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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

M. M.

Il conto della rivoluzione

"Il Regno" n. 14 del 1998

La rivoluzione indonesiana non è stata di velluto. Per ora non si può dire nemmeno che sia stata una rivoluzione, ma il conto pagato è già alto. Il nuovo presidente B. Habibie, succeduto a Suharto dopo le dimissioni provocate dalla piazza il 21 maggio scorso, proviene dalla compagine del dittatore: era vicepresidente e uomo di fiducia (cf. Regno-att. 8,1998,262). Il Parlamento è rimasto quel che era, per la quasi totalità occupato dal partito del presidente e con i 75 delegati nominati dall'esercito. Dalla composizione del nuovo governo sono stati espunti i nomi più spudorati del nepotismo di Suharto, ma non si va più in là della seconda fila. L'esercito, quell'esercito che ha sparato sugli studenti il 12 maggio, è ancora guidato dal gen. Wiranto e condiziona in maniera determinante l'amministrazione del potere.

Habibie ha promesso elezioni democratiche, mantenendo però fluttuante la data (l'anno prossimo? fra quattro anni?). Quanto alla ricostruzione economica del paese siamo ancora lontani da progetti consistenti, se ci si limita a invitare al digiuno due volte la settimana una popolazione già depauperata dalla crisi per risparmiare quei 3 milioni di tonnellate di riso che ogni anno l'Indonesia è costretta a importare. Nemmeno un "sacrificio" invece è stato finora richiesto ai vecchi dirigenti e ai consistenti profitti accumulati in 32 anni di regime.

Il costo di questa "rivoluzione" comincia invece a delinearsi. Per i cattolici è particolarmente alto. Sono state le vittime degli studenti della cattolica Trisakti University a innescare i moti di piazza, proseguiti per una decina di giorni a Jakarta e poi diffusisi anche altrove. Secondo il gesuita p. Sandyawan Sumardi, del Jesuit Refugee Service, i moti di maggio hanno causato più di 2.000 vittime (la cifra ufficiale diffusa dall'esercito parlava di 499). Molte le persone che sono morte nei negozi presi d'assedio e incendiati. La degenerazione della rivolta aveva portato a queste forme d'assalto, alimentate dalla diffusa ostilità nei confronti della minoranza cinese, che controlla gran parte dell'attività commerciale. Le forze dell'ordine non hanno fatto nulla per impedire queste violenze, come da parte politica non si è mai fatto nulla per combattere il pregiudizio anticinese. Stando anzi al quotidiano The Times vi sarebbero proprio militari e paramilitari fra gli autori e i provocatori degli assalti durante i quali i negozi venivano saccheggiati e poi incendiati con le famiglie dei proprietari barricati all'interno; alcuni fra le donne violentate e i negozianti depredati non hanno saputo sopportare l'urto della disgrazia e si sono tolti la vita.

Il capro espiatorio

La protesta delle chiese cristiane è stata particolarmente forte, per ragioni di principio ma anche perché la maggior parte dei cristiani (il 9% in un paese per l'87% musulmano) si trova proprio fra i cinesi. L'arcivescovo di Medan, mons. A. Datubara, aveva condannato per primo questo tipo di violenze, che faceva della comunità cinese il capro espiatorio della crisi, il 9 maggio, giusto qualche giorno prima che dilagassero. Il 13 maggio è stato diffuso l'appello del presidente della conferenza episcopale, mons. J. Suwatan (a Roma per il sinodo), con il quale la popolazione della capitale veniva invitata alla calma e alle vie del dialogo. L'arcivescovo di Jakarta, mons. J. Darmaatmadja, aveva già richiamato nel passato l'attenzione sulle manipolazioni dell'opinione pubblica in senso anticattolico (cf. Regno-att. 20,1996,604). Di fronte ai recenti episodi fa sentire una prima volta la sua voce il 23 maggio, all'indomani delle dimissioni di Suharto, con una lettera inviata ai fedeli, nella quale afferma che le vittime dei disordini sono ancora una volta i poveri e i deboli, e invita i fedeli a soccorrere senza discriminazioni quanti hanno subito lutti o furti (cf. Fides 26.6.1998, 453).

Mons. Darmaatmadja torna sull'argomento, in maniera ancor più accalorata, con una lettera pastorale diffusa il 19 giugno, festa del Sacro Cuore, e letta in tutte le chiese della diocesi la domenica successiva. Partendo dalla celebrazione della festa, che "per noi significa prendere coscienza e rendere grazie per la nostra dignità di figli e figlie di Dio", il vescovo si interroga sul momento grave e articola il discorso in quattro punti: la provocazione dei fatti, l'atteggiamento dei cristiani di fronte a essi, la partecipazione anche emotiva del pastore, l'invito di Dio ad amare. "Gli ultimi avvenimenti ci hanno profondamente amareggiato, perché alcuni di noi, e particolarmente i fratelli e le sorelle di discendenza cinese, stanno soffrendo intensamente: offesi e umiliati nella loro dignità come persone. Abbiamo assistito alla distruzione di botteghe, unico sostentamento per tante famiglie; abbiamo testimoniato l'incendio di tante case, unico posto sicuro per molti; vecchi e giovani offesi, maltrattati, feriti, uccisi; e, per sadismo degli esecutori, molte ragazze e donne sono state molestate e violentate. Questo è accaduto in questo mese: moltissime persone sono state uccise senza alcun motivo chiaro o solo perché erano di discendenza cinese".

