La chiesa del popolo islamico
Intervista a mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri.
A un anno dalle uccisioni che hanno colpito la chiesa algerina, l'arcivescovo Tessier traccia un profilo della chiesa cattolica in Algeria. Una presenza che testimonia il valore del pluralismo per una sopravvivenza dell'idea democratica.
La notizia del massacro avvenuto nel villaggio di Maalba, a più di 170 Km da Algeri, nella notte tra il 26 e il 27 agosto scorso, e nel quale sono state uccise più di 200 persone, ha riacceso l'attenzione verso il conflitto che da almeno quattro anni insanguina l'Algeria.
La data a cui comunemente si fa riferimento è l'annullamento delle elezioni legislative del 26 dicembre 1991 a causa della vittoria (la seconda, dopo le amministrative del giugno 1990) del Fronte islamico di salvezza (FIS). A seguito di ciò, il 12 gennaio 1992, su pressioni dell'esercito, il presidente Chadli Benjedid (in carica dal 1978) consegna le dimissioni e s'insedia un Alto consiglio dello stato, a guida militare in collaborazione con il partito unico Fronte di liberazione nazionale (FLN) e presieduto da uno dei leader storici dell'indipendenza, Mohammed Boudiaf. Il FIS viene sciolto e i suoi leader imprigionati, viene proclamato lo stato di emergenza.
Dopo l'assassinio di Boudiaf nel giugno 1992, la crisi economica peggiora, numerosi sono gli avvicendamenti ai vertici dello stato, ma soprattutto cresce la guerra condotta dall'esercito contro i gruppi islamici e i suoi sostenitori e gli attentati di questi ultimi contro esercito, membri delle istituzioni, giornalisti, persone impegnate in associazioni civili o di difesa dei diritti umani, stranieri. Il retaggio coloniale di sottosviluppo – specie della periferia urbana di Algeri – e di violenza non cambia di segno.
Nel gennaio 1994 il generale Liamine Zeroual, ministro della difesa, è nominato presidente. Indice elezioni presidenziali per il 16 novembre 1995 (cf. l'ampio commento in Regno-att. 22,1995,677) che sono le prime "multipartitiche" della storia dell'Algeria. Alta è l'affluenza alle urne, nonostante l'appello delle opposizioni a non andare a votare, un segno della popolazione in favore del ritorno della normalità e della pace. A queste segue il referendum sulla nuova Costituzione del 28 novembre 1996, che con un 79,8% di afflusso alle urne viene approvata dall'85,8% di voti, in nome del ritorno alla "democrazia".
Il 5 giugno 1997 si tengono elezioni legislative – a cui seguiranno nel prossimo autunno le amministrative –, con una sostanziale riconferma di Zeroual: i seggi al Parlamento sono attribuiti in larga maggioranza al FLN e al Rassemblement national démocratique (RND), un partito nato in quattro mesi a sostegno del presidente. Numerose le denunce di brogli da parte degli osservatori internazionali.
Le uccisioni che costellano il martirio dell'Algeria non sono addebitabili puramente allo scontro tra governo e integralisti, come inizialmente si era configurato. I commentatori ormai concordano nel dire che si tratta di una lotta, feroce, per il controllo del potere e delle risorse – in particolare il petrolio – da parte di più forze, quali i clan legati all'esercito, l'opposizione armata (che deve definire anche la leadership al suo interno), le bande armate create dall'esercito (come sostengono gli integralisti) che agiscono ormai in maniera autoreferenziale. In mezzo la popolazione, dilaniata e disorientata dalle diverse appartenenze, ormai principale vittima sacrificale di una guerra mai dichiarata che un afflusso costante e abbondante di armi alimenta da molti anni.
La gente vuole vivere
Incontro l'arcivescovo di Algeri mons. Heinri Teissier, di passaggio in Italia, e anzitutto gli chiedo un'opinione sulla situazione politica.
– Quali cambiamenti vi sono stati dopo le elezioni del giugno scorso e quali i motivi di speranza per fuoriuscire dalla crisi?
