Un sogno, la pace
La Comunità del Sacro Cuore di Arezzo mediatrice tra Russia e Cecenia
La diplomazia dei piccoli.
Aumentano in molte aree di conflitto gli interventi umanitari e "diplomatici" di organismi di volontariato e di carità.
Dopo le numerose iniziative della Comunità di Sant'Egidio (Mozambico, Algeria) e di Beati i costruttori di pace (ex-Iugoslavia) è ora il caso di una comunità di Arezzo.
Fare la pace tra due popoli in guerra è desiderio di ogni uomo, da sempre; a noi, della Comunità del Sacro Cuore, di Arezzo, è toccato di avvicinarci in un modo incredibile eppure realissimo, impensabile eppure ragionevole, a un tale desiderio, permettendoci di gustare qualcosa della profezia della pace. Si è trattato di un tentativo di mediazione per il ristabilimento della pace tra Governo della Federazione russa e Repubblica di Cecenia, intrapreso in collaborazione con i monaci camaldolesi e i francescani de La Verna.
Tentare di metter pace tra Elsin e Dudayev è e sarà impresa ardua per chiunque; non meno difficile scrivere o anche semplicemente raccontare in modo equilibrato un'avventura la cui caratteristica dominante è stata la sproporzione tra l'oggettiva grandezza e complessità dei fatti e la nostra piccolezza.
Gli antefatti
Perché una comunità, a un certo punto, decide di provare a metter pace tra due popoli tanto lontani geograficamente, culturalmente e spiritualmente?
Gran parte della motivazione trae origine dallo "spirito di Assisi", da quel 26 ottobre 1986 quando la nostra comunità fu come segnata dalla forza spirituale contenuta nel gesto voluto da Giovanni Paolo II e provocata a spendersi nella direzione che quella profezia indicava.
Da lì, la figura di Francesco d'Assisi, già presente nel sentire spirituale della Comunità, ci condusse a riscoprire il santuario de La Verna, presenza francescana tra le più significative per l'avvenimento delle stimmate. In seguito la conoscenza della figura di Giorgio La Pira fu un altro passo decisivo: mobilitò in noi la già diffusa sensibilità per i problemi della pace e ci aprì nuovi orizzonti di impegno che si saldavano allo spirito di Assisi. Lo stesso La Pira ci offrì un motivo in più per riscoprire La Verna e, con questa, il vicino monastero di Camaldoli. Furono proprio gli amici fiorentini di La Pira ad invitare cinque di noi in un viaggio in Russia, appunto sulle orme del primo viaggio che il sindaco di Firenze realizzò all'epoca di Kruscëv. In quell'occasione – era il novembre 1987 – si poterono toccare con concretezza i segni di un mutamento d'epoca imminente.
Il desiderio di innestarsi in un processo storico che apriva grandi speranze non tardò a trovare una forma concreta: di ritorno da quel viaggio, costatato il pullulare delle esperienze teatrali giovanili, decidemmo di scrivere a Raissa Gorbaciova, presidente del Fondo sovietico per la cultura, per chiederle di fare da madrina a uno scambio di proposte teatrali tra giovani italiani e russi, sul tema della pace. Inaspettatamente giunse la risposta positiva, così nel dicembre del 1988 partimmo in 72 per portare lo spettacolo musicale "Francesco d'Assisi, uomo di pace" ai giovani di Mosca, Leningrado e Kaunas, in Lituania; francescani e camaldolesi condivisero con noi i preparativi, la vicenda e i suoi esiti. Esperienza che doveva introdurre irreversibilmente la Russia del nostro cuore, mentre Francesco introduceva noi nei cuori di centinaia e centinaia di persone. Una di queste ci colpì in particolar modo: era Dmitrj Segheievic Lickacëv, che insieme a a Sakharov rappresentava l'anima del popolo russo, l'insopprimibile anelito alla libertà, il testimone nonviolento dello sterminio stalinista. Ci ricevette davanti alla televisione russa, improvvisando una lezione sulle comuni radici spirituali di "est" e "ovest", incarnate in due personaggi straordinari: san Francesco e san Giorgio di Radonez.
