La democrazia tollerabile
Per dieci anni la popolazione è stata sottomessa alla violenza di gruppi armati particolarmente disumani e alla contro-violenza delle forze dell’ordine e dei gruppi di autodifesa. Tutti aspirano alla pace e alla riconciliazione, almeno coloro che non hanno le mani sporche di sangue (…) L’altra attesa di tutto il popolo è quella della giustizia sociale e dello sviluppo economico. Le parole dell’arcivescovo di Algeri, mons. Henri Teissier, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 15 aprile scorso (Fides 16.4.1999, 210), si fanno interpreti della speranza, che la campagna elettorale aveva acceso nella popolazione algerina, di una svolta nella gestione del governo del paese. Il ritiro di sei dei sette candidati e la conseguente vittoria dell’unico rimasto, Abdelaziz Bouteflika, hanno dimostrato che la democrazia algerina è ancora immatura (cf. Regno-att. 8,1998,222). Ricostruiamo le tappe e alcune motivazioni di questo percorso.
Estate 1998. Accusato dal generale Nezzar sul quotidiano Le Matin di tenere un comportamento mafioso e di aver fatto uso della tortura ai tempi della repressione dei moti del 1988, il generale Betchine, direttore del Gabinetto della presidenza di Zeroual, risponde dalle pagine di due riviste da lui sostenute, L’Authentique e Demain, accusando il generale Belkheir, ex ministro degli interni, di avere creato a partire dal 1992 degli "squadroni della morte" che hanno compiuto torture e assassini durante la repressione contro i gruppi armati islamici. La rivelazione viene considerata come un tradimento all’interno dello stato maggiore, in particolare dal clan del generale Lamari (di cui fanno parte Médiène – direttore della Sécurité militaire –, Nezzar e Belkheir), contrapposto a quello di Betchine-Zeroual. "Per la prima volta si assiste a una rottura all’interno del sistema politico-militare algerino, perché i generali non hanno saputo trovare un compromesso tra loro né una formula d’arbitraggio" (Vivant univers, nov.-dic. 1998, 21).
11 settembre. Il presidente Liamine Zeroual annuncia a sorpresa che non porterà a termine il suo mandato (era stato eletto nell’autunno del 1995 e sarebbe scaduto nel 2000) e che indirà elezioni anticipate per febbraio, in seguito spostate al 15 aprile. Il gesto viene interpretato come il pensionamento da parte dei militari di un presidente che aveva "forzato" il proprio mandato pretendendo di governare al di sopra dei militari. Un avvertimento era stato lanciato con l’accordo segreto firmato tra l’esercito e l’Esercito islamico di salvezza (AIS) – l’ala armata del Fronte islamico di salvezza (FIS) – nell’ottobre 1997, proprio durante le trattative del governo con il FIS, che, se fruttuose, avrebbero fatto di Zeroual l’artefice della pace. Nei termini dell’accordo dell’esercito sarebbe compreso anche un provvedimento di legge, contestato dalle famiglie delle vittime del terrorismo, secondo il quale le vittime della "tragedia nazionale", islamici e non islamici, potrebbero ottenere una qualche forma di risarcimento; oltre alla promessa di integrare nell’esercito regolare circa 4.000 combattenti dell’AIS.
Ottobre. Viene pubblicato un libro a commemorazione dei moti del 1988 che riporta le rivelazioni dei principali responsabili militari dell’epoca sulle presunte responsabilità dell’uno o dell’altro militare in torture ed esecuzioni sommarie. Il consigliere del presidente, gen. Betchine si dimette.
4 febbraio 1999. Il Partito comunista Ettahadi di El Hachemi Cherif e il Rassemblement pour la culture et la démocratie (RCD) di Said Sadi annunciano che non si presenteranno alle presidenziali. Il RCD chiede il boicottaggio delle elezioni perché non vi sono "garanzie di trasparenza per uno scrutinio giusto".
Inizi di marzo. Circa 400 combattenti appartenenti al GIA si arrendono dopo la fatwa emessa dall’imam Mohamed al-Albani, influente teologo yemenita, che definisce "depravati" coloro che commettono i massacri, invitandoli a "pentirsi prima che sia troppo tardi". Il disciolto AIS diventa un soggetto politico a tutti gli effetti alleato al FIS, anche se continua a combattere contro il GIA.
