bloccato e messo al bando - è iscritta nella storia dell’Algeria e direttamente nelle modalità tumultuose e non lineari in cui si è realizzato il processo di emancipazione dal colonialismo francese e di riappropriazione della sua identità e della sua cultura.

Non è un caso che il fondamentalismo islamico - dall’Iran all’Algeria - sia più virulento in presenza di una modernizzazione in atto, con un intreccio spesso malsano fra solidarietà di tipo tradizionale, familiari o altro, e legami basati sulla distribuzione delle ricchezze e dei servizi partendo dal centro. Con il suo esperimento di crescita industriale e di socialismo, l’Algeria aspirava ad essere un modello per il terzo mondo. Ma già nel Maghreb, paradossalmente, si è dimostrata più «stabile» la formula autoritaria di Hassan II, che a confronto può apparire immobilistica, perché il paternalismo della corte, l’osservanza a fini conservativi della tradizione, le qualifiche sacre di un sovrano che è nel contempo «comandante dei credenti» hanno assicurato al Marocco una certa continuità storica.

Il Fronte islamico riaccreditato
Il provvedimento che in qualche modo ha «accreditato» il FIS - eventualmente per isolare l’ala più dura degli islamisti, rappresentata dal GIA (Gruppo islamico armato), ma intanto per accettarlo come interlocutore preferenziale - è stato il rilascio, il 13 settembre scorso, dei suoi due massimi dirigenti, Abassi Madani e il suo vice Ali Benhadj, condannati nel luglio 1992 a 12 anni di carcere per cospirazione contro lo stato. È stata solennemente smentita così la linea di chi - guerra contro guerra e atrocità contro atrocità - aveva insistito per una soluzione puramente militare. Non è immaginabile «vincere» il FIS o il GIA, non come etichette, che possono cambiare per ragioni di comodo o di sostanza, e che possono scomparire, ma in quanto espressione di una parte almeno del popolo algerino, il quale naturalmente non è una variabile da cui qualcuno, nemmeno la corporazione militare, possa prescindere.

Il presidente Liamine Zéroual, succeduto nel gennaio scorso al prestigioso ma innocuo Ali Khafi e più indietro ancora a Mohammed Boudiaf, assassinato nel giugno 1992 quando aveva appena avviato la sua opera di riformatore teoricamente accettato da tutti, si era incontrato in prigione con Abassi prima di essere chiamato alla massima carica dello stato: la sua decisione distensiva conferma che, malgrado la spirale della violenza non si sia mai arrestata, egli interpreta il suo mandato nel senso della riconciliazione più che in quello della repressione. L’obiettivo è di dar vita a un nuovo «patto nazionale». Quello sancito dalla guerra di liberazione, e che sembrava ineccepibile anche nel momento in cui - come è avvenuto di fatto con la grande rivolta dell’ottobre 1988 nelle strade di Algeri e delle altre maggiori città - fossero svaniti i motivi che a suo tempo erano stati addotti dai capi del Fronte di liberazione nazionale per giustificare il partito unico, si è dissolto togliendo al FLN l’antica legittimità «rivoluzionaria» e lasciando un vuoto proprio al centro del sistema. Non basterà a colmarlo una riforma costituzionale; l’inferiorità sociale di una così larga parte della popolazione algerina è di per sé antitetica all’avveramento della democrazia se la democrazia non vuole essere pura forma. Contro lo stato, ritenuto non all’altezza delle sue responsabilità, si è concentrata l’ostilità o la diffidenza di larghi strati dell’opinione pubblica, d’accordo o no con il revivalismo islamico e con i crimini dei terroristi. Poiché la posta in palio è lo stato, un accordo sulle regole per accedere al potere e al controllo delle risorse è comunque uno snodo obbligato, che, a meno di non pensare a un successo sul terreno con le armi, non può essere eluso né dal governo né dall’opposizione.

Formalmente, le due parti muovevano da pregiudiziali che stando alla lettera erano fra di loro incompatibili. Il governo chiedeva in pratica la rinuncia alla violenza e la sconfessione del terrorismo. Il rischio, nella speranza di sottrarsi all’assedio, era di cercare i propri referenti fuori dell’Algeria, magari sfruttando la giustapposizione Francia-Stati Uniti (con la Francia schierata per la resistenza a oltranza contro il montare dell’islamismo e gli USA più possibilisti, convinti, come l’Italia, che l’islamismo è una componente ineliminabile sul lungo periodo e che vanno tentate perciò tutte le strade compresa quella della trattativa). Soprattutto Zéroual ha avuto il merito di non commettere un simile errore, anche se il dialogo in sede di Conferenza nazionale (inaugurata il 25 gennaio) è stato boicottato e si è arenato. Il FIS, dal canto suo, pretendeva la soppressione delle leggi eccezionali, un’amnistia generale, la sospensione di tutta l’attività inquisitiva e l’insediamento di una commissione sovrana per la designazione di un governo neutrale.

