Vie africane del perdono. Sudafrica e Algeria due modelli a confronto
L'esperienza della Commissione per la verità e riconciliazione del Sudafrica sta diventando un modello per la risoluzione di numerosi conflitti africani.
Il perdono come valore civile e religioso rilancia la coesione sociale e politica di paesi come Nigeria, Sierra Leone.
L'empasse ruandese.
Il terrorismo algerino ridotto a una realtà virtuale impedisce il recupero della memoria storica.
La consegna, il 29 ottobre 1998, del Rapporto finale della Commissione Verità e riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission – TRC –, cf. Regno-att. 20,1998,649 e Regno-doc. 11,1999,358), che dal 1996 al 1998 ha indagato i crimini dell'apartheid in Sudafrica, ha rappresentato una pietra miliare come via di risoluzione dei conflitti, in particolar modo in terra africana. La TRC ha infatti scandagliato un'immensa mole di avvenimenti, rendendo noti i crimini e i loro autori, le vittime e le violenze subite, individuando responsabilità individuali e collettive, ricostruendo insomma il lato oscuro di una parte della storia sudafricana.
La ricostruzione dei fatti avvenuti durante l'apartheid ha potuto dare inizio alla guarigione di una memoria collettiva ferita, oltre che dalle violenze subite, anche dall'oblio cui sembrava essere condannata, una volta che le parti in lotta, il Partito conservatore di F. De Klerk e l'African National Congress di N. Mandela, avevano firmato l'accordo nel 1993.
Tale primo importante passaggio è stato accompagnato anche da un provvedimento di amnistia che ha riguardato tutti i crimini commessi (escluse le gravi violazioni dei diritti umani, che avrebbero dovuto essere portate in tribunale), che avessero una motivazione politica rispetto all'apartheid, cui corrispondeva un risarcimento (peraltro esiguo) in segno di riparazione verso coloro a cui veniva riconosciuto lo status di "vittime".
L'elemento trainante di questo processo sono state le chiese sudafricane riunite nel Consiglio sudafricano delle chiese (South African Council of Churches, SACC), nonché la carismatica personalità dell'ex arcivescovo anglicano di Città del Capo, Desmond Tutu, cui è stata affidata la presidenza della TRC. Il credito guadagnato con gli anni della lotta all'apartheid, nonché la capillare diffusione della religione cristiana, anche se suddivisa in numerose denominazioni con differenti punti di vista, hanno fatto del SACC un soggetto centrale del processo di riconciliazione nazionale. Esso è stato inoltre il tramite simbolico che ha potuto veicolare e rendere socialmente plausibile un concetto tipicamente religioso: il concedere e il ricevere una parola di perdono.1
Ricostruzione della memoria storica, amnistia concessa in base a criteri definiti, riconoscimento della necessità della riparazione per le colpe commesse e ruolo delle chiese sono gli elementi che hanno caratterizzato il "modello" sudafricano, che si è imposto nei numerosi conflitti africani come pietra di paragone.
Affrontare la verità: i nuovi casi
La Nigeria. Il paese che sta seguendo più da vicino le orme della TRC sudafricana è la Nigeria. A metà settembre il presidente O. Obasanjo, eletto lo scorso maggio, ha istituito una commissione di sette membri, che sarà presieduta da J.O. Oputa e che indagherà sul colpo di stato militare che rovesciò nel 1966 il governo fino all'insediamento, il 29 maggio scorso, di Obasanjo. Le prime udienze si terranno nel 2000 e si protrarranno per un anno. A una settimana dalla sua apertura, la commissione ha ricevuto 11.000 memorandum che contengono denunce dettagliate di violazioni di diritti umani, le quali in maggioranza provengono dal Movimento per la sopravvivenza del popolo ogoni, il cui leader Ken Saro Wiwa fu impiccato il ?? dal predecessore di Obasanjo, il generale Abacha.
