La chiesa rimane
"Il tempo presente è un tempo di transizione... spirituale. La gravità della situazione obbliga ciascuno, cristiano o musulmano, a superare il proprio modo di pensare per interrogare la propria coscienza sulle scelte da fare". La chiesa algerina deve esercitare il ""ministero dell'ascolto", poiché tanti uomini e donne cercano qualcuno con cui poter parlare e confidarsi". Essa deve anche "prendere parte alla resistenza di tutto il popolo per impedire che il ricorso alla violenza abbia la meglio sul rispetto della vita umana e dei diritti dell'uomo... La nostra vocazione è ormai centrata sull'essenziale". Il grave conflitto sociale e politico in atto in Algeria tra potere militare, società civile ed estremismo di matrice islamica, costituisce uno snodo epocale anche per la piccola comunità cattolica (cf. Regno-att. 16,1995,470). Nei due testi che proponiamo, due editoriali, rispettivamente del vescovo di Orano, mons. P. Claverie (doc. n. 1) e dell'arcivescovo di Algeri, mons. H. Teissier (doc. n. 2), si dichiara di rinunciare all'idea della presenza operosa, tipica degli anni che seguirono l'indipendenza; ora "senza armi né forza, noi restiamo, minoranza solidale con altre minoranze, oggi vittime come noi dell'ostracismo nazionalista e religioso" (Doc. n. 1: "Rester? Partir?", Le Lien, 229, febbraio 1995, ripreso da La Documentation Catholique 77(1995) 2117, 4.6.1995, 554ss. Doc. n. 2. "Lire notre histoire pour éclairer le présent et l'avenir", Rencontres, maggio 1995, ripreso in ib., 13(1995) 2119, 2.7.1995, 660ss.; nostre traduzioni dal francese).
1.Restare? partire?
Chi tra noi non si è mai posto questa domanda, in questi ultimi mesi? Sia che siamo algerini o stranieri, sia che ne abbiamo i mezzi o meno, dinanzi all'innegabile degenerazione della situazione e all'assenza di prospettive chiare o di scadenze precise, come non interrogarsi? Si tratta di stranieri, di parenti e di amici che ci sollecitano ad abbandonare la nave, che s'immagina in procinto di naufragare. Quante voci inquiete, al telefono, ci fanno affettuosamente sentire che restare non ha senso! Che cosa crediamo di dimostrare con la nostra testardaggine? Quanti amici, anche loro in Algeria, più angosciati per noi di quanto non lo siamo noi stessi, ci supplicano di metterci al sicuro per salvare la nostra amicizia e il futuro. Come non essere sensibili a queste sirene, mentre nello stesso tempo la partenza ci sembrerebbe un'avventura, soprattutto quando, come capifamiglia, non abbiamo altre risorse che quelle della nostra impresa o del nostro lavoro in Algeria. Le promesse di una nuova sistemazione o di un indennizzo sono talmente aleatorie. Quanto ai religiosi e alle religiose, i superiori e le superiore li spingono senza sosta a compiere un discernimento libero e lucido sulle loro ragioni per restare o per partire. Tanto che questo continuo interrogarsi finisce col minare la serenità dei più forti e dei più calmi. Talvolta proprio i responsabili ordinano ritirate collettive senza consultare i vescovi o gli altri cristiani che comunque sono tutti sulla stessa barca. Allora bisogna remare controcorrente per ottenere una sospensione per quelli che malgrado tutto vogliono restare, sia perché sentono confusamente che gli avvenimenti non cambiano per nulla la loro scelta di vita, sia perché pensano che morire qui sia meglio (per loro) che vivere altrove.