Dal popolo alla società civile
Chi ha ceduto per primo? Chi ha fatto più concessioni? L’Algeria, al pari di altri paesi arabi o africani, sta sperimentando la transizione da una concezione politica centrata su un «popolo» monolitico (la liberazione nazionale, l’anticolonialismo) a una concezione che teorizza l’esistenza di una «società civile» articolata con interessi differenziati, ed è la gestione di questa transizione che sta logorando i vari protagonisti dopo che la politica del FLN, dal 1962 in poi, ha scientemente favorito la spoliticizzazione di massa per non turbare la costruzione, quasi ossessiva, dello stato amministrativo. Le due parti sono prigioniere della propria ideologia. Il FIS fedele a un disegno unitario che trascende il territorio per rivolgersi alla «comunità» (musulmana), non vuole allontanarsi troppo dal proprio linguaggio, che mette in discussione non solo il regime o i regimi ma la stato in sé. Gli uni e gli altri sanno che è in giuoco la propria credibilità, rispettivamente di depositari dell’autorità e di interpreti dell’islam, ma se la prospettiva è l’inclusione e non l’annientamento dell’avversario, questo aspetto perde un po’ della sua perentorietà.

Alla base della politica del Fronte di liberazione nazionale, guida indiscussa dopo l’indipendenza, c’era una scelta di «civiltà» che scontava l’emulazione dell’occidente (o del Giappone, come si usava dire, per non mostrarsi troppo succubi alla cultura dell’ex-potenza coloniale). Dall’industrializzazione accelerata a cura dello stato imprenditore e gestore sarebbe derivato lo sviluppo anche per i settori rurali: nuovi impieghi, travaso di tecnologia, materiale più avanzato per preparare il passaggio alla modernità dell’intera nazione. È facile dire oggi che l’impostazione del dirigismo e dello statalismo, nonché dell’industrialismo, era irrimediabilmente sbagliata. Nel suo contesto storico, era perfettamente funzionale alle finalità della «liberazione» fatta presagire dalla decolonizzazione, che non doveva limitarsi infatti all’indipendenza. Finché i prezzi degli idrocarburi restarono alti, l’Algeria aveva a disposizione i fondi per sostenere pressoché autonomamente quella crescita e per far arrivare i benefici del Welfare, ben oltre la cerchia dell’oligarchia o dei suoi clienti, anche a chi faticava a entrare nel circuito più remunerativo.

Personalmente, Houari Boumediène, al potere dal 1965 al 1978, passava per dirigente austero e inflessibile. La sua silhouette triste evocava più i sacrifici che l’opulenza. Alla sua ombra si diffusero però l’affarismo e l’inefficienza, la corruzione dei notabili del regime e gli sperperi a tutti i livelli. A metà degli anni `80 l’Algeria fu costretta a un brusco risveglio. Per citare solo un dato, il debito estero, che era di un miliardo di dollari nel 1970, salì a 16 miliardi nel l980 e a 24-25 miliardi nel 1988 (in gran parte con banche private). L’Algeria impegna ogni anno i tre quarti della rendita petrolifera per rimborsare il debito: uno sforzo che non ha precedenti se si eccettua forse il caso estremo della Romania negli ultimi anni del regime di Ceausescu.

Economia: il fallimento della liberalizzazione
La liberalizzazione dell’economia avviata da Chadli Bendjedid, il successore di Boumediène, ebbe l’effetto di smantellare i pilastri dell’economia nazionale e lo stato sociale aggravando la vulnerabilità dei ceti deboli, dei giovani, delle masse espulse dalla campagna abbandonata a se stessa dalla politica e dalla cultura dominante.