La commissione nigeriana si è riunita agli inizi di ottobre con esperti provenienti da Sudafrica, Cile, Guatemala e Argentina per stabilire in che misura e per quali crimini verrà concessa l’amnistia. Per ora essa avrà il potere di convocare i testimoni a deporre e di raccomandare il perseguimento penale di certi reati. Rispetto al Sudafrica, vi è l'importante differenza sul ruolo delle chiese, che in Nigeria è per ora di secondo piano rispetto alla commissione.2 Rivolgendosi ai nuovi ambasciatori nigeriani all’estero, Obasanjo ha affermato che essi non dovranno più "vergognarsi del proprio paese. Sono convinto – ha detto – che ora potrete affrontare la verità", senza sentire le continue pressioni che gli stati in cui s'insedieranno fanno abitualmente ai diplomatici nigeriani sul tema dei diritti umani. Si tratta infatti di rilanciare l’immagine per un paese che viene definito il "gigante dell’Africa" quanto a popolazione e territorio e, non ultime, quanto a potenzialità di sviluppo economico.
La Sierra Leone. Un caso minore ma non meno significativo è quello della Sierra Leone. Il 7 luglio la firma a Lomè (Togo) dell'accordo di pace tra il presidente A. Tejan Kabbah e Foday Sankoh, leader del movimento ribelle Revolutionary United Front (RUF) ha messo fine a uno dei più sanguinosi conflitti africani, noto per il fatto che gli uomini del RUF amputavano gli arti agli avversari – spesso donne e bambini. L'accordo firmato ha una struttura classica: compartecipazione del RUF al potere, reintegrazione delle sue forze militari nell'esercito regolare, nonché un'amnistia generalizzata (criticata dal portavoce dell'ONU in quanto essa comprenderebbe anche le gravi violazioni dei diritti umani). Tuttavia per consolidare la riconciliazione nazionale, il 5 ottobre a Port Loko – in presenza di mons. G. Biguzzi, vescovo di Makeni, che rappresentava il Consiglio interreligioso della Sierra Leone – una delegazione dei ribelli ha formalmente chiesto perdono alla popolazione civile per le vessazioni perpetrate durante la guerra (MISNA 6.10.1999). Il ruolo di mons. Biguzzi e del Consiglio interreligioso nella soluzione del conflitto è innegabile.
Lo Zimbabwe. Nello Zimbabwe la chiesa, oltrepassando il mero compito di testimone autorevole di fronte al quale si celebra un rito di perdono, ha tentato di andare in profondità alle violazioni sociali e politiche e nonostante la contrarietà del capo dello stato. Nel marzo del 1997 la Commissione Giustizia e pace della conferenza episcopale, presieduta da Mike Auret, diede notizia di un proprio rapporto intitolato Breaking the silence. Building true peace. In esso venivano analizzate migliaia di gravissime violazioni dei diritti umani, compiute soprattutto ai danni della popolazione civile, quando nella seconda metà degli anni ottanta fu soffocata la rivolta del gruppo etnico ndebele da una brigata dell’esercito, cui era a capo l’attuale presidente R. Mugabe. Il rapporto venne consegnato al presidente nello stesso marzo; a giugno la conferenza episcopale ritenne "prematuro" pubblicarlo. Solo un ministro senza portafoglio del governo chiese pubblicamente perdono nel 1998 per quegli avvenimenti, anche se a titolo personale. Ma l’insistenza per la pubblicazione del rapporto da parte di Auret, che affermava che la sua diffusione sarebbe servita a lenire le sofferenze di migliaia di civili colpiti psicologicamente e fisicamente dalla guerra civile, gli è costata il posto ed egli dopo vent’anni lascia la Commissione giustizia e pace. "Avevamo creato un’organizzazione largamente rappresentativa della base. Avevamo portato la chiesa all’avanguardia di coloro che osano dire ciò che avviene realmente", ha affermato all’agenzia ENI (1.9.1999). Mugabe lo ha accusato in televisione di turbare la pace del paese.
