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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Alejandro Àngulo

Una guerra civile

"Il Regno" n. 6 del 2003

Il peso delle istituzioni ecclesiali nel conflitto sociale armato

Bogotá, marzo 2003


L’11 novembre 2002 sono stati sequestrati mons. Jorge Jiménez, arcivescovo di Zapaquirá e presidente del Consiglio episcopale latino-americano (CELAM), e il parroco di Topaipí, don Desiderio Orjuela, mentre si recavano a compiere la loro missione sacerdotale. Questo sequestro è apparso all’opinione pubblica come un ulteriore episodio della guerra irregolare che le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC) portano avanti dal 1964 contro lo stato colombiano.

La guerra sporca
Tre giorni dopo, il vescovo Jiménez e il parroco Orjuela sono stati liberati dalle mani dei loro rapitori grazie all’esercito della Colombia che, in questo caso, ha avuto informazioni che gli hanno consentito di impedire che il sequestro si prolungasse nel tempo, come attualmente si sta verificando per più di 3.000 persone, sequestrate in Colombia dai vari gruppi armati o da delinquenti comuni.

La durata di tali rapimenti oscilla tra una settimana e cinque anni. E i consistenti riscatti alimentano tanto le casse della sovversione quanto quelle della «malavita». In diverse occasioni è accaduto che i delinquenti comuni vendessero i loro prigionieri ai guerriglieri. Diverse centinaia di questi sequestrati sono militari e poliziotti, tenuti come ostaggi in vista di uno scambio con capi della guerriglia in prigione. Alcune decine sono funzionari pubblici, da sindaci a senatori, che rappresentano una possibilità di negoziato politico tra le parti. Gli altri sono una quantità di uomini e donne, dalle risorse cospicue o scarse, rapiti a scopo di estorsione, una delle forme di finanziamento preferite dalle bande guerrigliere, dalla criminalità e anche dai gruppi paramilitari.

Tale guerra irregolare risale al 1950. L’inadeguata soluzione del problema agrario fa sì che gruppi contadini, in differenti regioni, adottino la guerriglia come forma di resistenza di fronte alla persecuzione dei grandi movimenti rurali da parte dei proprietari terrieri. La maggior parte dei parroci rurali, in quel momento, svolge un ruolo decisivo a favore dello stato, giocandosi i buoni rapporti con i rivoluzionari.

A partire dal 1958 lo stato colombiano ritiene che i rivoltosi costituiscano una vera e propria «repubblica indipendente» di orientamento comunista, nella sua rivendicazione agraria, e inizia a combatterli, senza però riuscire ad annientarli del tutto. Così, dal 1964, il conflitto armato in Colombia si converte in una «rivolta contadina di lunga durata», il cui simbolo sono le FARC. Ma gli anni settanta vedono apparire anche altri rivoluzionari, ispirati dalla rivoluzione cinese o da quella cubana: l’Esercito popolare di liberazione (EPL), impegnato anch’esso nella lotta contadina, e l’Esercito di liberazione nazionale (ELN), di origine studentesca, che concentra la sua attività nell’abbattimento di tralicci dell’energia elettrica e nel far saltare parti di oleodotti, per rivendicare l’uso del sottosuolo in opposizione all’imperialismo delle multinazionali energetiche.

La più colombiana delle guerriglie è stata la M-19, che nasce e opera in ambito urbano e con un’ideologia borghese, i cui golpe de opinión (l’espressione, intraducibile, allude nella pubblicistica sudamericana a un tentativo di rovesciare con la forza il governo in carica, supponendo di godere del consenso dell’opinione pubblica; ndt), stile Robin Hood, hanno rappresentato un’innovazione all’interno della tradizione insurrezionale del paese.

Entra in scena il narcotraffico
Negli anni ottanta, agli omicidi perpetrati dalla guerriglia si sommano quelli legati al crescente narcotraffico, grazie ai guadagni assicurati in un primo tempo dalla marijuana e poi dalla cocaina, quest’ultima come risultato di fatto della politica antidroga degli Stati Uniti in Bolivia e Perù. Il risultato netto immediato è l’incremento della mortalità urbana in Colombia, ma gli effetti a lungo termine dovuti all’entrata in scena di questo nuovo soggetto armato sono: a) la «sostituzione delle coltivazioni», che è per molti contadini la soluzione al problema mai risolto dal sistema colombiano della proprietà della terra, e b) la conseguente commistione tra guerra alla sovversione e guerra al narcotraffico. Infatti le FARC e l’ENL decidono di trattare gli imprenditori della cocaina allo stesso modo degli agricoltori e degli allevatori che operano nel rispetto della legge: impongono tributi sui loro territori o «proteggono» le piantagioni, e intanto incassano un altro vantaggio: i narcotrafficanti fanno anche parte dei maggiori trafficanti di armi nel mondo.