Con lui nacque un'amicizia che lo portò, nel 1993, a farci visita. Conobbe Camaldoli, conobbe La Verna e ne rimase come "folgorato". Intimamente commosso, ci raccomandò, quasi come in un testamento, di portare i popoli in guerra a La Verna, di portarvi i loro capi, perché lì avrebbero fatto la pace. In quell'occasione l'accademico Lickacëv si riferiva esplicitamente alla guerra nella ex Iugoslavia; la Cecenia non faceva parlare ancora di sé.
I fatti
Quando però, nel dicembre 1994, scoppiò la crisi cecena, la richiesta di Lickachev risuonò immediatamente nella nostra mente e così gli telefonammo una sera e gli chiedemmo se quella proposta valesse anche nel caso specifico della guerra in Cecenia. Dmitrj Sergheivic non esitò e si dichiarò disponibile a fare tutto quanto era in suo potere.
Cominciava l'avventura: riuscire a far parlare due governi che in quel momento non avevano alcun contatto se non quello della guerra e nessun interlocutore credibile per entrambi: nessuno interno alla Russia e, tanto meno, nessuno esterno, dal momento che il governo russo non poteva accettarne in via di principio, dichiarando la guerra cecena un'"operazione di polizia interna". Mettemmo a punto la proposta di offrire un tavolo di trattative segrete al santuario de La Verna tra russi e ceceni, in un luogo cioè dove ciascuna delle due parti avrebbe potuto sentirsi a proprio agio, senza i rischi di "perdere la faccia".
Il primo periodo fu un intenso lavoro esplorativo dove furono mobilitate tutte le nostre conoscenze in terra russa. Nel contempo dovevamo esplorare la fattibilità dell'operazione, le eventuali controindicazioni: occorreva avere una serie di "segnali verdi" in alto loco che ci furono accordati.
Giunti a un certo livello di maturazione di questi contatti, organizzammo un primo viaggio in Russia, in marzo, in cui furono perlustrate le strade possibili da battere: dovevamo arrivare ai massimi livelli delle due parti: Eltsin e Dudayev. In sette giorni la nostra delegazione a Mosca e a San Pietroburgo riuscì ad avere l'apprezzamento favorevole delle due parti e la disponibilità a prendere in esame la singolare proposta. Dmitrj Lickacëv e Serghej Kovalëv, presidente della commissione per i diritti umani, furono i nostri battistrada: senza di loro nulla avremmo potuto ottenere. Ai ceceni eravamo giunti con l'aiuto di Fulvio Scaglione, adesso vice-capo redattore di Famiglia cristiana e allora corrispondente da Mosca, che ci aveva presentato a un uomo di profonda sensibilità umana e culturale: Mukadi Izrailov, rettore dell'Università di Grozny e capo della comunità cecena di Mosca (40.000 persone). Quest'ultimo ci presentò a sua volta Kamad Kurbanov, ambasciatore di Dudayev a Mosca.
A maggio giunsero improvvisi due fax: uno dal Cremlino e uno dall'ambasciatore di Dudayev a Mosca, Kurbanov: "Venite subito!". La seconda delegazione composta, oltre che dal sottoscritto, da Domenico Giani, della comunità, p. Emanuele Bargellini, abate generale dei camaldolesi e p. Rodolfo Cetoloni, vicario provinciale dei frati minori di Toscana, parte alla volta di Mosca con grande timore e speranza. Sette giorni di spola ininterrotta tra i due "contatti" ceceno e russo a tutte le ore del giorno e della notte, nei posti più impensati: parchi pubblici senza luce, scantinati, grandi automobili condotte da "gorilla", bar e piazze...
È stato un lavoro frenetico, punteggiato dalla preghiera e accompagnato dall'eucaristia, che ha permesso di costatare quale comunione e unità esistesse tra noi della delegazione e tra le tre realtà tanto diverse che esprimevamo; fatto questo che ci ha permesso di giocare con assoluta libertà le nostre differenze al servizio dell'obiettivo della pace, che mai avevamo sentito così percettibile, drammatico, rischioso. Eravamo tra le due parti come un filo tenue, sostenuto dalla nostra speranza, che reggeva e che a tratti sembrava rompersi, quando, per esempio, ci imbattevamo in improvvise recrudescenze di paure, di sospetti o in legittime esigenze strategico-militari che non consentivano a una parte di venire incontro alle richieste dell'alltra. Le "impasse" sembravano interminabili e le attese delle decisioni dei due "stati maggiori" erano estenuanti.
