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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Pierre Claverie

Umanità plurale

"Il Regno" n. 17 del 1996

Mons. Pierre Lucien Claverie, domenicano, vescovo di Orano (Algeria), è rimasto vittima di un attentato assieme al suo autista la sera del 1o agosto, di ritorno da una cerimonia in ricordo dei sette monaci di Tibhirine massacrati la primavera scorsa (cf. Regno-att. 16,1996,487 e 12,1996,361). È il diciannovesimo religioso straniero ucciso in Algeria dal 1994. In questo discorso, pronunciato in Francia, a un incontro del "Club di Marsiglia", circa un anno prima della sua morte, il prelato ripercorre la sua storia personale, che si interseca fittamente fino a fondersi con quella dell'Algeria: un paese coloniale dapprima, indipendente poi, che, attraverso un progressivo processo di ideologizzazione della religione, è ora dominato da quella "cultura dell'esclusione e della violenza" responsabile di tanto sangue. Alla sua chiesa, combattuta tra il partire e il restare, aveva prontamente risposto con parole di padre (cf. Regno-doc. 19,1995,632).
La sua attenta analisi, che spinge al superamento dell'equazione algerino-musulmano, su cui giocare l'identità, si chiude con un solo auspicio: "Se solo nella crisi algerina... si arrivasse a concepire che l'altro ha il diritto di esistere e che porta una verità ed è rispettabile, allora non avremmo corso invano i pericoli ai quali siamo ora esposti". (Nouveaux Cahiers du Sud, n. 1, gennaio 1996. Nostra traduzione dal francese).



Il mio discorso è frutto di un'esperienza. Non sono un politico. Nato in Algeria, ho seguito l'evoluzione di questo paese, condividendo l'esistenza di milioni di algerini che oggi si ritrovano immersi nella crisi che ci è ben nota. Ho l'impressione di rivivere dolorosamente altri tempi. Ho passato l'infanzia nella "campana di vetro coloniale"; non che si trattasse di due mondi senza relazioni tra loro, tutt'altro, eppure nel mio ambiente sociale vivevo in una campana di vetro, ignorando l'altro, incontrando l'altro solo come elemento del paesaggio o dello scenario che avevamo creato nella mia esistenza collettiva.

Forse per il mio ignorarlo, negarne l'esistenza, un giorno l'altro mi ha aggredito. Ha fatto esplodere il mio universo chiuso, che si è disgregato nella violenza – poteva forse andare diversamente? –, e ha affermato la sua esistenza.

L'improvviso apparire dell'altro, il riconoscimento dell'altro, l'adeguamento all'altro, sono diventati per me un'ossessione. È probabile che questo sia all'origine della mia vocazione religiosa. Mi sono chiesto perché, nel corso di tutta la mia infanzia, essendo cristiano – non più di altri –, frequentando chiese – come altri –, ascoltando discorsi sull'amore per il prossimo, non avessi mai sentito dire che l'arabo era il mio prossimo. Forse era stato detto, ma non l'avevo sentito. Mi sono detto: non più muri, non più frontiere, né divisioni. È necessario che l'altro esista, in caso contrario ci esponiamo alla violenza, all'esclusione, al rifiuto.

Dopo l'indipendenza ho perciò chiesto di tornare in Algeria, per riscoprire questo mondo in cui ero nato, ma che avevo ignorato. Allora è cominciata la mia autentica avventura personale – una rinascita. Scoprire l'altro, vivere con l'altro, sentirlo, lasciarsi anche plasmare dall'altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori, ma concepire un'umanità al plurale, non esclusiva.

Dopo l'indipendenza l'evolvere della situazione in Algeria ha portato in una direzione opposta a quanto avevo sognato. Sul piano politico e religioso nei trent'anni successivi all'indipendenza si sono sviluppati dei riflessi del Fronte, quindi d'esclusione; sul piano politico, o si è all'interno del Fronte, o non si esiste. Parallelamente si è venuto consolidando un discorso religioso che sosteneva il potere politico. Sotto il profilo religioso si è sviluppata la stessa logica: o si sta all'interno e si esiste, o non ci si sta e si esiste tutt'al più come ospite tollerato, e non come vero e proprio membro della società. Il discorso che oggi si fa sentire, sostenuto dalla violenza delle armi, non è nuovo in Algeria. Esiste qui una cultura della violenza, che è una componente di tutti i popoli, ma può essere più o meno tenuta sotto controllo nelle diverse civiltà.

È paradossale dire questo, tenuto conto che di rado lo straniero sperimenta un'accoglienza tanto calorosa come nei paesi del Maghreb, in Algeria, in Tunisia, in Marocco. Ciò che colpisce tutti quelli che hanno viaggiato nei paesi del Maghreb e vi hanno trascorso qualche anno della loro vita, è che laggiù si viene accolti. È una società umana, con ancora una dimensione personale che a volte si rimpiange quando si arriva in Europa. Tutto questo è vero, finché si è di passaggio. Vivendo nel mondo magrebino le cose sono ben più complicate. Ci si trova in una società con una religione tradizionale, spesso organizzata in confraternite, un islamismo radicato, popolare, nel quale sussistono pratiche, idee e concezioni preislamiche. La società che vive in questo islam resta in effetti una società accogliente e pacifica; il popolo algerino, nella sua maggioranza, vive ancora questo tipo di islam.

Parallelamente, l'islam ortodosso (il riformismo) ha contribuito a sradicare quello tradizionale, popolare, e a ideologizzarlo. Certo, per mobilitare il popolo musulmano contro aggressioni e interferenze straniere fin troppo reali. Ma questo islam si è trasformato progressivamente in strumento politico manipolato da chi aveva potere, in lotta contro l'islam tradizionale e delle confraternite. Non sorprende allora che, poco a poco, quest'islam sradicato da valori profondi – umani e spirituali – e divenuto fattore politico, si trasformi oggi in uno strumento di violenza; tale violenza si sviluppa per ragioni che non sono religiose, ma usa giustificazioni di ordine religioso.