Partire? Alcune partenze sono già avvenute e altre continuano ancora. Sono addolorato per le decisioni di disimpegno collettivo, talvolta incomprensibili, da parte di congregazioni comunque legate all'Algeria da secoli o dal loro particolare carisma. Ma sono perfettamente consapevole della necessità che spinge tali persone, la tal comunità o il tal gruppo a partire, provvisoriamente o definitivamente: con la morte nel cuore. Fragili condizioni di salute, messe duramente alla prova da situazioni di tensione e avvenimenti tragici, minacce esplicite o implicite che mettono brutalmente da parte le nostre migliori ragioni di restare per "qualsiasi cosa avvenga". Paura che s'infiltra poco a poco nelle nostre difese e mina, giorno e notte, la nostra resistenza e il nostro coraggio. Presa di coscienza del fatto che vi è da qualche parte una sorta di errore di manovra nelle nostre vite e che noi non siamo fatti per vivere qui una simile prova. In queste condizioni, partire è una decisione assolutamente rispettabile e anche fortemente raccomandabile, perché la presenza e il futuro non sono possibili che per dei volontari per cui le ragioni per vivere hic et nunc sono più forti della loro paura (molto concreta) di morire qui. Se i vescovi ripetono che la chiesa in sé non deciderà mai di partire dall'Algeria, aggiungono sempre che con questo si intende la presenza cristiana collettiva. Ciascuno deve essere libero, psicologicamente e spiritualmente, di restare o di partire. Coloro i quali ci lasciano così, provvisoriamente o definitivamente, ci restano vicini perché, dicono, hanno lasciato un po' del loro cuore in Algeria.
Restare? Certuni non hanno scelta: legami familiari, necessità economiche, tutta un'esistenza investita, materialmente e affettivamente, in questo paese con il sentimento che si sarebbe stranieri in qualsiasi altro luogo, con magre risorse o nessun altro orizzonte professionale... Partire, per loro, è veramente morire. Essi condividono la vita e la sorte di milioni di algerini, e se sono esposti ancora di più, in quanto stranieri o cristiani, sono ancor più circondati da un calore umano e da un'amicizia che rendono sopportabile il rischio. D'altronde al momento dell'indipendenza gli stranieri fra loro avevano già fatto la scelta di restare e la confermano oggi, lucidamente... quando possono.
Ma che dire della chiesa, della sua presenza collettiva, strutturata, anche solo a livello simbolico, nei confronti delle altre chiese? Perché ostinarsi a restare quando l'Algeria e l'islam ci respingono?
Bisogna guardarsi dalle generalizzazioni in questo tipo di giudizio sulla situazione. In Algeria ci sono molti musulmani che ci respingerebbero volentieri e che ce l'hanno fatto sentire da molto tempo. Ma ce ne sono altri che contano anche sulla nostra presenza al loro fianco nello sforzo di mantenere l'apertura e il pluralismo in questo paese. Ogni minaccia, ogni lutto che subiamo provoca migliaia di testimonianze di amicizia e di solidarietà che ci incoraggiano a perseverare. Abbiamo ragione di credere che possiamo essere di aiuto con la nostra differenza, le nostre relazioni e il nostro lavoro, i nostri servizi e la nostra presenza discreta e rispettosa. In più, sembra che oggi la maggioranza della popolazione si sia messa in stato di resistenza e noi resistiamo con essa contro la violenza, l'esclusione e l'emarginazione, l'oppressione totalitaria, il rifiuto della differenza. Senza armi né forza, noi restiamo, minoranza solidale con altre minoranze, oggi vittime come noi dell'ostracismo nazionalista o religioso.
Siamo una chiesa e non solo un gruppo nazionale o politico, una ONG umanitaria o una multinazionale della cooperazione. Noi abbiamo altre ragioni di vita. In questo paese, come in ogni altro luogo, la chiesa intende essere segno dell'alleanza che Dio propone a un popolo. Se come noi crediamo Dio è amore, siamo chiamati a essere, in Algeria, dei segni di questo amore, così come Gesù ce l'ha rivelato operante in lui e intorno a lui. Non siamo qui per il nostro interesse, la nostra comodità o la nostra soddisfazione. E ancor meno come il personale di una amministrazione o di un'impresa, suscettibile di essere sostituito secondo i cantieri, i contratti, i benefici, le incertezze della politica e i rischi di sicurezza. I nostri "padroni" ecclesiastici o religiosi non calcolano (almeno spero) in termini di rendimento o di benefici da conservare o moltiplicare. Noi siamo qui proprio per spezzare questa logica del possesso, del dominio e del ripiegamento su se stessi, sui propri beni o proprietà individuali, etniche o religiose. La nostra storia in Algeria testimonia l'impoverimento a cui queste convinzioni ci hanno condotto e la ricchezza delle semine che così abbiamo effettuato. Sappiamo che cosa vuol dire la frase evangelica: "Se il chicco di grano gettato in terra non muore, rimane solo; se muore, porta molto frutto".