In tutti questi passaggi costatavamo l'avvverarsi di un sogno, come quando nella sala del Cremlino, accanto alla stanza di Eltsin – proprio nella stanza dei bottoni: c'erano una cinquantina di telefoni – al tavolo della trattativa potemmo affermare per bocca di uno di noi che noi eravamo lì poveri di tutto, a parlare dalla nostra povertà e a nome dei poveri, di coloro che muoiono, noi che eravamo lì ricchi solo della fede e dell'amore che fu di Francesco, forse assurdi, pazzi.
"Ogni uomo semplice porta in cuore un sogno... " abbiamo cantato tante volte; lì la vita diventava quel canto: i poveri venivano ascoltati dai potenti e noi vedevamo con certezza ciò che distrugge ogni scetticismo: i potenti hanno bisogno dei poveri, per restare uomini e trovare soluzioni umane.
Un gioco paradossale
È stato un gioco paradossale dove si dovevano coniugare calcolo sapiente e fiducia incondizionata, prudenza e capacità di osare l'impossibile, logica minuziosa e abbraccio senza riserve, magari con gli occhi gonfi di pianto; dovevamo conservare un intenso raccoglimento interiore: alla scuola del monaco Emanuele ciascuno doveva risvegliare il proprio monaco interiore.
Vorrei riconsegnarvi i tanti volti – italiani e russi – davanti ai quali dicevamo: "vogliamo fare la pace tra Russia e Cecenia"; c'erano quasi tutte le reazioni possibili: scetticismo, bonarietà venata d'ironia, preoccupazione, entusiasmo, disponibilità immediata e coinvolgimento.
Abbiamo bussato e abbiamo trovato: tra gente diversissima come professori e diplomatici, senatori e imprenditori, vescovi e gente ignota (come tale signor Fedi che ci prestò la sua carta di credito per avere a noleggio un'auto, di notte a Vienna, e giungere così in tempo ad Arezzo). Ognuno ha speso e rischiato, ha offerto qualcosa di proprio (tempo, ruolo sociale, soldi, conoscenze) mettendo però in palio la propria umanità più vera. È stato bello sentire imprenditori come Antonio Zucchi e Giuseppe Baracchi più preoccupati della nostra sicurezza e incolumità che non dei soldi investiti (e sono stati tanti) o vedere un generale dei camaldolesi che sblocca un'impasse della trattativa sistemando in modo accettabile alle due parti carri armati e artiglierie o conoscere un senatore come GianGiacomo Migone che fa vivere tutta la propria passione umana e intellettuale dentro le anguste strettoie istituzionali; una gara di generosità che ha permesso il formarsi di un "Gruppo di lavoro" informale, in contatto permanente, che talvolta si incontrava a Rondine (un paesino sull'Arno a pochi chilometri da Arezzo dove abbiamo ricostruito alcune case per le nostre attività) per fare il punto lontano da sguardi indiscreti, di notte, popolando di grosse auto la piccola piazza davanti alla chiesa.
Questo spirito di comunione, maturato in un paziente lavoro quotidiano, è stato quello che forse siamo riusciti a comunicare ai nostri interlocutori russi e ceceni. Questi, infatti, oltre a positivi apprezzamenti espliciti si lasciavano andare a qualche commento dietro le spalle, che Alessia, l'interprete, riusciva a cogliere: "ma quelli sono dei bambini!" ebbe a dire un giorno il nostro "contatto" russo.
