Chiesa in Algeria: Oltre il deserto
La prima impressione, arrivando ad Algeri e uscendo all’aperto, è di una giornata calda ma arieggiata, molto serena e luminosa. Le persone sono per lo più vestite all’occidentale, solo qualche donna è velata e pochissimi uomini portano l’abito lungo. Non c’è una grande confusione, nonostante ci sia abbastanza gente in transito. Algeri è una magnifica città sul mar Mediterraneo, adagiata su un grande golfo. Potrebbe richiamare un po’ Genova o Amalfi. Molte strade sono in salita. Alcune salite sono veramente ripidissime. Nella parte alta del quartiere stanno le ambasciate. Molte guardie armate sorvegliano l’intera zona.
Cabilia
Nella cosiddetta maison diocesaine risiede l’arcivescovo di Algeri, mons. Henri Teissier. La casa, una costruzione abbastanza vecchia, è lunga e gialla, alta due piani, circondata da un ampio giardino, un luogo che sarebbe ameno ma sembra in stato di abbandono e molto impolverato, con belle piante esotiche ma senza prato e fiori. Mons. Teissier è vestito in giacca e cravatta e non porta altri segni particolari, neppure una piccola croce, se non l’anello al dito; è colto, umile e molto intelligente.
Il giorno dopo l’arrivo, mi aggrego a p. Jean-Pierre Henry, uno dei più stretti collaboratori dell’arcivescovo, per un viaggio nella pericolosa regione della Cabilia. Ho evitato di indossare il minimo segno che mi identifichi come sacerdote. La Grande Cabilia è una regione montagnosa delimitata a nord dalla città di Bejaïa, sul mar Mediterraneo e a sud da un’altra grande città detta Bouira. La Piccola Cabilia, in realtà molto più vasta, si trova invece dalla parte orientale. La città più importante della Piccola Cabilia è Constantine, che è sede episcopale e nel cui territorio sta l’importante città di Annaba, l’antica Ippona, dove visse s. Agostino. La Grande Cabilia ci appare subito impervia e inospitale. È circondata, quasi assediata da due catene montuose che la accerchiano e la chiudono. Le montagne arrivano anche a 3.000 m di altezza. La popolazione che la abita è discendente di una delle tribù che formavano gli abitanti locali detti berberi. I cabili sono molto gelosi della propria identità nazionale e non fanno mancare di osservare, più o meno pacificamente, di essere i legittimi proprietari della regione in quanto originari, mentre gli altri, cioè gli arabi, sono sopraggiunti solo successivamente e tardivamente con la loro religione. Anche i cabili sono musulmani, ma rivendicano anche con azioni violente la propria autonomia rispetto al governo e all’amministrazione centrale.
Proprio nei giorni del nostro viaggio è stato finalmente arrestato, dopo anni di latitanza, il capo più rappresentativo dei terroristi cabili. La Cabilia è per questo una regione assai pericolosa e fortemente sconsigliata agli stranieri, a maggior ragione se turisti. Procedendo nel nostro itinerario, infatti, si moltiplicano i posti di blocco della gendarmeria algerina. I posti di blocco che ho conosciuto in Algeria, diversamente da quelli che avevo conosciuto in Israele, sono certamente un intoppo e rappresentano un indubbio rallentamento del traffico; tuttavia in certe zone sono così frequenti che, per rendere possibile la circolazione, diventano facilmente oltrepassabili. In genere si tratta di restringimenti delle corsie che da tre diventano una, grazie a una barriera di cemento. I gendarmi sono tutti armati e imbracciano il mitra. Passando bisogna rallentare, così che il gendarme veda bene in faccia l’autista e gli occupanti dell’auto prima di dare un cenno evidente con la mano che serve da permesso di passaggio. Se un’auto già passata accenna a fermarsi o a tornare indietro, mi dicono che viene istantaneamente mitragliata. Uno dei sistemi di maggiore successo delle azioni terroriste nelle due zone calde dell’Algeria, cioè in Cabilia e a Chlef, è costituito dai falsi posti di blocco, cioè da posti di blocco costruiti da terroristi con l’uniforme della gendarmeria che così possono facilmente scegliere le loro vittime.