Quando la giustizia non basta: il caso ruandese
Se il recupero della memoria è compiuto in maniera unilaterale, si alimenta il desiderio di una giustizia a ogni costo in cui il perdono non trova spazio. È il caso del Ruanda. Le celebrazioni che ogni anno si tengono in aprile per ricordare il genocidio dei tutsi sono costantemente segnate dalla polemica contro l’altro gruppo etnico del paese, gli hutu, e con la Chiesa cattolica ruandese, considerata contigua a quest’ultima etnia. Le accuse del presidente ruandese P. Bizimungu a mons. A. Misago (cf. Regno-att. 14,1999,488) sono infatti state lanciate in quella sede.
Da un lato, si privilegiano le ricostruzioni storiche tutte volte a identificare le colpe di una sola delle parti, anche lasciando che prolifichino le biografie di sopravvissuti. Essi ricostruiscono la vicenda storica intera a partire dal proprio punto di osservazione strettamente personale e, aiutati dalla vividità e drammaticità dei fatti raccontati, tendono a far passare in secondo piano la parzialità del punto di vista del narratore.
Dall'altro lato viene data molta enfasi alle sentenze, a volte sommarie, emesse da ciò che resta dei tribunali ruandesi o a quelle – ancor più rare – del Tribunale penale internazionale per il Ruanda e non viene pronunciata la parola "perdono". Tuttavia non sembrano provvedimenti in grado di dare soddisfazione alle parti lese, né di ricucire fratture sociali tuttora aperte. Qui il silenzio della Chiesa cattolica e delle chiese in generale viene avvertito chiaramente.
Il modello algerino: ingerenza e perdono
Anche l’Algeria entra, e lo fa come modello autonomo, fra i casi di conflitto civile che sembrano giungere a soluzione tramite il ricorso alle categorie del perdono. L’elezione che il 15 aprile scorso ha portato Abdelaziz Bouteflika alla presidenza dell’Algeria (cf. Regno-att. 10,1999,350) mostrava un paese politicamente diviso, interamente controllato dall’esercito, ancora sotto la tensione del terrorismo. Di tanto in tanto si veniva a conoscenza di qualche gruppo armato che si era arreso e si apprendeva che venivano concesse delle amnistie, senza che i termini fossero noti. Il 13 luglio il Parlamento approva la Legge di concordia nazionale che chiarisce i criteri e i candidati a cui essa si applica: possono ottenere l’amnistia – entro comunque il 13 gennaio 2000 – i terroristi islamici che non abbiano commesso omicidi o stupri; per gli altri casi viene concessa, udito il parere di una commissione d’inchiesta (comité de probation) una riduzione della pena, che comunque, quale che sia il crimine commesso, non deve superare i 12 anni. Sono esclusi ergastolo e pena capitale.
Bouteflika decide quindi di realizzare una grande celebrazione – laica – del consenso, indicendo per il 16 settembre un referendum popolare per approvare la legge di luglio sulla concordia nazionale e rilegittimarsi all'interno del paese dopo la modesta prova delle presidenziali. Il sonoro 98% del "sì" (80% i votanti) indica che gli algerini gli hanno dato fiducia, ritenendo credibile il processo di pace. Tale credibilità è stata guadagnata da Bouteflika su diversi versanti.
Innanzitutto sul numero di guerriglieri islamici che si sono consegnati. Secondo i dati del Ministero degli interni resi noti nella conferenza stampa del 6 ottobre, sono 531 i terroristi (di cui 25 donne e 42 che vivevano all'estero) che si sono arresi, cui bisogna aggiungere i 463 che si sono consegnati in giugno, prima dell'entrata in vigore della legge. Il Fronte islamico di salvezza (FIS), partito islamico disciolto, propende per la strategia di Bouteflika, anche se con forti spaccature interne. Non è chiaro invece che strategia seguiranno i gruppi legati ad Antar Zouabri e Hassan Hattab, i comandanti dei gruppi più sanguinari.