L’irruzione del narcotraffico nello scontro è servita anche a rivitalizzare le bande di paramilitari: gruppi di mercenari, al soldo dei narcotrafficanti e di altri proprietari terrieri e allevatori di bestiame, che servono sia per controllare il lavoro schiavizzato dei contadini senza terra, sia per evitare l’estorsione e il sequestro da parte dei guerriglieri. In realtà, l’esistenza di gruppi paramilitari è una costante del panorama sociale colombiano dai tempi dell’indipendenza, e va fatta risalire alla consuetudine di amministrare da sé la giustizia, caratteristica del feudalesimo regionale che, ancora oggi, si contrappone all’ipotetico centralismo della Repubblica della Colombia. Questo reale frazionamento dello stato spiega, in buona parte, la durata del conflitto sociale armato e le sue caratteristiche, nonché l’impatto del narcotraffico su tutte le strutture pubbliche e private del paese. Questo stesso fattore aiuta a comprendere come lo stato colombiano non sia mai riuscito a gestire il suo proprio territorio e sussista sulla base di un compromesso con gli stati feudali regionali. E, comunque, l’esistenza di gruppi paramilitari rende più burrascoso lo scontro non solo perché le loro pratiche sono più crudeli, ma perché i loro «principi» politici sono più vischiosi.

Fino all’apparizione massiccia della coca, il conflitto armato in Colombia viene considerato di bassa intensità. A partire dalla sua «narcotizzazione», il conflitto non solo cresce ma diventa globale e la Colombia appare sui mass media internazionali come il maggior coltivatore mondiale di cocaina. Prima, il suo simbolo era Juan Valdés, con il suo asino carico del caffè più dolce del mondo; in poco tempo la sua icona diventa Pablo Escobar, il gangster di Medellín e re della coca.

In questi ultimi tempi, si sono sentite e si continuano a sentire alcune dichiarazioni dell’episcopato colombiano in favore della pace e contro il narcotraffico e la lotta armata, motivate dalla spietata degenerazione della lotta ma anche, tra l’altro, dal fatto che nel conflitto iniziano a venire uccisi, cosa non comune in Colombia, sacerdoti, vescovi e religiosi. La guerra non solo si acuisce ma si generalizza, si globalizza e degenera a causa della pressione finanziaria del narcotraffico.

Oggi, con l’istituzione del Plan Colombia (cf. Regno-att. 2,2001,47; 8,2001,272), lo scontro sociale armato viene presentato come strumento di sviluppo e forma di cooperazione bilaterale privilegiata da parte degli Stati Uniti. In forza di questa degenerazione dell’aiuto internazionale, la guerra occupa il centro della preoccupazione colombiana. Le ultime due elezioni presidenziali sono state determinate proprio da questo: Pastrana ha vinto le elezioni nel 1998 perché ha promesso di realizzare la pace, e Uribe le ha vinte nel 2002 perché ha assicurato di sconfiggere le FARC. L’aspetto tragico di questa ossessione bellica della politica colombiana è che nonostante i programmi dei due candidati sembrassero antitetici, in realtà, in entrambi i casi, tutta la strategia di governo è subalterna allo stesso Plan Colombia, che non è altro che uno schema disegnato da Washington per portare avanti la guerra contro il narcotraffico in Colombia e nelle regioni circostanti.

La Chiesa in prima linea
Tra il 1984 e il 2002 sono stati uccisi più di 50 uomini di Chiesa, tra vescovi, sacerdoti, missionari e seminaristi. Ci sono stati 17 sequestri e 38 ecclesiastici sono stati minacciati di morte o di rapimento. Tra le vittime si contano il vescovo di Aracua nel 1989 e l’arcivescovo di Cali nel 2002. Negli ultimi otto anni sono stati assassinati 48 sacerdoti, tre religiosi, due missionari e un seminarista; 13 sacerdoti e un missionario sono stati rapiti e 7 feriti.

Si stima che 133 pastori evangelici siano stati uccisi negli ultimi dieci anni, 50 dei quali tra il 2000 e il 2001 e 32 nel 2002.

A partire dal 1997, i sequestri di esponenti della Chiesa cattolica sono andati aumentando, man mano che la sua posizione verso il conflitto si è fatta più chiara. Tra il 1986 e il 2002 sono state distrutte o danneggiate 57 chiese e case parrocchiali. Il sequestro dei fedeli di una chiesa di Cali, durante una celebrazione, ha mostrato il deterioramento dei «metodi di combattimento» da parte dell’ELN.

Così, il settore ufficiale della Chiesa, che era stato criticato dalle fazioni armate per le sue posizioni favorevoli all’ordine costituito, ma non era stato toccato dalla violenza politica storica se non in rare eccezioni, si trova ora in prima linea tra le vittime. A questo cambiamento corrisponde quello degli stessi leader religiosi, nella loro denuncia dei crimini dei vari soggetti in armi.