Facciamo sosta è a Tizi Ouzou, una città di montagna, brulicante di gente che si affretta alle proprie attività il primo giorno della settimana. Ci fermiamo a suonare il campanello del convento dei padri bianchi. Ne sono rimasti attualmente due. Quattro sono stati uccisi nel dicembre 1994 da terroristi travestiti da rappresentanti dell’amministrazione locale. Si sono presentati al convento all’ora di pranzo, li hanno invitati a presentarsi per firmare dei documenti presso gli uffici del comune e li hanno uccisi davanti a casa. Altri due giovani padri bianchi, mandati a rinforzo dei superstiti, hanno chiesto un periodo di sospensione e di riflessione. Comincio a rendermi conto del senso e dell’enorme valore del viaggio di Jean Pierre, che ogni due settimane visita le persone isolate in quei luoghi. È un ministero itinerante di consolazione e d’incoraggiamento a rimanere, a non fuggire, a non lasciare, a sperare ancora.
Uno scriba
Riprendiamo il nostro viaggio e continuiamo a salire. La strada diventa sempre più stretta. Attraversiamo L’Arbaa Naït Irathen (900 m), dove ci fermeremo al ritorno, e raggiungiamo Aïn El Hammam (1.080 m). Questa città è la nostra destinazione finale.
In una casetta costruita al principio di una ripidissima via centrale e costituita da un unico piano abita il diacono Jean Pierre Hiron. Il suo lavoro è praticamente quello di «scriba», cioè compilatore dei documenti che i privati devono preparare e spedire al governo francese per ricevere sovvenzioni, risarcimenti, pensioni per lavori svolti all’estero. Il suo lavoro, come tutti gli altri prestati dai cristiani che ho conosciuti in Algeria, è un umile servizio sociale alla popolazione. La sua abitazione è disadorna ma decorosa. Mi sembra di aver intravisto nella cucina una televisione, e c’è il telefono. Decidiamo di celebrare la messa. Il diacono porta una candela, un fiore, un piatto e un piccolo calice e li dispone sul tavolo della stanzetta dove normalmente riceve le persone per il suo lavoro, e si inizia così come siamo, voglio dire senza paramenti. È in assoluto la prima volta che mi capita di celebrare così. Il rito è in francese, la seconda lettura in italiano, l’omelia è uno scambio di pareri in parte in francese in parte in italiano. È stato un momento particolare, molto semplice e intenso. La povertà del luogo, la sensazione di essere appartati e isolati, una presenza in mezzo a un mondo totalmente altro, e l’impressione di poter soltanto offrire una preghiera sommessa e nascosta.
Ad Arbaa Naït Irathen, la sera stessa, incontriamo, in una casa ai margini della città, sr. Elisabeth Herkammer, una suora bianca tedesca, che regge da sola una grande scuola di cucito per ragazze. È questa l’ultima visita significativa del nostro tour in Cabilia. Il nostro viaggio riprende mentre la luce comincia a svanire.