Niente, tranne noi stessi
E se d'altro canto noi siamo qui per significare che Dio è amore, come immaginare d'abbandonare l'Algeria proprio quando essa si dibatte in una crisi così grave? Come ha detto Bernard Lapize, questo è al contrario il momento di rimanere, anche se silenziosi e impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: l'offerta della semplice presenza che accompagna il sofferente solamente tenendogli la mano. Questo istante segna la nostra volontà di amare gratuitamente. Tutto quello che abbiamo fatto così bene, l'educazione, l'insegnamento, la formazione, le biblioteche, la cooperazione, il sostegno alle persone, il soccorso sociale... non aveva lo scopo di tenerci occupati in maniera utile o di attirare gli altri facendo colpo su di loro o seducendoli.
Tutte quelle cose acquistano il senso più proprio ora che non abbiamo più niente da dare tranne che noi stessi, e più niente da condividere se non la compassione. I calcoli troppo umani, oggi, rischiano di snaturare la motivazione profonda della missione cristiana: la chiesa non è al mondo per conquistarlo né per salvare se stessa con i propri beni e il proprio personale. Essa è, con Gesù, legata all'umanità sofferente.
Allora comprendiamo meglio perché la croce sia al centro di questa missione. Gesù è morto lacerato fra il cielo e la terra, con le braccia tese a riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li fa insorgere gli uni contro gli altri e contro Dio stesso. Egli si è messo sulle linee di frattura nate da quel peccato. Squilibri e rotture nei corpi, nei cuori, negli spiriti, nelle relazioni umane e sociali hanno trovato in lui la guarigione e la riconciliazione, poiché li ha presi su se stesso. Egli pone i suoi discepoli su queste stesse linee di frattura con la stessa missione di guarire e di riconciliare. La chiesa realizza la propria vocazione e missione quando è presente alle rotture che crocifiggono l'umanità nella sua carne e nella sua unità. In Algeria, noi siamo su una di queste linee sismiche che attraversano il mondo: nord/sud, occidente/islam, ricchi/poveri. Stiamo volentieri al nostro posto, perché è qui che s'intravvede la luce della risurrezione e, con essa, la speranza di un rinnovamento del mondo. Prendere la sua croce ogni giorno: noi lo sapevamo. I religiosi lo professano da molto tempo. La Quaresima ce lo ricorda ancora, nell'attesa della Pasqua.
vescovo di Orano
2.Leggere la nostra storia per illuminare presente e futuro
Alla riunione dell'Unione dei superiori maggiori e dei vescovi (USMDA, 16-17 marzo), padre Lapize, che sta per ritornare in Algeria, ci diceva: "A coloro che si meravigliano che io venga qui nonostante tutto quello che sta succedendo rispondo che vengo invece a motivo di quello che sta succedendo... perché ora ho la certezza di condividere con altri ciò che ho vissuto, di vivere, in qualche modo, il lato nascosto della nostra missione di sempre". Padre Lapize ha quindi sviluppato la propria riflessione e si è riferito soprattutto alla vita dei religiosi e delle religiose, tenendo conto del quadro in cui si situava il suo intervento (cf. Partage, 1995).
Ritengo utile prendere a esempio il suo atteggiamento per estenderlo a tutta la nostra comunità, al fine di illuminare il nostro presente e il nostro futuro, a partire dal cammino percorso dalla nostra chiesa dopo l'indipendenza.
