Dieci anni da Tibhirine
Sono passati dieci anni. Dieci anni esatti da quando i sette monaci di Tibhirine vennero prelevati dal monastero nella notte del 27 marzo 1996 da un gruppo armato e da quando il 21 maggio un comunicato del Gruppo islamico armato (GIA) annunciò la loro morte. I corpi mutilati furono trovati il 30 e il loro funerale venne celebrato ai primi di giugno (cf. Regno-att. 8,1996, 216; 12,1996,361).
Un anniversario non solo per la Chiesa ma per tutta l’Algeria: il loro rapimento, il modo in cui sono stati uccisi e soprattutto la nebbia che ancora avvolge i responsabili del delitto e i loro mandanti fanno di questo avvenimento un simbolo del decennio di sangue che negli anni novanta ha travolto l’Algeria e da cui si è usciti con una parola d’ordine imposta dal governo: dimenticare.
Che la questione religiosa e il recente passato dell’Algeria siano strettamente intrecciati lo dimostra il coincidere di alcuni significativi avvenimenti in ambito normativo. Il 1o marzo il Journal Officiel pubblica un’ordinanza presidenziale per la messa in opera della Carta per la pace e la riconciliazione nazionale – approvata per referendum nel settembre 2005 (cf. Regno-att. 18, 2005, 626) – che punisce con la reclusione da 3 a 5 anni e con un’ammenda dai 2.800 ai 5.600 euro «chiunque utilizzi (…) le ferite della tragedia nazionale per arrecare pregiudizio alle istituzioni della repubblica (…) danneggiare l’onorabilità dei propri funzionari che l’hanno degnamente servita od offuscare l’immagine dell’Algeria a livello internazionale».
Le voci dei media che avevano dato credito all’ipotesi che i mandanti dell’uccisione dei monaci fossero i servizi segreti algerini sono state accusate di «un atto di sabotaggio della pace». Voci peraltro da confermare, visto che le testimonianze di alcuni terroristi pentiti indicano nel GIA il responsabile unico di quella morte. Ma non vi sono imputati per questo come per gli altri delitti: nessun processo, nessun colpevole.1
A fianco del provvedimento sulla riconciliazione ve n’è un secondo, pubblicato lo stesso giorno, e che «stabilisce le condizioni e le regole per l’esercizio dei culti non musulmani». Esso dovrebbe riguardare unicamente i cristiani di matrice evangelicale che praticano un proselitismo spregiudicato nei confronti dei musulmani, in particolare nella regione che da sempre rivendica un’autonomia economica, politica e linguistica dal governo centrale: la Cabilia (cf. Regno-att. 18,2004,609; 10,2005,294).
Tuttavia il testo apre un varco per un’ulteriore forma di controllo da parte del governo nei confronti della Chiesa cattolica. A riprova che la libertà religiosa è questione di libertà civile e viceversa.
Proselitismo sovversivo
Il testo, presentato come ordinanza del Consiglio dei ministri e successivamente approvato il 20 marzo sia dal Consiglio della nazione (senato) sia dall’Assemblea popolare nazionale (parlamento), si propone, infatti, di regolamentare i culti non musulmani a partire – affermano ambienti ufficiali – da tre fatti: la Costituzione algerina dichiara l’islam religione di stato; essa però tollera la presenza di altre religioni; negli anni novanta si è intervenuti per regolamentare l’islam e in particolare per correggere la tendenza delle moschee a diventare luoghi di aggregazione politica (antigovernativa).
Pertanto oggi una legislazione sugli altri culti è un atto dovuto – affermano fonti governative – e non costituisce un elemento nuovo. Essa – ha dichiarato il capo dello stato A. Bouteflika – è volta a «proteggere l’islam, religione di stato, da pratiche (…) anarchiche e persino mercantilistiche» che lo aggrediscono.