La Madonna dei musulmani
Il giorno successivo sono accompagnato in una visita all’arcivescovado. Anche qui il clima che si respira è estremamente semplice e cordiale. La cattedrale dista una diecina di minuti a piedi dalla curia. È un enorme edificio in cemento armato, a più piani, chiuso. Ci accoglie il rettore p. Julien Oumedjkane. L’edificio è nuovo e abbastanza bello, ma ha già enormi problemi di manutenzione. Una preziosità artistica della cattedrale è un mosaico proveniente da un sito archeologico e ricostruito sulla parete di destra accanto all’ingresso principale. Attraverso un gioco ad incastri tipo parole incrociate risulta costellato dall’iscrizione Ecclesia sancta ripetuta in modo ossessivo. È un mosaico del IV o addirittura del III secolo, che attesta la fierezza di appartenere alla Chiesa. Nôtre Dame d’Afrique, un’altra Chiesa alla cui visita vengo accompagnato, è una grande basilica posizionata in alto su un promontorio che sporge verso il mare nella zona ovest di Algeri. La monumentale costruzione è stata ultimata nel 1872 grazie all’intraprendenza di mons. Lavigerie. Costui fondò la Società dei padri bianchi e la Congregazione delle suore bianche e fece di Nôtre Dame d’Afrique il luogo in cui i primi membri dei due ordini religiosi pronunciarono i loro voti al servizio della Chiesa d’Africa. Da allora tutti i missionari votati alla missione africana hanno in questa grande basilica un punto importante di riferimento. A testimonianza della devozione dei missionari e dei cristiani le pareti della chiesa sono lastricate di una miriade di ex voto, tra i quali si possono vedere e leggere bene quelli lasciati da Charles de Foucauld (1858-1916) in diverse visite compiute al santuario. Ma l’aspetto più sorprendente è la presenza e la visita continua di musulmani, che frequentano il piazzale antistante e la chiesa stessa, entrano per pregare, si siedono ai banchi, visitano le cappelle e gli affreschi, venerano la statua della madonna nera che svetta in alto sull’altare maggiore, accendono candele (!) e acquistano souvenir all’ingresso. A conferma dell’importanza di questo luogo di incontro e di preghiera tra i cristiani e i musulmani, una grande scritta circolare a caratteri cubitali orna la base dell’abside recitando in francese: «Maria prega per noi e per tutti i musulmani».
Le donne al pozzo
La Caritas diocesana occupa alcuni locali nel retro della maison. Umberta Fabris, detta amichevolmente Viledi, una ragazza italiana di Perugia che è in Algeria da ormai 12 anni, focolarina, ci racconta delle attività coordinate dal suo ufficio, in particolare di una pubblicazione periodica destinata ragazze e giovani donne su temi per loro interessanti. Si tratta di Hayat, una rivista bimestrale socio-culturale scritta da un gruppo di donne coordinate da Umberta in collaborazione con la Croissant Rouge Algerine, il cui logo si presenta però non con la tradizionale croce rossa che noi ben conosciamo ma con la mezza luna rossa (simbolo musulmano). Il numero di cui ci ha fatto omaggio (luglio-agosto 2002) tratta di educazione, dietetica, cucina ed è scritto sia in francese che in arabo. Oltre alla pubblicazione della rivista, la Caritas diocesana cura anche un giornale mensile d’informazione che ha di mira in modo speciale educatrici impegnate nel mondo dell’handicap e maestre delle scuole materne. Inoltre anche in questi locali della maison è attiva una biblioteca aperta al pubblico.
Incontriamo anche Marisa, un’anziana suora bergamasca, nativa di Zogno, vestita molto modestamente e di nuovo senza alcun segno particolare di riconoscimento, la quale ci accoglie festosamente e ci offre da bere (dell’acqua) raccontandoci in breve la sua vita spesa in Algeria e per alcuni anni, quelli del terrorismo più violento, in altri paesi del Nordafrica. Suor Marisa ci racconta anche delle molte presenze e attività delle vincenziane in Algeria e ad Algeri, ora quasi completamente scomparse. Le loro stesse strutture, per esempio grandi orfanotrofi, sono stati rilevati dallo stato al momento della conclusione della guerra per l’indipendenza dalla Francia (1954-1962). C’è insieme, nel suo racconto, un senso di dispiacere per la riduzione delle presenze di suore e delle loro molteplici attività e di pace, quasi di letizia, per essere ancora lì, in quella terra, con quel popolo amato, a pregare e a sperare.