L’Algeria si prestò volontariamente, utilizzando lo studio di un’équipe relativamente omogenea che aveva lavorato fuori da ogni dipendenza burocratica, all’«aggiustamento strutturale» che in genere viene imposto d’imperio dalla Banca mondiale e dal FMI. La congiuntura era pessima: fine della «bonanza» petrolifera, rivelazione su scala mondiale della crisi del debito, recessione in Europa e nell’occidente, protezionismo selvaggio dei partners potenziali. E intanto la popolazione aumentava e aumentavano la disoccupazione e l’inflazione. La classe operaia algerina si era formata in Francia e il rientro immetteva sul mercato del lavoro uomini e, in misura minore, donne che avevano una specializzazione e si erano abituati a consumi e comportamenti che il sistema produttivo algerino non era in grado di soddisfare. Il tasso di disoccupazione, stimato al 18% nel 1977, era del 21,4 nel 1984 e del 25 nel 1990, per l’85% giovani di meno di 30 anni, toccando per la prima volta persone che avevano avuto un lavoro nel mercato regolare.

Fin dalla sua costituzione il FLN, in fama di partito «laico», aveva elevato l’islam a caposaldo della sua dottrina e a religione di stato. La «nazionalizzazione» dell’Algeria ai fini della guerra contro la Francia o dell’affermazione del FLN come partito-stato doveva essere unitaria, in modo da non ammettere un vero pluralismo e da non suscitare il bisogno di forze politiche concorrenti, e ai fini dell’unità non si poteva fare a meno dell’islam. «Per servirsene», è il commento di Hocine Ait Ahmed, uno dei «capi storici», ancora sulla breccia e strenuamente all’opposizione. Forzando un po’ i termini, Ben Bella, un altro superstite della leadership che indisse la rivolta armata nel 1954, asserirà che il fondamentalismo islamico era intrinseco alla lotta di liberazione. ll populismo algerino, in effetti, ha una tradizione collaudata in cui l’islam figura accanto all’arabo fra i valori essenziali. Già Ben Badis, negli anni `30, aveva sentenziato: «L’islam è la mia fede, l’Algeria è la mia patria, l’arabo è la mia lingua». Niente come l’islam poteva preservare gli algerini dalle false promesse dell’Algérie française e dalla tentazione dell’assimilazione nella cultura francese. Anche i berberi, la componente «altra» rispetto agli arabi o arabizzati, immuni apparentemente dal contagio islamista, professano la religione del Profeta.

Per un verso, il richiamo del FIS alla legge coranica, e la sua lotta per edificare uno stato islamico, è coerente con questi precedenti. Per un altro, e nonostante l’arabizzazione preventiva introdotta dallo stesso FLN per evitare il peggio, lo stato islamico - ammesso che uno stato islamico sia mai esistito e che sia possibile ricostituirlo - è esattamente all’opposto di quello pianificato da Boumediène e Chadli. Lo scontro fra le due idee di stato è assoluto, ma il FIS incomincia là - il fallimento della modernizzazione -dove finisce il FLN. Le eventuali convergenze fra i due partiti sono annullate dalla sfasatura cronologica in cui si trovano a operare. Il fatto che l’Algeria laica e progressista si identifichi largamente nell’elemento berberofono, predominante nell’indomita Cabilia, aumenta i pericoli di una crisi verticale.

Fondamentalismo come ricordo dell’avvenire
Il fondamentalismo nella versione algerina non va scambiato come un puro e semplice ritorno al passato. Non è una manifestazione di retroguardia, uno sfogo di primitivismo. Il FIS compete con il FLN o con l’esercito perché il terreno di esplicazione è lo stesso: il progresso dell’Algeria, ma contrapponendo i principi dell’islam (e un passato spesso mitizzato o mistificato) agli interessi (e a un presente oggettivamente deludente). È il fenomeno che Jacques Berque chiama del «ricordo dell’avvenire». Il tentativo degli islamisti è drammatico perché disperato: ricollegare l’Algeria alla sua storia senza farla uscire dal flusso della storia universale. La stessa funzione dell’arabo, ridotto a lingua per la preghiera o la teologia, dovrebbe essere rivalutata per farne la lingua in cui l’Algeria pensa il suo futuro nella scuola, negli uffici, nei posti di lavoro, senza tagliarsi fuori da quel mondo a cui ha più facile accesso grazie al francese, che a suo modo è pure un dato irreversibile, e più in generale alla cultura europea, che è penetrata in profondità nella società e nella coscienza degli algerini.

L’islam non è solo una garanzia di identità collettiva: sentito come sinonimo di giustizia e di verità, aiuta a mobilitare il consenso e a rivendicare una «morale» che le élites non hanno esitato a trasgredire ostentatamente perché cosí voleva la moda. Come principale forza d’opposizione, il FIS contesta il potere dell’ex-partito unico, della casta che si è impadronita dell’amministrazione e dell’economia statizzata, e delle forze armate, e rappresenta gli esclusi, coloro che sono ai margini del sistema.

