Dialogo armato
L'appuntamento delle consultazioni elettorali dell'8 maggio è stato accompagnato da esibizioni cruente delle forze separatiste. Non è un fatto eccezionale, tanto che i vescovi dell'arcipelago hanno affidato ai cattolici, con una lettera pastorale, il compito di "evitare i molti mali che circondano ogni appuntamento elettorale".
È da 24 anni che le Filippine conoscono una lotta armata intestina, da quando nel 1971 J. Sison fondò il Partito comunista filippino dal quale, di lì a poco, prese corpo il suo braccio armato, il Nuovo esercito popolare. L'azione terroristica intestina non è mai cessata, neanche dopo la caduta del dittatore F. Ramos, altalenando momenti di sostanziale tregua e recrudescenze. Sono però mutati i rapporti di forza. Oggi, in un contesto sostanzialmente democratico, non sono più le rivendicazioni politiche del Fronte democratico nazionale (NDF, cartello che raggruppa 12 gruppi marxisti) a prevalere, ma quelle secessioniste del Fronte moro di liberazione nazionale (MNLF). Esso interpreta, da posizioni di forza, gli interessi della maggioranza islamica nel sud del paese, particolarmente dell'isola di Mindanao, per la quale chiede l'autonomia politica e amministrativa.
Doppio tavolo
Il 4 aprile la città di Ipil (50.000 abitanti), enclave a maggioranza cattolica nel Mindanao, ha subito un attacco terroristico, da parte di circa 200 guerriglieri. Il bilancio ufficiale è di 48 morti e non meno feriti; svaligiate 4 banche e assaltati i supermercati. Si ritiene che il commando provenisse dalle fila dell'organizzazione islamica integralista Abu Sayaff (già nota per le bombe nella cattedrale di Davao, nel santuario di Fort Pilar, il sequestro di un autobus a Basilan, conclusosi con l'uccisione di 15 persone, l'assassinio di un missionario del PIME e di un ministro protestante), agganciata alla Brigata islamica internazionale. Per la verità, la sicurezza con cui il presidente Fidel Ramos ha immediatamente accusato Abu Sayaff ha offerto qualche pretesto ai musulmani per denunciare atteggiamenti persecutori pregiudiziali.
I 300.000 di Abu Sayaff sono pochi rispetto ai 15.000 del MNLF. Ma le frequenti dimostrazioni di forza ne hanno accresciuto il credito presso la diffusa simpatia per un atteggiamento duro nei confronti del Governo. Questi, nel contesto dell'ambizioso progetto di riconciliazione nazionale e risanamento economico "Filippine 2000", ha aperto dal 1992 una trattativa di pace con il NDF, il MNLF e perfino con le frange dell'esercito nostalgiche di Marcos e responsabili di ben 7 tentativi di colpo di stato dal 1986. Per il progetto governativo sono indispensabili e la coesione nazionale problema atavico nell'arcipelago filippino, diviso anche linguisticamente e la stabilità politica quale indispensabile premessa per la ripresa economica.
Anche osservatori sul luogo ritengono che l'integralismo islamico, abbinato al secessionismo, giochi su due tavoli: da una parte prosegue, attraverso il MNLF, la trattativa di pace; dall'altra "consente" le razzie delle bande armate di Abu Sayyaf. Difficile trovare altra giustificazione per chi fa incetta di denaro e consensi proprio nella zona controllata dal Fronte. Per parte loro, la destra dell'esercito e il NDF si trovano accomunati nell'interesse a vedere il Governo condurre la trattative da posizione debole, tanto più che, recentemente, il presidente Ramos si era lasciato andare ad annunci ottimisti circa il declino del terrorismo nelle isole del sud.
L'appello dei vescovi
Il negoziato ruota attorno a 24 punti previsti già nell'Accordo di Tripoli (firmato da Imelda Marcos), in base al quale si dovrebbe arrivare progressivamente alla costituzione di autonomie locali a guida islamica in 13 province e 9 città. Ma anche le richieste indipendentiste islamiche hanno problemi di consenso. Nel Mindanao i lumads (cioè i non islamici) sono poco meno di 2 milioni, contro i 2 milioni e mezzo di musulmani. Vi sono zone a chiara maggioranza islamica (come l'isola di Basilan, 76%; Sulu e Tawi-Tawi, 95%) e zone a predominanza cattolica (Ipil, Zamboanga). Mons. C. Morelos, nuovo vescovo di Zamboanga (500.000 abitanti, 90% cattolici), che è anche presidente della Conferenza episcopale, durante la cerimonia di insediamento ha invitato cristiani e musulmani al dialogo, in nome della comunanza in Abramo. Ma ha anche esortato sacerdoti, religiosi e religiose a essere "prudenti" per non cadere vittima dei frequenti rapimenti. Tra le norme di prudenza ha poi indicato la non frequentazione di "persone che non osservano la legge".
La chiesa si trova a giocare un ruolo non secondario nella vicenda, vuoi per il suo peso sociale, in una nazione a maggioranza cattolica, vuoi perché nel mirino del terrorismo. Il Governo si trova così a difendere la chiesa in quanto vittima delle rappresaglie del fondamentalismo islamico, e, nello stesso tempo, a subirne la critica per la politica di controllo demografico prevista dal progetto "Filippine 2000".
Per parte loro, i vescovi, nella lettera pastorale, fanno appello ai candidati alle elezioni e ai loro sostenitori a "denunciare e neutralizzare tutti i gruppi armati", e a collaborare con quanti come Consiglio pastorale per un voto responsabile o altre emanazioni della Commissione episcopale per l'azione sociale si adoperano per assicurare una consultazione pacifica e regolare. Il raffreddamento del conflitto sociale va però anche perseguito si lascia intendere attraverso un innalzamento della proposta politica: ferma condanna della violenza, ma anche severa critica verso una ricerca del consenso attraverso propagande fatte più di spettacolo che di argomenti, nelle quali i candidati si riducono "a cantare, ballare e fare i clown davanti alla gente".