"La soluzione della crisi sta nella responsabilizzazione degli algerini stessi; noi stiamo con la gente e con loro aspettiamo la liberazione da questa violenza. Il motivo di speranza è che tutta la popolazione aspetta con grande forza la liberazione da questa violenza. Infatti tutte le famiglie sono state colpite in una maniera o in un'altra sia perché hanno perso un parente o un figlio, sia perché hanno perso il posto di lavoro, sia perché la situazione economica è molto difficile e non hanno i mezzi di sussistenza, sia perché sono profondamente colpiti dall'orrore della violenza. Per loro è una questione anche di dignità, nel sapere che nel mondo intero si parla solamente di stragi. C'è una popolazione di trenta milioni di persone che fa il proprio lavoro, che vive la propria vita familiare, che studia. Alla fine dell'anno scolastico, 400.000 allievi si sono presentati al baccalaureato e dappertutto si è fatta festa. Proprio in questi giorni sta per avviarsi il nuovo anno scolastico, che vedrà 5 milioni di bambini sui banchi di scuola. Tutte le scuole apriranno, a parte alcune piccole scuole di villaggio, e sono pronte per riprendere il lavoro. Durante l'estate, 3-4 milioni di persone sono andate sulle spiagge, per dire che la vita sociale continua e questo è il motivo della speranza e la forza della popolazione che vive in questa situazione molto difficile. Prima di partire ho partecipato a una festa di matrimonio di amici cui ero stato invitato: le famiglie non hanno smesso di celebrare i matrimoni, le nascite.
È in questo quadro che la comunità cristiana vive la sua fedeltà. Quando mons. Claverie fu ucciso, celebrammo le esequie nella cattedrale di Orano: la metà dei presenti era musulmana, ma ha avuto il coraggio di essere lì con noi. Prima della crisi, i musulmani non sarebbero venuti in chiesa per partecipare a una celebrazione. Ma l'assommarsi di queste prove li ha fatti avvicinare a noi. Sono tornato a Orano nell'ottobre 1996, all'inizio dell'anno pastorale, e ho trovato che tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici che conoscevo sono tornati a vivere il proprio servizio. Erano riuniti nel vescovado, proprio dove la bomba era esplosa, e hanno ricominciato a lavorare e con i loro amici algerini. È qui che si trova la nostra speranza, cioè la forza del popolo che lotta per la vita quotidiana, e in particolare modo la lotta delle donne che danno alle famiglie di che vivere quotidianamente.
Spetterà alle forze politiche trovare delle soluzioni. Ci sono state elezioni multipartitiche per le presidenziali, ora ci sono state quelle legislative e stiamo aspettando le elezioni multipartitiche amministrative: non è sufficiente per liberarci dalla violenza, ma sono punti utili per passare dalla situazione precedente, in cui vi era un partito unico, a una in cui il paese ha una gestione multipartitica. In linea di principio tutti i partiti che hanno dichiarato di rinunciare all'uso della violenza hanno diritto di presentare candidati. Inoltre la stampa è una stampa abbastanza pluralistica. Penso che questa pluralità di pensiero nella stampa per quanto riguarda la riflessione sulla società è molto più ampia che in molti paesi arabi e anche paesi del sud. Naturalmente la violenza rimane.
Domandiamo ai nostri amici di non guardare soltanto alle stragi, ma di sapere che c'è una popolazione algerina che vive, che guarda al futuro e che spera di superare la crisi".
Simbolo di spiritualità
– Lei ha appena accennato alla morte del vescovo di Orano, mons. Claverie (1.8.1996; cf. Regno-doc. 17,1996,538; e Regno-att. 16,1996,487). Poco prima vi era stata l'uccisione dei sette monaci del monastero di Tibhirine (21.5.1996; cf. Regno-att. 8,1996,216; 12,1996,358-361 e Regno-doc. 13,1996,427-429), di cui la chiesa cattolica algerina ha da poco commemorato il 10 anniversario. Come vive una chiesa fortemente segnata dal martirio e dall'essere una minoranza in terra islamica?