Gli anni 1994-95 segnano infatti una rottura che per la nostra chiesa avrà lo stesso peso dei cambiamenti provocati nella nostra comunità dal passaggio dal periodo coloniale all'indipendenza. Nel 1962-63 quelli di noi che sono rimasti hanno scelto di vivere da cristiani in Algeria, insieme a un popolo che ormai definiva i suoi orientamenti politici sulla base di scelte proprie e di riferimenti culturali specifici. I laici che in seguito sono venuti a lavorare in questo paese erano forse spinti da motivazioni diverse: l'antica solidarietà con l'Algeria o con gli emigrati algerini, l'impegno nello sviluppo di un paese del Terzo mondo, l'amore per la luce, la sabbia e il sole, la ricerca del salario più abbondante accordato ai cooperanti, e così via. Ma quali che fossero le loro motivazioni di partenza, in quanto cristiani essi imparavano tutti a mettere le loro competenze a disposizione di un popolo diverso per nascita, per lingua, per cultura o per religione. Così si è formata una motivazione cristiana che ha dato un senso particolare alla nostra esistenza nell'Algeria indipendente. Il richiamo di Gesù alla carità fraterna è diventato, per noi in particolare, un invito a vivere la solidarietà con il popolo algerino, attraverso l'esercizio delle nostre professioni o l'impegno nel volontariato in ogni direzione (alfabetizzazione, sostegno scolastico, educazione sanitaria, formazione femminile, microsviluppo, servizi agli handicappati, ai bambini abbandonati, agli anziani, ecc.). Questo richiamo di Gesù, che invita noi, suoi discepoli, a farci vicini a quanti avrebbero potuto restarci lontani a causa della nostra storia personale o dei nostri riferimenti culturali o spirituali, è diventato una chiamata a conoscere e a comprendere la storia della nuova Algeria, con la sua lingua, con le sue scelte politiche ed economiche, con la nascita della sua nuova cultura letteraria, cinematografica, teatrale e artistica. Nello stesso tempo ci sforzavamo di raggiungere anche la vita quotidiana delle persone tramite le relazioni di vicinato e di condivisione. E, ciò che è più importante, tra cristiani e musulmani si sviluppavano rapporti di amicizia che rovesciavano barriere secolari. Uno dei campi significativi di questa familiarità fu quello della relazione islamico-cristiana. Questa si basava, nelle nostre riunioni liturgiche, su una preghiera che intendeva essere solidale. In alcuni casi favorevoli essa sfociava in incontri più organizzati, o meglio ancora, in momenti privilegiati durante i quali la comunione delle domande e delle aspirazioni permetteva una vera empatia tra i credenti, cristiani e musulmani, come tra uomini di buona volontà di cultura cristiana o musulmana. Per noi l'alleanza con Dio passava attraverso l'alleanza con un popolo.
Vocazione ecclesiale universale
Ci è stato dato di vivere questa vocazione della nostra chiesa con cristiani di origini molto diverse: il piccolo gruppo degli europei d'Algeria o quello dei cristiani di paesi che scelsero di restare in Algeria dopo l'indipendenza; il gruppo più grande delle spose cristiane di algerini, spesso francesi, ma a volte appartenenti anche ad altre nazionalità. Questa vocazione cristiana alla relazione interculturale e al lavoro per lo sviluppo fu poi contrassegnata dal nostro sforzo di raggiungere le ondate successive di cooperanti, tecnici, insegnanti, medici o lavoratori dei cantieri. Abbiamo anche conosciuto il rinnovamento dato alla nostra vocazione in Algeria dalla nostra condivisione con copti, cristiani siro-libanesi di tutti i riti, spagnoli, italiani, polacchi, belgi, tedeschi, inglesi, ungheresi, cechi, slovacchi, rumeni, bulgari, indiani, filippini, brasiliani, iugoslavi, e perfino, in questi ultimi anni, con russi o cinesi che hanno finalmente osato stabilire una relazione personale con noi. Di tutti questi gruppi ora rimane, salvo qualche eccezione, solo quello degli studenti africani. Essi sono diventati in molti centri i soli membri laici delle nostre comunità e costituiscono ormai la gioventù della nostra chiesa, con le loro diverse provenienze, dal Ciad al Madagascar, dal Burkina al Burundi, dal Mali al Mozambico. Così la nostra vocazione a formare una chiesa dell'incontro e della solidarietà professionale o spirituale con l'Algeria è stata condivisa da cristiani di origini molto differenti: cattolici romani, anglicani, ortodossi, copti, o appartenenti a diverse chiese nate dalla Riforma. Abbiamo vissuto questa vocazione in grande comunione con la Chiesa protestante d'Algeria. Si è così intessuta una rete internazionale e interconfessionale di cristiani amici dell'Algeria, di cui oggi è testimone la nostra corrispondenza. Possiamo ringraziare Dio per questa dilatazione della nostra vocazione specifica al livello della chiesa universale.
Chi potrà valutare le conseguenze future, per esempio, dei legami stabiliti con i copti o con i cristiani dell'Europa dell'est?