Tuttavia questa legge, che prevede dai 2 ai 5 anni di carcere e forti ammende per chi cerca di «convertire un musulmano a un’altra religione», o «fabbrica, immagazzina e distribuisce documenti stampati, audiovisivi od ogni altro supporto o mezzo che mette in dubbio la fede di un musulmano» è stata scritta senza consultare i «culti non musulmani», ha detto il vicario di Algeri, mons. Gilles Nicolas. Il testo prevede inoltre l’istituzione di una Commissione nazionale per i culti, incaricata di dare «un parere previo all’assenso» perché le associazioni possano esistere legalmente e finalizzare degli edifici al proprio culto.
«Non è una legge molto rassicurante e non siamo soddisfatti di come è stata formulata. Se qualcuno ha cattive intenzioni ne può fare un uso distorto», ha aggiunto mons. Nicolas. Quanto al testo della legge, l’esperienza del cattolicesimo in Algeria da sempre ha bandito «ogni mezzo di seduzione che tentasse di allontanare un musulmano dalla propria fede (…) nella fedeltà a ciò che il Vaticano II ha detto sull’islam e le altre religioni», ha ricordato in uno specifico messaggio alla diocesi mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat. «Continueremo a vivere nel rispetto reciproco delle nostre differenze, ricevuto come un dono misterioso di Dio. (…) Gesù c’insegna che l’amore, sia di Dio sia del prossimo, non s’impone mai con la costrizione. E questo rimane vero sempre, anche quando nella storia i suoi discepoli hanno avuto comportamenti diversi e riprovevoli. (…) Continueremo a opporci a che le nostre attività caritative abbiano fini diversi dal servizio alla persona umana. Sarebbe come rovesciare il senso delle parole stesse di Gesù: "Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra" (Mt 6,3). Sarebbe negare la gratuità dell’amore di Dio per l’uomo. Sappiamo che questa legge potrebbe subire interpretazioni sbagliate o dare adito a sospetti infondati. Ci assumiamo questo rischio, che è quello di tutti i credenti e di ciascuna persona di fronte alla giustizia umana, anche se ci dispiace che sia accompagnata da disposizioni penali».
E uno dei primi frutti ambigui resi possibili dalla legge – come ha evidenziato mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri – si è fatto sentire: il Ministero degli interni ha negato alla Chiesa cattolica il permesso di recarsi a Tibhirine tre volte la settimana, anche in risposta al flusso crescente di cristiani stranieri che venendo in Algeria desiderano visitare i luoghi di questi martiri contemporanei, ma solo una volta ogni quindici giorni e con la scorta. Sembra quasi di cogliere il timore del governo di vedersi sfuggire il controllo su Tibhirine se diventasse meta di veri e propri pellegrinaggi.
In questo decimo anniversario la diocesi di Algeri aveva pensato a una commemorazione – presso il monastero – più ufficiale della consueta visita privata del vescovo e dei suoi più stretti collaboratori, allargando cioè la partecipazione alle famiglie dei monaci e ai membri dell’ordine cistercense. Tuttavia poiché le autorità avevano imposto l’uso della scorta per recarsi al monastero, un comunicato dell’ordine monastico ha annullato la cerimonia affermando: «Agli occhi della gente queste scorte ci identificano con il governo e con i militari, dando un segno contrario a quello dell’amicizia, della fiducia e della pace che noi vogliamo vivere in questa manifestazione».
A dieci anni dal martirio, la memoria di Tibhirine non può ancora essere celebrata pubblicamente.
1 Nel 2003 i familiari di uno dei monaci, Christophe Lebreton, e l’ex procuratore generale dell’ordine cistercense Armand Vielleux, hanno depositato una denuncia contro ignoti presso il tribunale di Parigi, nonostante il parere contrario delle altre famiglie. Ha dichiarato la sorella di fr. Christophe, É. Bonpain: «Capisco che questo gesto forse ha creato difficoltà per la Chiesa d’Algeria. Ma al momento penso sia necessario fare chiarezza. La diplomazia ha dei limiti».