"Questa uccisione fu per tutti noi una prova molto grande – afferma mons. Teissier – perché il monastero di Tibhirine occupava un posto centrale per l'animazione spirituale della comunità. Possiamo dire che i monaci che vivevano lì si trovavano alla frontiera delle relazioni con l'islam. Il monastero si trovava in un villaggio molto piccolo e così potevano unire il loro essere un luogo di animazione spirituale all'essere in relazione vera con i vicini che lavoravano con loro. Questi padri trappisti avevano la vocazione speciale a essere un monastero contemplativo in un ambiente totalmente musulmano. In più avevano sviluppato anche una riflessione spirituale molto forte, come si può vedere nei libri che sono stati pubblicati con il loro pensiero".
– È disabitato oggi il monastero?
"No. C'è un monaco, Robert Fouquez, che non è un trappista, ma un eremita che viveva accanto al monastero. Dopo l'uccisione dei monaci – lui non si trovava al monastero la notte in cui i monaci furono rapiti – ha deciso di tornare al monastero ed è lui che tiene le relazioni con i vicini e anche che cerca con loro di dare vita al posto. In questo momento ci sono padri trappisti volontari che si stanno preparando a tornare ad Algeri. Non per andare direttamente al monastero, perché aspettiamo che la soluzione della crisi si sia precisata, ma per formare una prima piccola comunità nella città di Algeri e cercare di tornare a Tibhirine non appena si potrà. Questo vuol dire che la grande prova rappresentata dal martirio dei monaci non ci ha fatto perdere la speranza di formare una nuova comunità sul posto. Infatti, non solo i cristiani furono colpiti dall'uccisione dei monaci, ma anche la popolazione algerina musulmana. Dopo questa crisi, questo luogo avrà un significato molto importante per la relazione spirituale islamo-cristiana. È per questo che vogliamo dare un futuro a questa eredità spirituale".
Il valore civile dell'essere chiesa
– Ma è possibile parlare di futuro per una chiesa ridotta nelle sue forze, senza vocazioni, con pochi mezzi e con un'età media spesso avanzata? Come si configura oggi la chiesa algerina e in che senso può avere un futuro?
"Naturalmente abbiamo perso la maggioranza della comunità cristiana, che era di origine straniera, dopo le minacce che furono lanciate alla comunità cristiana nell'ottobre del 1993, quando fu detto che tutti gli stranieri che fossero rimasti nel paese sarebbero stati uccisi. Allora le scuole straniere (francese, inglese, italiana, tedesca, polacca, russa) chiusero e tutte le famiglie con bambini in età scolare dovettero partire. La comunità cristiana si ridusse agli anziani che erano in Algeria dal tempo della colonizzazione e che rimasero in Algeria, alle donne sposate con algerini, ad alcuni tecnici senza famiglie che lavorano nei campi per l'estrazione del petrolio, agli studenti africani che studiano con borse di studio nell'Università algerina e ad alcuni cristiani algerini che però sono pochi, perché tutta la società algerina è musulmana. Con queste persone rimaste ci sono 100 sacerdoti religiosi e 200 religiose e alcuni laici consacrati alla missione. Queste persone hanno fatto personalmente la scelta di restare e chi ha ritenuto di dover partire l'ha fatto liberamente. La comunità è sparsa in tutto il paese – anche se ad Algeri è radunata la maggior parte – e alcuni cristiani vivono nelle oasi. È suddivisa in 4 diocesi: Algeri, Orano per la parte ovest, la diocesi di Costantina e quella di Laghouat, la più estesa (2 milioni di kmq).
– Come vivete in concreto il rapporto con il mondo musulmano, con le autorità musulmane e i gruppi della società civile?
"Non abbiamo difficoltà con le autorità sia civili sia religiose. In quanto cristiani, siamo in costante contatto con il Ministero per gli affari religiosi; la libertà di culto e di riunione, di circolazione, è reale in Algeria. In giugno, abbiamo tenuto l'assemblea della Conferenza episcopale con i nove vescovi. In marzo le superiore maggiori delle congregazioni che lavorano in Algeria si sono riunite ad Algeri per conoscere meglio le situazioni delle proprie comunità. Con le autorità civili abbiamo dei rapporti attraverso i lavori che facciamo, ad esempio ci sono suore che lavorano in strutture comunali o della Mezzaluna Rossa algerina; anche la Caritas lavora con molte associazioni algerine, specialmente per gli handicappati, per la formazione della donna, per il piccolo sviluppo. La Caritas è inoltre impegnata nel sud dell'Algeria a servizio dei rifugiati del Sahara occidentale, che sono da vent'anni nel deserto. Abbiamo anche un impegno culturale che si attua attraverso le biblioteche che abbiamo a servizio dei liceali e studenti.