I principi del Pancasila, posti a cardine della convivenza indonesiana, sembrano aver ceduto il posto alla "morte del sentimento di nazionalità/patria, alla distruzione del senso di fratellanza, all'insensibilità della coscienza, alla paralisi del senso di sicurezza coi vicini e alla perdita di fiducia verso quelle persone che dovrebbero proteggere il popolo, tutti, senza alcuna eccezione". La risposta dei cristiani non è stata evangelicamente pronta: "arriviamo troppo tardi o addirittura non manifestiamo nessun senso di amore fraterno... a volte l'atteggiamento di disprezzo verso persone di differente razza, etnia, discendenza, religione, stato sociale, grado di istruzione, idee politiche contagia anche noi". La distruzione si estende oltre le vittime e i danni materiali e diventa "ancor più drammatica col senso di discriminazione, come se esistessero cittadini di seconda categoria, che non hanno alcuna protezione da parte dei tutori della legge". Si deve perciò porsi davanti a Dio "in preghiera, chiedendo perdono per i nostri errori e per le nostre stesse dimenticanze, i nostri assenteismi; (...) chiediamo la forza dello Spirito Santo per quanti stanno ancora soffrendo tremendamente, confidando nello sforzo per una maggiore chiarezza di tutti quanti hanno responsabilità per il benessere di tutta la nazione".

La denuncia è il tono di fondo di un documento diffuso il 17 giugno a firma dei leader dei diversi gruppi religiosi indonesiani. In particolare viene puntato il dito contro "l'uso che si fa della differenza etnica, sociale ed economica come mezzo per creare conflitti tra il popolo... Quanto è avvenuto il 13-14 maggio scorso sono stati accadimenti orribili e barbari. Il gruppo cinese è stato contrapposto al popolo. Da una parte, quindi, il popolo cinese che, solamente perché cinese, è stato razziato, ha avuto le botteghe distrutte, la gente ferita, calpestata, uccisa, e per di più – come per sadismo – le loro donne sono state maltrattate e stuprate. Dall'altra parte il popolo povero, la cui maggioranza vive senza lavoro, emarginato da ogni posto di responsabilità, è stato imbrogliato". Si tratta di una persecuzione, prosegue il testo, perpetrata sulla base di motivi, come l'identità etnica, che esulano dalla responsabilità personale. Bisogna vigilare, perché le diversità non siano strumentalizzate da chi ha interesse a porre gli uni contro gli altri. "Chiediamo al governo gesti concreti e chiari di condanna dei fatti barbari che hanno seminato morte e distruzione... Oggi è stato preso di mira il popolo oriundo cinese; ma se il problema non sarà risolto, altri gruppi etnici saranno presi di mira".

Timor Orientale

L'avvicendamento al vertice della politica indonesiana ha offerto l'occasione per porre sul tavolo, a condizioni almeno formalmente nuove, la questione di Timor Orientale. La regione continua a essere occupata dalle forze militari indonesiane (cf. Regno-att. 22,1995,663), con costi sempre alti da entrambe le parti, in termini economici e in termini di vite umane. L'amministratore apostolico di Dili e premio Nobel per la pace, mons. C.X. Belo, ha rilanciato, in un colloquio con Habibie, alcune proposte per garantire ai timoresi il diritto di decidere dove vivere, ridurre la presenza militare e liberare i prigionieri politici. Il presidente, secondo mons. Belo, avrebbe mostrato interesse per alcune delle proposte avanzate, ma non avrebbe accettato di mettere in discussione lo statuto della regione; avrebbe invece offerto di rilasciare alcuni detenuti politici, fra cui il leader degli indipendentist Xanana Gusmao, a fronte di un riconoscimento internazionale dei diritti indonesiani sul territorio. "Ci sembra un'offerta buona – ha commentato p. D. Siquera, segretario della diocesi di Dili – ma se questo è lo status definitivo di Timor Orientale, ci sarà ancora molto spargimento di sangue". Il Portogallo ha criticato la proposta. Gli studenti scesi in piazza l'hanno invece decisamente respinta.

I cattolici militanti nell'opposizione al regime non hanno fiducia in Habibie, "responsabile, come il suo predecessore, della crisi di fiducia che attraversa il paese", dice p. Mangun, presidente dell'Associazione degli intellettuali cattolici. Le autorità ecclesiali hanno trovato voce per denunciare le violenze di cui sono state vittime i cristiani. Continua invece il silenzioso riserbo sulle vicende politiche.

articolo tratto da Il Regno logo

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