La guerra del Golfo e l’intervento americano nel Medio Oriente hanno turbato gravemente le popolazioni dell’Algeria e del Maghreb, al di là di Saddam, consentendo all’islamismo politico di presentarsi come l’unico «bastione» contro l’aggressione e l’alienazione culturale a opera del mondo occidentale, che ha confermato nell’occasione la sua schiacciante superiorità materiale (le armi), ma anche la sua inguaribile doppiezza. È la crisi delle ideologie unificanti, come il socialismo o il non-allineamento, che - in coincidenza con questo moto di protesta - fa emergere la priorità della religione o della tradizione. In Algeria come in tutti i paesi musulmani l’assenza di una gerarchia ecclesiastica trasforma ogni conflitto fra stato e religione in una lotta fra lo stato e tutta la società. Si può dubitare della buona fede democratica del FIS, che ha spesso rifiutato di impegnarsi a garantire il pluralismo e che disprezza le istituzioni liberal-borghesi trasmesse dall’occidente, ma d’altra parte non è stato il FIS a mandare a vuoto la procedura di transizione che il regime aveva intrapreso per rilegittimarsi agli occhi della popolazione e del mondo (lo stesso colpo di stato, in fondo, doveva essere solo una pausa per poter riprendere da premesse più tranquillizzanti il processo di democratizzazione).

Islamizzazione della politica, istituzionalizzazione dell’islam
L’annullamento del secondo turno elettorale nel gennaio 1992 dopo la vittoria a valanga del Fronte islamico di salvezza al primo turno del 26 dicembre 1991, il colpo di stato e la proclamazione dello stato d’eccezione hanno provocato per reazione lo scatenamento della guerra civile (10 mila morti in due anni nei due campi in una serie terribile di attentati ed eccidi a cui il regime risponde con sommaria spietatezza). I terroristi colpiscono, dolorosamente, bersagli fisici che sono anche obiettivi simbolici: l’apparato repressivo, gli istituti dell’istruzione al servizio dell’ideologia ufficiale (non nel senso della propaganda, ma proprio nel senso della società da realizzare), gli intellettuali che si riconoscono nell’occidente in quanto espressione più compiuta del progresso e della modernità, gli stranieri (russi, francesi e, in subordine, italiani). Non si tratta solo di mettere in crisi lo stato. C’è anche la volontà di eliminare le realtà spurie e i corpi estranei. Non è azzardato un paragone con la «pulizia etnica» di cui sono accusati i serbi in Bosnia. Abassi Madani, un intellettuale poco predisposto all’azione diretta, difese fino all’ultimo la via parlamentare, ma il suo arresto e la condanna diedero un impulso decisivo alla violenza e anche il FIS prese ad armarsi per non lasciarsi sfuggire il controllo del movimento. L’«apertura» di Zéroual è intesa, se è ancora possibile, a riportare i rapporti fra lo stato e l’islamismo radicale alla situazione in cui erano nel 1991, prima della pantomima elettorale e dell’atto di forza dell’esercito.

Nessuno può prevedere le conseguenze in Algeria e nel Mediterraneo di una vittoria politica degli islamisti ad Algeri (o a Il Cairo). Ma non è detto che - anche se dovesse effettivamente conquistare il potere - il FIS sia destinato a realizzare il suo programma ideale, del resto poco visibile in tutte le sue proposizioni. Come è accaduto agli ayatollah iraniani dopo aver rovesciato il detestato regime dello scià, un governo islamico nonostante tutto sarebbe fortemente condizionato dall’esistente. Anche le riserve mentali sullo stato come entità sovrana - una volta che dovesse cimentarsi nell’esercizio della sovranità - non potrebbero durare oltre. Dopo tutto, la stessa Francia mostra di saper «convivere» con gli integralisti in altre parti del mondo arabo e musulmano (in Sudan per esempio). D’altro canto, se il negoziato riuscisse a «istituzionalizzare» la politica rimettendo in modo una procedura in cui si riconosca anche il FIS, la dualità - reale, non semplice riflesso dell’«estremismo» del FIS o del GIA - in cui si dibatte la società algerina, e che fu causa di grosse incomprensioni per tutto il periodo di gestazione del nazionalismo e del distacco dalla Francia, potrebbe essere finalmente sanata.

articolo tratto da Il Regno logo

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)