11 marzo. Il Consiglio costituzionale ammette 7 candidati alle presidenziali. Due sono rifiutati: Louisa Hanoune e Mahfoud Nahnah, leader del Movimento della società per la pace, partito islamico moderato. Questi è escluso perché non può presentare il certificato di partecipazione alla guerra di liberazione, pre-condizione perché le candidature siano accettate. I candidati sono quindi: Hocine Ait Ahmed (co-fondatore del Fronte di liberazione nazionale, poi leader del Fronte delle forze socialiste), Abdelaziz Bouteflika (più volte ministro nel governo Boumedienne tra il 1962 e il 1978), Abdallah Saad Djaballah (leader del partito islamico Movimento della riforma nazionale), Mouloud Hamrouche (da primo ministro introdusse nel 1989 il multipartitismo e la libertà di stampa), Ahmed Taleb Ibrahimi (più volte ministro dal 1965 al 1988, partigiano del dialogo tra FIS e Fronte di liberazione nazionale), Youssef Khatib (comandante nella guerra di liberazione, consigliere di Zeroual), Mokdad Sifi (primo ministro tra il 1994 e il 1995, fautore dei negoziati con il Fondo monetario internazionale).
12 aprile. Si chiude la campagna elettorale. Quattro candidati, Ibrahimi, Hamrouche, Djaballah e Ahmed pubblicano una dichiarazione comune, accusando il governo di parteggiare per Bouteflika.
13 aprile. Sei su sette candidati – escluso Bouteflika – dichiarano: "tutte le informazioni in nostro possesso confermano che la frode è già incominciata nei seggi itineranti e nei seggi speciali" (per gli algerini residenti in Francia i seggi sono aperti dal 10 al 15 aprile e per i corps constitués in Algeria il 13). "Chiediamo l’annullamento dei risultati di questi seggi. Tenuto conto della gravità della situazione abbiamo chiesto udienza al presidente della Repubblica".
14 aprile. "Riaffermiamo che l’impegno preso dal presidente della Repubblica e dal capo di stato maggiore dell’esercito per garantire l’organizzazione di una votazione libera e trasparente nei fatti non è stato rispettato. Prendiamo la decisione di ritirarci collettivamente dall’elezione presidenziale e di non riconoscere la legittimità dei risultati di questa votazione". È la dichiarazione ufficiale dei sei candidati dopo il rifiuto di Zeroual di riceverli. Ecco il messaggio del presidente la sera stessa: "Il processo elettorale sarà portato avanti sino in fondo". "I cittadini e le cittadine sono i soli competenti nel giudicare se vi sono motivi validi o meno che hanno fondato la decisione di ritirarsi presa dai sei candidati". "Il nostro paese – ha proseguito Zeroual – può essere fiero di offrire le condizioni per una votazione libera e trasparente".
15 aprile. Il dato dell’affluenza alle urne secondo il Ministero degli interni è del 60,2%, mentre secondo osservatori indipendenti sarebbe il 23,3%. Bouteflika avrebbe guadagnato secondo le fonti ufficiali il 74% dei voti (28,3% secondo le fonti non ufficiali), Taleb Ibrahimi il 12,5%; seguono attorno al 3% Saad Djaballah, Ait Ahmed, Hamrouche e Sifi. I dati delle fonti indipendenti sono sensibilmente inferiori. L’astensione ha raggiunto le punte più elevate nella regione della Cabilia, mentre gli elettori della regione occidentale – quella d’origine di Bouteflika – hanno votato in massa.
16 aprile. Prima dichiarazione di Bouteflika: "Nonostante le manovre miranti a perturbare gli elettori e a screditare la loro scelta agli occhi dell’opinione internazionale, il popolo algerino si è espresso chiaramente e mi ha eletto democraticamente alla presidenza della Repubblica. In questo momento di profonda commozione per me, voglio ringraziare tutti i cittadini e le cittadine che mi hanno scelto con il proprio voto. A chi ha compiuto un’altra scelta voglio dire che m’impegno a essere il presidente di tutti gli algerini in tutta imparzialità e in tutta giustizia. Voglio anche dire che, nel quadro delle mie prerogative, agirò nel rispetto delle convinzioni di ciascuno e che sollecito l’aiuto di tutti perché insieme (…) ci adoperiamo (…) a voltare definitivamente le pagine oscure della nostra storia per aprire una nuova era, che vedrà l’Algeria riprendere risolutamente la sua marcia verso una società di progresso, di giustizia e di libertà. Gloria ai nostri martiri. Viva l’Algeria".