Vorrei anche far risplendere su di voi qualcosa della luce degli occhi del ceceno Khamad, musulmano, cui avevamo regalato il tau nel primo viaggio: a ogni passaggio difficile degli incontri, alla fine, mi guardava di sotto in su, tirando appena fuori dalla tasca il tau per tranquillizzarmi... e sorrideva. Che desiderio di realizzare la tua promessa, quella di portarmi a camminare sulle montagne del Caucaso, in quei punti così scoscesi dove i contadini si legano agli alberi per tagliare il fieno! Khamad, "amico per l'eternità", come mi dicesti al telefono, appena uscito di prigione dove ti avevano permesso di conservare solo quell'inutile oggettino che si chiama tau e dove ti aveva raggiunto, tramite "radio-carcere", la notizia che qui in Italia si pregava ogni giorno per te insieme a tanti monasteri di clausura! Khamad, fratello mio, mi hai fatto stupire di me stesso quando ho pianto, impaurito per la tua incolumità!
La nostra delegazione era passata da tutte le barriere ed era arrivata a destinazione un po' come il tau era passato sotto lo sguardo dei carcerieri di Khamad: roba di nessun valore!
Un accordo raggiunto
Così giungemmo a un accordo, tutto a voce, tra il Governo russo e quello ceceno: noi ne eravamo i promotori e i garanti. Era stato messo a punto un segnale reciproco di fiducia offerto in segreto dalle due parti con inizio dalla mezzanotte del 30 maggio e termine alla mezzanotte del 2 giugno. I ceceni si impegnavano a non compiere alcun atto terroristico nella città di Grozny e nelle retrovie russe, i russi a non compiere alcun bombardamento con aerei o elicotteri. Venivano concessi ai russi voli di semplice ricognizione e i ceceni, unilateralmente, come gesto di buona volontà, si impegnavano già prima della mezzanotte convenuta a rilasciare un gruppo di circa 100 soldati russi tenuti in scacco in una gola delle montagne vicino al paese di Dubajurt. Sul fronte sarebbero continuate le stesse identiche azioni di guerra degli altri giorni.
Eravamo giunti tanto in là che Domenico ripartì anticipatamente per l'Italia dove con il nostro Governo avrebbe dovuto predisporre nel giro di pochi giorni l'arrivo delle due delegazioni e interessarsi a tutti i problemi di sicurezza connessi. I ceceni avevano già scelto gli aeroporti da cui partire e avevano chiesto un aereo della Croce rossa italiana o dell'Aeronautica italiana: lascio all'intuizione tutti i passaggi necessari alla realizzazione anche solo di una questione come questa.
Ripartiti e giunti in Italia, non trascorse molto tempo: la tregua, come segnale di fiducia reciproca, era saltata e i combattimenti infuriavano come non si era mai visto dall'inizio della guerra.
L'angoscia e il pianto mi attanagliarono per alcune ore. Poi – grazie allo studio accurato della situazione condotto con gli esperti del gruppo di lavoro – capimmo che non poteva che andare così, che l'operazione aveva ugualmente raggiunto risultati insperati, che aveva mosso tutto il quadro politico-militare, che ormai erano identificabili sulle due sponde il partito della pace e il partito della guerra. Ormai tutti sapevano che c'era una possibilità, che era praticabile in qualunque momento e questo spingeva verso la trattativa.
Dopo un certo terremoto (compreso il colpo di mano all'ospedale di Budionnovsk), i contatti furono ripresi riconfermando la piena fiducia reciproca. Non era poco, per noi che credevamo fosse naufragato tutto.
I contatti sono continuati successivamente riaprendo di quando in quando nuove possibilità per una nostra azione, finchè a settembre/ottobre capimmo d'essere fuori dal gioco, almeno nella forma pensata fin qui.
Restava un dubbio: raccontare tutto o lasciare che tutto scorresse nel grande silenzio della storia che raccoglie i più flebili gemiti e le più riposte speranze?
Ci sembrava che la seconda ipotesi fosse quella preferibile, ci sembrava coerente con il segno della gratuità col quale ci eravamo mossi, la sentivamo rispettosa dei nostri interlocutori. Testimoniavamo così che quel grande silenzio della storia è udito da colui che conta i capelli del capo di ogni uomo e ne conosce i segreti più riposti.