L’acutizzarsi del conflitto e il suo deterioramento colloca tutti i leader ecclesiastici in condizione di dover prendere una posizione chiara di fronte ai frequenti soprusi compiuti dai belligeranti. Per i parroci rurali il problema è più difficile, dato che operano in mezzo a territori dominati dall’una o dall’altra banda, dove la neutralità non è accettata. Questa situazione si esaspera in quelle regioni in cui la Chiesa, in mancanza di una presenza statale visibile ed efficiente, è l’unica istituzione che aggrega la popolazione.

Le cifre riportate sopra mettono in evidenza che la Chiesa cattolica sta portando avanti un’opera di pacificazione al prezzo della sua stessa vita. In effetti, la partecipazione di esponenti della Chiesa cattolica agli sforzi in favore della pace aumenta di giorno in giorno, dato che il loro prestigio si basa sulla fiducia che ispirano ai contendenti e alle vittime civili di questa guerra sorda.

La rete delle parrocchie cattoliche supera di gran lunga, per copertura ed efficienza, quella delle istituzioni pubbliche colombiane. Mentre lo stato colombiano si ritirava di fatto da un certo numero di regioni del paese, abbandonando buona parte di esse in mano alle fazioni armate e ai narcotrafficanti, la Chiesa si preoccupava di estendere a tutto il territorio la sua azione evangelizzatrice. In questo modo si comprende, in parte, la fiducia riposta nei leader ecclesiastici. L’altro elemento che genera fiducia è dato dal fatto che la corruzione ha colpito in misura minore il clero. Il risultato netto è un pregiudizio favorevole da parte dei guerriglieri e delle loro vittime nei confronti dei rappresentanti ufficiali del cattolicesimo colombiano.

Mediatrice perché affidabile
Ad esempio, il presidente della Conferenza episcopale, monsignor Alberto Giraldo, ha fatto parte dell’équipe di negoziatori del governo del presidente Pastrana (1998-2002). Attualmente, il negoziato con i gruppi paramilitari che hanno intavolato un dialogo con il governo del presidente Uribe gode della mediazione di un gruppo di vescovi cattolici. E in moltissimi casi di liberazione dei sequestrati, il clero cattolico ha svolto un ruolo di primo piano, dimostrando di possedere un grado di affidabilità del quale altri, pubblici o privati, non godono.

Oltre a questa azione individuale di alcuni vescovi e sacerdoti, c’è anche un vero apostolato di pacificazione all’interno di ampi settori clericali, alleati con i gruppi laici che costituiscono il movimento colombiano per la pace. Il Segretariato della pastorale sociale è una componente indispensabile all’interno dell’Assemblea permanente della società civile per la pace. Questo è il punto di convergenza più rappresentativo di tutti i settori che si interessano perché la soluzione del conflitto armato avvenga attraverso il dialogo, invece che intensificando la guerra. Il Segretariato organizza, inoltre, la «Via crucis per la pace», una marcia nazionale che ogni anno si svolge in una zona differente del territorio devastato dalla lotta, con giornate di preghiera.

I gesuiti hanno organizzato nel 1987 un Programma per la pace per creare condizioni favorevoli a una pace che sorga dalla giustizia sociale e dalla risoluzione negoziata dei conflitti. Il Programma si propone la difesa dei diritti umani e la costruzione di relazioni giuste e stabili, cercando di formare un’opinione pubblica favorevole alla riconciliazione.

Il Centro cristiano di giustizia, pace e azione non violenta (JUSTAPAZ), che fa parte della Chiesa evangelica mennonita della Colombia, opera dal 1990 in difesa dei diritti umani. Mediante il ricorso all’obiezione di coscienza al servizio militare e altri metodi, si occupa di diffondere la non violenza e di creare le condizioni per una convivenza armoniosa in uno stato di diritto.

Un ultimo esempio del ruolo che la Chiesa cattolica ha svolto nella pacificazione della Colombia è il Programma di sviluppo e pace nella regione del Magdalena Medio, dove la diocesi locale, in associazione con i padri gesuiti, è riuscita ad articolare una collaborazione tra imprenditori, sindacati, politici e cittadini per avviare un programma di sviluppo regionale. Il primo obiettivo è assicurare la vita di tutti gli abitanti di una regione in cui ha prosperato la guerra, attraverso la partecipazione di ognuno di loro alla progettazione e alla realizzazione di una convivenza armoniosa e produttiva. Questo Programma è già al suo quinto anno di vita e nelle attuali circostanze è un seme di speranza per 45 milioni di persone che, dopo 47 anni di conflitto sociale armato di «bassa intensità», si trovano esposti a una crescita esponenziale delle morti violente e devono affrontare il dilemma tra la giustizia e l’autodistruzione.

* P. Alejandro Àngulo, gesuita, è direttore del Centro di ricerca ed educazione popolare (CINEP) di Bogotá

articolo tratto da Il Regno logo

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