Le difficoltà vi sono quando nei momenti di crisi della società si manifesta la violenza. Ma non ci sono difficoltà di rapporti con le autorità perché ci impegniamo con loro al servizio dell'uomo e della donna; lavoriamo insieme in particolare – specie le religiose – con le associazioni femminili. In questa crisi il ruolo delle donne è stato cruciale sia dal punto di vista dell'azione sociale sia da quello del servizio svolto quotidianamente in famiglia sia da quello della difesa della donna all'interno della società.
Ciascuno vive la relazione con la popolazione in uno stile di prossimità, attraverso il proprio lavoro professionale, ma anche con l'amicizia, perché molti di noi sono da molto tempo in Algeria e per questo abbiamo molti amici; questi amici si sono avvicinati a noi a causa di questa situazione difficile, hanno capito che noi abbiamo deciso di rimanere per fedeltà all'amicizia, per la solidarietà che abbiamo vissuto. Da molto tempo abbiamo interpretato la nostra vocazione come quella di essere la chiesa del popolo algerino, che è un popolo musulmano; noi vogliamo essere la chiesa del popolo musulmano, una chiesa solidale. I nostri amici lo hanno capito e per questo diventava difficile lasciare il paese nel momento del pericolo. Naturalmente abbiamo lasciato i posti troppo pericolosi e le persone si sono trasferite in altre città.
La nostra vocazione è quella di essere la chiesa di un popolo ed essa è vissuta in un modo più profondo in questi tempi difficili, perché noi siamo minacciati tanto quanto i nostri amici algerini. Non si può infatti dire che la lotta è tra cristiani e musulmani. La crisi non è una crisi tra cristiani e musulmani, ma è di tipo sociale e tutta la società algerina è angosciata a causa di questa violenza: noi ci troviamo con i nostri amici algerini sotto questa stessa violenza".
– Una testimonianza che ha quindi un valore civile?
"Proprio perché le minacce che riceviamo sono solo una piccola parte della grande minaccia che deve affrontare tutta la società algerina, siamo posti sullo stesso piano di uguaglianza con tutti coloro che sono minacciati. Molti algerini che precedentemente non prestavano attenzione alla nostra esistenza sono oggi consapevoli che anche il nostro gruppo ha il suo significato nella vita del paese. Ma c'è di più. Essendo essi stessi minacciati in quanto diversi, per una ragione o per un'altra (per il sesso per le donne, per le proprie idee per altri, per la propria lingua e cultura per altri ancora), molti di coloro che si sentono minacciati in ragione della differenza che incarnano percepiscono, nella nostra "differenza", una possibilità per la società. In questo modo una chiesa che potrebbe rischiare di essere solo un servizio cultuale per una minoranza diviene sempre più un elemento prezioso nella resistenza comune e nell'affermazione del diritto al rispetto delle differenze, e di più anche un segno di un Dio altro e di un'altra comprensione della religione".
Una sfida per la chiesa universale
- L'"essere con" della chiesa algerina, il rifiuto di qualsiasi forma di proselitismo, come si concilia con l'azione "pastorale" ordinariamente intesa?
"L'animazione pastorale della chiesa si fa per aiutare ciascuno di noi a vivere il Vangelo. Abbiamo piccoli gruppi per la riflessione e la ricerca del significato della nostra testimonianza di cristiani in un paese totalmente musulmano. Per un vescovo è molto importante che tutte le persone della comunità siano impegnate nella stessa vocazione, ciascuno attraverso il proprio specifico lavoro. Per esempio, le piccole sorelle dei poveri lavorano per gli anziani, ma sono anziani musulmani e fanno il loro lavoro con l'aiuto delle famiglie algerine musulmane. Allora vuol dire che attraverso la loro specifica vocazione anch'esse sono impegnate in questa relazione con la società algerina. I padri gesuiti, per esempio, lavorano per gli universitari ed essi sono tutti algerini: il loro è un carisma di testimonianza nell'ambiente culturale, ma alla fin fine è lo stesso impegno delle piccole sorelle o dei piccoli fratelli di Gesù, fondati da p. de Foucauld, che hanno la vocazione a vivere una fraternità universale attraverso la vita quotidiana, la contemplazione in mezzo alla gente e in relazione con i musulmani".