Tibhirine
Se le autorità avessero saputo che la nostra destinazione era Tibhirine, il giorno successivo, ci avrebbero senz’altro impedito di andarci così, senza scorta e senza avvertire le autorità di polizia locale. Durante il viaggio incontriamo in effetti numerosi posti di blocco. Man mano che ci allontaniamo da Algeri ci lasciamo alle spalle la pianura desertica e incominciamo a salire in alto attraverso una gola sempre più stretta. La strada è in buono stato e abbastanza trafficata. Incontriamo sempre più frequentemente soldati, jeep e camioncini di militari e di poliziotti. Ogni tanto si intravedono campi e insediamenti militari. Nelle frequenti soste il pensiero correva spontaneamente agli ormai numerosi racconti di incursioni improvvise e nefaste da parte dei terroristi in questa zona isolata di montagna, e poi si riprendeva il viaggio per qualche minuto fino alla sosta successiva.
Io e p. Jilles, il mio accompagnatore, arriviamo a Médéa intorno alle 9,30. Qui p. Jilles è stato parroco per alcuni anni. Nel territorio della sua parrocchia, a circa 6 km dal centro abitato, sta il monastero trappista di Tibhirine. P. Jilles lo frequentava assiduamente, e quando non lo poteva raggiungere in auto per il maltempo (pioggia molto intensa o neve: Médéa è alta a 1.000 m sul livello del mare) ci andava a piedi. Era per esempio presente in monastero alla prima minacciosa visita che «i fratelli della montagna» – come affettuosamente i monaci cistercensi chiamavano i terroristi – fecero la sera del 24 dicembre 1993. Davanti al portone d’ingresso ci attende, seduto su un gradino, p. Robert, un monaco benedettino eremita che abita in una zona molto isolata di fronte al monastero. Assiduo frequentatore dei monaci, è venuto a tenere aperto il monastero abitandoci per tre anni da solo dopo l’uccisione dei sette trappisti avvenuta il 26 maggio 1996. In seguito i cistercensi hanno tentato di riaprire, con una certa solennità, una comunità trappista, ma l’esperimento dopo pochi anni è fallito. Il monastero è stato definitivamente abbandonato e messo in vendita.
Mons. Teissier, ritenendo il luogo troppo importante, significativo e rappresentativo del dialogo e dell’incontro in terra d’Algeria tra il cristianesimo e l’islam, lo ha rilevato e sta cercando una comunità disposta ad occuparlo. Tibhirine, che significa «giardino», si trova sull’altipiano dell’Atlante, a circa 1000 m d’altezza, ed è una grande terrazza sull’Algeria. Si vedono a occhio nudo sterminate distese di monti e deserti. La zona del monastero è cinta da un muro abbastanza alto. Gli edifici sono diversi: foresteria, chiostro, monastero, laboratorio, chiesa, e non distante il piccolo cimitero, che accoglie i sette monaci uccisi nel 1996.
In chiesa, il pavimento è ricoperto da una moquette scura, il tabernacolo è incassato nella parete centrale, adornata da un paio di icone. Sulla parete di sinistra guardando la croce sta una vetrata colorata. Abbiamo celebrato l’eucaristia. Sono stato il primo prete italiano a celebrare l’eucaristia in quel luogo reso prezioso dalla testimonianza fedele dei trappisti uccisi.
Nel monastero, le camere con ancora i letti e qualche arredo sono in stato di abbandono, mentre i locali di uso comune sono meno trascurati. Il refettorio è intatto, sembra quasi pronto per essere apparecchiato. Nei prati sotto il monastero, ancora dentro il muro di cinta, un paio di persone stanno lavorando la terra. Sono musulmani, amici dei monaci, e attuali gelosi custodi del monastero. Hanno le chiavi, ci hanno aperto il portone e ci hanno accolto festosamente, come persone di casa.
La visita a Tibhirine è un percorso dentro la memoria e la testimonianza. La sosta più intensa e incisiva: quella cappella vuota con sette candele accese durante l’eucaristia, quei locali abbandonati, quel cimitero silenzioso eppure così eloquente sono entrati profondamente nel mio spirito.