Bouteflika ha poi guadagnato credibilità in base al consenso politico che tra i partiti politici dell'opposizione ha suscitato la legge sulla concordia nazionale. Si è spezzato il fronte comune che le opposizioni avevano costituito in aprile contro i brogli elettorali dell'elezione di Bouteflika stesso. Il Front des forces socialistes si è spaccato al suo interno e il leader del Rassemblement pour la culture et la democratie, Saïd Sadi, si è allineato sulle posizioni del presidente. Questo sostegno è tanto più significativo se si tiene conto del fatto che un grande numero dei suoi militanti faceva parte dei gruppi di autodifesa (Jeune Afrique, n. 2019, 21-27.9.1999, 70); il credito aperto da Sadi verso l'attuale leadership può significare inoltre il consenso verso una qualche forma di effettiva trasformazione sociale soprattutto sui temi quali la giustizia, la corruzione, le libertà pubbliche e individuali, il Codice della famiglia ecc.
Infine è stata guadagnata credibilità in base al credito internazionale che l'Algeria sta recuperando con la Francia, innanzitutto, poi con gli Stati Uniti, e persino con Israele, come ha dimostrato la serie di incontri che in luglio Bouteflika ha intrattenuto in Marocco durante il funerale di re Hassan II o il fatto che il ??? vertice dell'Organizzazione per l'unità africana si sia tenuto ad Algeri; o ancora, permettendosi di chiedere, durante ??? assemblea generale dell'ONU lo scorso ??? settembre, che i "paesi occidentali che hanno praticato la schiavitù domandino in nome della concordia umana perdono agli africani" (El Watan 23.9.1999, 2). Ha affermato Bouteflika che "la riconciliazione dell'umanità e la concordia umana passano dal fatto che si dica un po' di verità. Non chiediamo una riparazione materiale. Ma chiediamo almeno che ci si chieda perdono per quello che è stato fatto".
Contemporaneamente e nella stessa sede egli ha disapprovato la posizione del segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, secondo cui in caso di crimini contro la popolazione civile dovrebbe essere limitata la sovranità nazionale in nome del diritto d'ingerenza umanitaria: "personalmente sono estremamente sensibile – ha aggiunto Bouteflika – al fatto che si vada in soccorso di un bambino disperato picchiato dai suoi genitori nella casa accanto. Ma compiendo un'effrazione per entrare in quella casa, ho come l'impressione di violare i diritti del mio vicino di stare tranquillo nella sua casa anche se deve picchiare suo figlio". In margine all'assemblea egli poi ha completato la sua posizione affermando che, pur "essendo un amico di Allende", "se Pinochet deve essere giudicato, ciò deve essere fatto dal popolo cileno. Non ci si può sostituire a lui". In altre parole ciò significa ribadire la contrarietà a una commissione d'inchiesta internazionale sui terroristi algerini (cf. Regno-att. 18,1998,632).
Terrorismo virtuale
Qual è dunque il senso delle iniziative di Bouteflika che genericamente si condensano attorno a termini come "grazia", "perdono" e "riconciliazione"?
Innanzitutto lo strappare gli ultimi sostegni anche simbolici ai terroristi e alla lotta armata ancora presenti nelle categorie mentali della popolazione. L'immaginario collettivo della violenza ha avuto un forte radicamento non solo nell'estremismo islamico, che giustificava con la jihad una lotta per il potere e per la ricchezza, ma anche nell'esercito, che ha usato la violenza come via maestra per preservare la sua egemonia – guadagnata sul campo con la guerra d'indipendenza – e affermare la sua legittimità, in particolare sul versante internazionale, come garante della "laicità" contro la "minaccia" islamica. C'è stato in questo caso una sorta di complementarietà della violenza (cf. L. Martinez, La guerre civile en Algérie. 1990-1998, Karthala, Parigi 1999).
Poi le iniziative di Bouteflika rappresentano l'apertura di una fase ulteriore della storia algerina dopo la dura repressione della lotta armata e della società civile. Apertura che non potrebbe sopportare un processo al passato sia perché l'esercito – della cui ala moderata Bouteflika è espressione – non è disponibile a rendere conto del proprio operato, sia perché la rete internazionale che appoggia il terrorismo non si può dire smantellata.