– Un impegno e uno stile, questo, che vi accomuna con gli altri paesi della Conferenza episcopale del Nordafrica (CERNA, che comprende Algeria, Marocco, Libia e Tunisia)...
"Sì. Un esempio è il volume che abbiamo curato come CERNA, Le livre de la foi (ed. Cerf, 1996; cf. Regno-att. 22,1996,660), che è un tentativo di presentare una sintesi della fede cristiana dal punto di vista della Parola; è infatti molto importante per i musulmani questo punto di partenza, cioè la Parola. Per loro la parola di Dio è nel Corano e noi abbiamo voluto dire che la Parola che incontriamo, la parola di Dio, è vivente nella persona di Gesù, un punto difficile da comprendere per i musulmani perché non accettano l'idea cristiana dell'incarnazione e della redenzione. Il libro non è per presentare il cristianesimo ai musulmani, ma è un libro per accompagnare la fede dei cristiani che vivono una relazione quotidiana con i musulmani e che conoscono le domande che i musulmani pongono ai cristiani. È una presentazione della fede cristiana tenendo conto delle posizioni dell'islam.
Nell'ambito della CERNA siamo 9 vescovi – dopo la nomina del secondo vescovo per la Libia, mons. Sylvester C. Magro a Benghazi – abbiamo due incontri annuali e il mese prossimo faremo la nostra visita ad limina e insieme proporremo una riflessione sul tema "cristiani nel Maghreb", una sorta di testimonianza a quattro voci. Sappiamo infatti che siamo nel sud del Mediterraneo non per servire un progetto personale ma per vivere a nome di tutta la chiesa questa relazione tra cristiani e musulmani, questa testimonianza di cristiani in ambiente musulmano e vorremmo dare l'idea, specialmente a Roma, che esiste questa testimonianza e che ha una sua specificità. Siamo contenti che esistano anche cristiani arabi nel Medio Oriente che hanno la loro responsabilità nella testimonianza nel mondo arabo e che ha un peso particolare perché sono arabi, ma anche noi abbiamo nel Maghreb la nostra responsabilità specifica come cristiani in mezzo a musulmani arabo-berberi".
– C'è forse un difetto di comprensione rispetto alla chiesa algerina?
"Fino a ora il significato nuovo dato alla nostra chiesa dalla situazione di crisi non era percepito se non da poche persone sia all'interno sia all'esterno dell'Algeria. L'assassinio dei nostri fratelli monaci e di p. Claverie, come la morte del cardinale Duval, che sono seguiti nel tempo agli altri assassini di membri della nostra comunità, tutto questo ha fatto a poco a poco conoscere la nostra esistenza e la nostra vocazione a un numero crescente di persone, in Algeria, presso i musulmani, e all'estero, presso i cristiani o presso uomini di buona volontà di fede diversa. Il manifestarsi della nostra specifica vocazione a un grande numero di persone ne ha allargato il significato per la società algerina, per l'islam, per la chiesa e anche per le relazioni euro-arabe. In specifico, la situazione nella quale ci troviamo ha fatto della nostra comunità un segno evangelico percepito come un messaggio importante per la chiesa e il futuro della fede, senza dubbio a causa della sua gratuità e del suo carattere d'impegno assoluto che la crisi richiede.
Meglio di chiunque conosciamo la nostra debolezza, il nostro essere pochi, le nostre forze che declinano, la nostra età media elevata e la relativa insignificanza dei compiti che ci sono richiesti in questo contesto. Ma proprio di questa debolezza, Dio e le circostanze hanno voluto fare un segno che dona fierezza cristiana e speranza evangelica a molti fratelli e sorelle, cristiani o uomini di buona volontà che si trovano fuori dell'Algeria e che sostiene molti algerini nella loro lotta per la speranza".
Roma, 3 settembre 1997