Fedeltà di oggi sigillo sul passato
Dopo aver vissuto la ricchezza e la diversità degli apporti di tutte queste persone alla nostra vocazione cristiana in Algeria, la crisi, ora, ci ha lasciati soli a mantenere viva questa relazione cristiana con fratelli di cultura algerina musulmana, con le sue sfumature arabe o tamazight (cultura berbera; ndt). La gravità stessa della crisi ha dato ancora più senso alla nostra solidarietà, poiché la presenza sulla stessa barca, quando arriva la tempesta, avvicina i passeggeri che si ritrovano esposti insieme agli stessi pericoli. In questa tappa difficile del nostro cammino, i nostri fratelli cristiani algerini assumono un ruolo tutto particolare, perché come tutti gli altri cittadini sono coinvolti nella crisi, ma nello stesso tempo sono anche esposti con noi alle minacce che prendono di mira il nostro piccolo gruppo in particolare. All'incontro dei responsabili delle congregazioni religiose con i vescovi, padre Lapize ha mostrato la coerenza profonda dell'atteggiamento spirituale che ci ha permesso di passare dall'Algeria coloniale all'Algeria indipendente. Dalla capacità di servire con mezzi adeguati siamo arrivati alla volontà di "essere con", in un momento in cui non possiamo influire sugli avvenimenti se non con una presenza solidale. A che cosa può servirci questo bilancio? Esso ci consente di percepire più chiaramente la nostra vocazione di chiesa nella sua continuità e di accettare la fedeltà presente come un sigillo posto su quella degli avvenimenti passati. Siamo inoltre confortati, nell'attesa di un nuovo avvenire, dalla convinzione che la vocazione della nostra chiesa ha il suo peso specifico, il suo significato particolare nella vita della chiesa universale. Ciascuno di noi ha la possibilità di constatarlo nei nostri incontri all'estero, quando ci sforziamo di spiegare ciò che stiamo vivendo. L'intervento di padre Manuel De Unciti, pubblicato in questo numero di Rencontres, presenta la nostra vocazione con tre parole: solidarietà, gratuità e fedeltà. Ci mostra fino a quale punto questi valori sono espressione del Vangelo per le mentalità del nostro tempo. Sostenuti da questa esperienza passata, possiamo dunque guardare al futuro. Il tempo presente è un tempo di transizione, secondo la terminologia utilizzata attualmente nella vita del paese; ma per noi deve essere anche un tempo di transizione spirituale. Ora siamo meno sollecitati dalla molteplicità delle relazioni, ma abbiamo la possibilità d'approfondire quelle che rimangono. La gravità della posta in gioco obbliga ciascuno, cristiano o musulmano, a superare il proprio modo di pensare per interrogare la propria coscienza sulle scelte da fare. Vi è anche il ministero della corrispondenza per mantenere la comunicazione con tutti coloro, algerini o stranieri, che sono fisicamente assenti dall'Algeria ma restano coinvolti in tutto ciò che noi stiamo vivendo. Vi è soprattutto il "ministero dell'ascolto", poiché tanti uomini e donne cercano qualcuno con cui poter parlare e confidarsi. Vi è anche da prendere parte alla resistenza di tutto il popolo per impedire che il ricorso alla violenza abbia la meglio sul rispetto della vita umana e dei diritti dell'uomo. Ci troviamo in un periodo che dovrebbe facilitare gli investimenti culturali e spirituali. La nostra vocazione è ormai centrata sull'essenziale.
Attori nel "mistero di salvezza delle nazioni"
Ora, se vogliamo guardare al futuro è chiaro che il cammino percorso indica la direzione verso cui siamo condotti dalla chiesa stessa. Tutta la nostra storia ci vede attori in questo "mistero di salvezza delle nazioni", in particolare sul terreno della collaborazione tra persone di cultura cristiana o musulmana. Sappiamo che lo spirito di Dio è all'opera nell'esistenza di ogni uomo e di tutta la comunità umana. Non finiremo mai di scoprire, intorno a noi, quest'azione di Dio, e d'imparare a incontrarla, ad accoglierla, a farne il soggetto della nostra preghiera, il mezzo della nostra personale conversione e il luogo dei nostri impegni quotidiani. Abbiamo ancora molto da fare affinché questa vocazione sia compresa all'interno della chiesa universale, e soprattutto affinché si uniscano a noi nuovi artefici per questa grande opera umana e spirituale, una volta terminata la crisi, ma anche adesso, se si sentono chiamati. Possiamo testimoniare che questa vocazione ci fa vivere, che essa è la nostra gioia, proprio in questo periodo di crisi. È una vocazione per il futuro della pace tra i popoli, per la diffusione dell'esistenza cristiana e per la venuta di Dio nella relazione tra cristiani e musulmani, qui e ovunque.
arcivescovo di Algeri