Ad Algeri una manifestazione spontanea di protesta non autorizzata e pacifica contro le elezioni viene dispersa dalla polizia.
27 aprile. Confermata la validità dell’elezione da parte del Consiglio costituzionale (20.4), Bouteflika s’insedia come presidente.
A partire dal percorso che ha portato alle elezioni fino allo svolgimento delle stesse si possono trarre alcuni spunti sulle prospettive che si aprono per l’Algeria e per il suo presidente. Innanzitutto per ciò che riguarda il ruolo dell’esercito e il tasso di democratizzazione del paese. Secondo molti osservatori, i passi che l’Algeria formalmente ha compiuto verso la normalizzazione democratica sono più il frutto della frammentazione dei quadri dell’esercito che dell’emergere di reali dinamiche democratiche. Il pur cauto giudizio di mons. Teissier, secondo il quale il "potere appare ancora troppo poco aperto verso un’alternanza democratica reale", o quello dato dal nunzio mons. Kasujja all’indomani della sua nomina – sulla necessità di un "governo più credibile" (Regno-att. 18,1998,634) – confermano il fatto che l’Algeria è tuttora in mano all’esercito. È vero che la frammentazione interna di quest’ultimo potrebbe portare ad aperture democratiche. Tuttavia questa è una possibilità che, nascendo sulla base di una debolezza istituzionale e non sull’elaborazione di un progetto politico, potrebbe provocare il versamento di altro sangue, a causa delle lotte interne tra i clan dei generali, che si sovrappongono alle linee di frattura presenti nella società algerina.
Qui sorge la seconda considerazione. "Il conflitto attuale, che oppone principalmente l’esercito agli islamisti, ha come posta non tanto una differenza inconciliabile di due progetti ideologici, ma piuttosto il controllo dello stato da parte di due gruppi, l’uno delegittimato dall’usura del potere, l’altro rafforzato dal fatto di essere ormai il solo a veicolare il populismo", esasperato dal risentimento causato dal "furto" della vittoria elettorale del dicembre 1991 (Vivant Univers, cit., 8). Inoltre, le cellule di autodifesa popolare, istituite dall’esercito alla fine del 1996 contro le truppe del GIA, hanno funzionato come "tampone tra l’esercito nazionale e le unità islamiste. Questa tattica ha avuto un effetto perverso, ha distolto il terrorismo dagli obiettivi militari classici ed è sfociata in una sanguinosa lotta tra abitanti dei villaggi". Inoltre, è accertato che "alcuni assassini (…) non avevano niente a che vedere con i gruppi islamici armati" (Le Monde diplomatique marzo 1999, 7.8.). È iniziata la guerra civile, il terrorismo è stato allontanato dalle città, gli impianti estrattivi a sud sono al sicuro. Un certo livello di violenza è "tollerabile" quanto più essa è funzionale al mantenimento di un esercito plenipotenziario.
Infine la questione economica, con la gestione della privatizzazione dell’industria, l’elevata disoccupazione, la messa in opera della "ricetta" economica imposta dall’accordo con il Fondo monetario internazionale. Da questo punto di vista qualsiasi governo ha oggi in Algeria un compito oneroso con ristretti margini di manovra, anche perché il 90% delle entrate è costituito dall’esportazione degli idrocarburi. La presenza massiccia di compagnie petrolifere estere, specialmente quelle statunitensi, potrebbero spingere verso una certa apertura degli spazi democratici, purché non si metta in discussione il controllo e l’utilizzazione delle entrate degli idrocarburi. Per questo una soluzione moderata tra regime e islamici con qualche spazio concesso a qualche figura politica "democratica" che copra lo status quo dell’industria estrattiva potrebbe essere gradita sia agli Stati Uniti che ai paesi arabi limitrofi. Questi ultimi infatti, dopo aver reagito positivamente all’annullamento delle elezioni algerine del 1991, hanno tutto l’interesse che il tasso di democrazia algerina rimanga contenuto per poter controllare meglio i movimenti islamici interni a ciascun paese, e mantenere le proprie democrazie sotto controllo.