L'esito di questa scelta è ancora incerto per le forti lacerazioni ancora in essere. Il 18 agosto un gruppo autodefinitosi Movimento algerino degli ufficiali liberi, che raccoglierebbe una sessantina di ufficiali disertori all'estero e "un numero significativo" in Algeria, ha invitato le famiglie degli scomparsi a denunciare i generali algerini come "responsabili della tragedia" in Algeria, per i centri di detenzione segreti, per le torture e tutti gli illeciti che i generali avrebbero impunemente e illegalmente compiuto durante la guerra civile.
L'altro gruppo fortemente contrario al processo di pace voluto da Bouteflika è quello riunitosi nel Comité national contre l'oubli et la trahison (CNOT), formato dalle famiglie delle vittime del terrorismo. Il CNOT rifiuta infatti di venire inglobato nella categoria, definita dal governo come "vittime della tragedia nazionale", che al suo interno non distingue tra coloro che hanno subito violenze dai terroristi o dall'esercito. Inoltre l'imposizione, a una popolazione sfinita dalla violenza, del perdono ai terroristi senza che questi abbiano compiuto una pubblica ammenda delle proprie azioni, o almeno espresso una qualche forma pubblica di pentimento, rischia di essere una costruzione fragile, anche se confida su "un popolo generoso, incline alla giustizia piuttosto che alla vendetta" (intervista a Bouteflika, La Repubblica, 24.8.1999,19).
Rispetto al caso sudafricano le differenze sono molte, sia per il contesto storico-culturale sia per le soluzioni adottate come fuoriuscita dalla crisi. Innanzitutto una delle parti, l'esercito, non è scesa a un compromesso, aprendo la gestione del potere; il conflitto è infatti tornato sotto controllo per la consunzione delle altre parti, i terroristi e i civili, e non tramite un accordo politico. Non vi è stata e, a quanto pare, non vi sarà una ricostruzione della memoria storica, ma si è scelta la strada dell'amnistia senza chiedere – a parte la rinuncia all'uso delle armi – in cambio nessuna particolare confessione, cosa che invece rappresentava il requisito minimo per la TRC sudafricana, la cui forza è stata nel fatto di consegnare alle vittime un nome e un volto di concreti colpevoli.
Una delle parti – la più debole–, e cioè la società civile non organizzata in gruppi di autodifesa, aveva già scelto la strada della pacificazione, quando tra il 1996 e il 1997, secondo le parole di mons. H. Teissier, arcivescovo di Algeri "il popolo non ha più accettato il ricorso alla violenza e i gruppi armati si sono trovati isolati. Più che la tregua decisa dall'Esercito islamico di salvezza è contata la decisione della popolazione di liberarsi dalla violenza e lavorare per la pace e per il futuro della nazione".
Vi era quindi la disponibilità di un capitale simbolico che non trovava più riferimento nella lotta armata e che non poteva dire relazione direttamente ai valori religiosi: non cristiani per il riferimento alla religione della potenza coloniale francese e neppure islamici (in Sudafrica vi sono stati gruppi islamici che si sono uniti invece all'ANC durante la lotta contro l'apartheid). Bouteflika lo ha fatto proprio, volgendolo alla legittimazione di uno stato fondato sulla pace nazionale.
Il rischio da evitare è quello di considerare il terrorismo come un "fenomeno virtuale, che esiste solo nei cimiteri dove sono sepolte le vittime" (El Watan 6.10.1999,4), ma che non ha il volto e il corpo di chi ha compiuto quei crimini.
1 Sul tema "Forgiveness and Reconciliation. Religious contribution to conflict resolution" si è tenuto ad Harvard il 2-3 ottobre un simposio organizzato dalla Templeton Foundation, di cui verranno pubblicati gli atti, cui ha preso parte anche D. Tutu. Cf. www.forgiveandreconcile.org.
2 Lo stesso Obasanjo alla fine di settembre ha creato il Consiglio interreligioso della Nigeria (Nigeria Inter Religious Council) per cercare di dirimere la forte conflittualità tra cristiani e musulmani, in vista di una reciproca collaborazione nell’interesse nazionale.