Tra le immagini di estrema gravità diffuse dalla televisione, una ha segnato l'Algeria. Anche i bambini ne parlano e la scimmiottano tra di loro: si tratta di un imam rapito da gruppi armati e costretto a giustificare le loro azioni con l'emissione di fatwas, di sentenze giuridiche. Sconvolto per quello che aveva visto nella clandestinità, non potendo più in coscienza giustificare nulla, aveva deciso di allinearsi. Questa adesione viene dunque sfruttata e l'imam, piuttosto fuori di sé davanti allo schermo, si spiega con gesti convulsi dicendo: "Guardate a che punto siamo arrivati, ora massacriamo, è il giudizio di Dio, è la legge di Dio". È eccessivo parlare di giudizio di Dio, di legge di Dio. Ma questo discorso religioso è il risultato di una ideologizzazione della religione. Quello che attualmente viviamo è l'esito di un'evoluzione che non è iniziata ieri e che, a piccoli passi, ha contribuito a creare una cultura dell'esclusione e della violenza.

La crisi contrappone quelli che si sono lasciati rinchiudere in questa cultura dell'esclusione e altri che, attingendo ad altre fonti o avendo seguito altri percorsi, cercano di resistere alla chiusura e alla segregazione. Gravi questioni si propongono, come mai in passato, all'interno del mondo algerino musulmano. Paradossalmente, questa crisi, che nasce da una chiusura, è anche il primo passo di un'apertura nella storia contemporanea dell'Algeria. Qui la religione è profondamente legata all'identità; essere algerino e musulmano è naturale e ovvio. Si è accettato che altri stranieri, europei e non, diventassero algerini. Lo sono, ma in modo un po' particolare, non si è mai del tutto algerini se non si è veramente musulmani. L'identità è quindi legata alla religione. Ora, proprio quando eravamo tranquillamente musulmani – faceva parte della cultura, della personalità, del suo evolvere storico – alcuni arrivano a dirci che siamo dei cattivi musulmani, che non siamo mai stati dei veri musulmani. In nome di quest'islam ideologico la gente, i gruppi, sono rimessi in discussione: "Che cos'è, dunque, l'islam? Ci sono diversi islam?". Prendiamo allora coscienza che sono possibili diverse interpretazioni, accettabili o inaccettabili, ortodosse o meno, che comunque esistono e possono affermarsi; la questione non è solo intellettuale, argomento di dibattiti, riguarda l'identità profonda: "Chi sono adesso? In quale gruppo ritroverò una mia identità?". Perché il problema è questo, si tratta di appropriarsi della propria storia ora, sia per tutti gli islamisti saliti sulla montagna per unirsi ai gruppi armati, sia per quanti resistono a questa forma di islam. Si tratta di appropriarsi ora della propria identità.

Una tale profonda ricerca rinvia gli algerini non più al loro gruppo (perché ci sono molti gruppi), ma al loro giudizio personale. Bisogna fare una scelta: alcuni raggiungono le montagne, altri sostengono il potere, altri ancora sono democratici. Adesso la scelta personale è necessaria, e credo sia l'avvento, nella società algerina, di ciò che il professor Talbi chiama "modernità", l'emergere dell'individuo. Non ci si può più accontentare di appartenere a un gruppo e di identificare la propria identità personale col gruppo, perché il gruppo si è frantumato. Bisogna scegliere, e c'è in questo l'emergere di un fenomeno nuovo, forse un modo diverso di vivere insieme.

Nella mia esperienza della chiusura, poi della crisi e dell'emergere dell'individuo, acquisto la convinzione personale che non c'è umanità se non plurale, e che, quando pretendiamo – all'interno della chiesa cattolica ne abbiamo triste esperienza nel corso della nostra storia – di possedere la verità o di parlare in nome dell'umanità, cadiamo nel totalitarismo e nell'esclusione. Nessuno possiede la verità, ognuno la ricerca, ci sono certamente verità oggettive, ma che vanno al di là di noi tutti e alle quali non si può accedere che attraverso un lungo cammino e ricomponendole poco a poco, prendendo dalle altre culture e da altri gruppi umani, quello che altri hanno acquisito, hanno cercato, nel loro cammino verso la verità. Io sono credente, credo che c'è un Dio, ma non ho la pretesa di possederlo, né attraverso Gesù, che me lo rivela, né attraverso i dogmi della mia fede. Dio non si possiede. Non si possiede la verità, e io ho bisogno della verità degli altri. Lo sperimento ora con migliaia di algerini nella condivisione di un'esistenza e di interrogativi che tutti ci poniamo.

Si parla di tolleranza, trovo che sia un obiettivo minimale e non amo troppo questa parola, perché la tolleranza presuppone un vincitore e un vinto, un dominatore e un dominato, e che chi detiene il potere tolleri che gli altri esistano. È possibile evidentemente dare un altro significato a questa parola, ma ho un'esperienza troppo lunga di ciò che significa nella società musulmana nella sua accezione condiscendente per accettarla sul serio. È certo meglio del rifiuto, dell'esclusione, della violenza, ma preferisco parlare di rispetto dell'altro. Se solo, nella crisi algerina, dopo questo momento di violenza e le profonde fratture della società, ma anche della religione e dell'identità, si arrivasse a concepire che l'altro ha il diritto di esistere, che porta una verità ed è rispettabile, allora non avremmo corso invano i pericoli ai quali siamo ora esposti.

articolo tratto da Il Regno logo

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