Da tale prospettiva restavano però insoddisfatte due esigenze altrettanto fondamentali: la doverosa informazione alle comunità da cui proveniva questo gesto e il desiderio di annunciare che si può sperare, che si può operare per la pace, che ogni uomo può farlo. Così con queste tensioni interiori siamo avanzati nel tempo finchè due fattori ci hanno spinto a cambiare radicalmente prospettiva. Il primo è venuto da Famiglia cristiana, con la sua insistenza a rendere pubblica "una storia così incredibile e così piena di speranza"; il secondo è venuto da notizie non troppo confortanti circa tentativi da parte russa (quale parte?) di stravolgere il senso e la verità della nostra iniziativa per farne fallire le ulteriori possibilità che ancora oggi conserva. Si sono resi conto in ritardo che chi non conta nulla e non ha nulla da perdere può essere "pericoloso".
Così, se il segreto era stato fin qui il mezzo più idoneo per custodire la verità della nostra azione, adesso quel mezzo diventava il suo contrario: la divulgazione di tutto, fin nei minimi particolari, eccezion fatta per alcune persone che potrebbero ancora oggi riceverne un danno.
Il tesoro di un "fallimento"
Qui mi preme solo estrarre qualcosa da questa sorta di scrigno prezioso che è stata una tale esperienza.
Innanzitutto un aspetto spirituale intimo, una lezione sulla comunione: la comprensione che le cose – anche quelle che si presentano come buone o sante – non si devono "volere", ma "servire" e che devono partire sempre da una comunione profonda , da una ricerca comune (cominciando dalla famiglia). Questa comunione può rallentare i progetti, a volte può sembrare che addirittura li intralci se non addirittura li faccia morire: occorre avere il coraggio di far morire qualcosa in cui si crede e di farlo morire cento volte, solo così si acquisisce la consapevolezza di rispondere a... qualcun altro e non si ferisce nessuno intorno a noi.
Strettamente unito a questo va sottolineato il valore dei carismi di ciascuno: questa operazione è frutto di una collaborazione singolarissima di vari carismi; ciascuno ha fatto la sua parte, ma – aggiungo – senza la presenza di alcune persone neanche ci saremmo mossi, forse, neanche ci sarebbe venuta in mente: alcuni membri della comunità in particolare come Domenico e Chiara, Fabrizio, Andrea, Fabio, il vicario per la pastorale della diocesi di Arezzo don Franco Agostinelli, padre rodolfo Cetoloni, padre Fiorenzo Locatelli, guardiano de La Verna, padre Eugenio Barelli, padre Emanuele Bargellini, don Giordano Remondi e tutta Camaldoli, Giuseppe e Adele Baracchi, Antonio Zucchi, Albano Bragagni, Franco Bernardini, imprenditori generosi e coraggiosi!
Un'altra riflessione: la libertà dei laici, unita alla libertà di chi segue Francesco povero e obbediente e alla libertà dei monaci fa una miscela esplosiva, una "bomba di pace"! Se già prima non c'erano dubbi sul dono particolare di grazia consegnato in questa amicizia sorprendente, che si è costituita in una forma permanente di lavoro per l'utilità e la pace chiamata "Amicizia monti e città", adesso abbiamo la spinta per superare tutti i possibili dubbi futuri, mentre diventa suggerimento e incoraggiamento a intraprendere strade analoghe in ogni città del mondo. La parola di Dio si è fatta eco nelle parole di san Benedetto e di san Francesco, di cui ogni giorno padre Emanuele ci ha nutrito, ed è stata luce ai nostri passi. Come quando, arrivati a Mosca, leggemmo: "tu vai perché sto preparandomi un popolo in questa città... "
Un ultimo pensiero, denso di sviluppi: l'intrecciarsi dei livelli più disparati dell'azione, dei registri delle emozioni: il gesto intuitivo che si coniuga con la riflessione storica sul senso attuale della "diplomazia popolare", la serietà dell'angoscia che si scioglie nel più spassoso umorismo, le istituzioni che accolgono la spontaneità dei cittadini e i cittadini che riscoprono ruoli antichi e nuovi di quelle, i silenzi e le parole, e – infine – i padri che si fanno figli e trovano consolazione, i figli che riscoprono il valore di padri e la bellezza di vivere insieme come fratelli.