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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

M. M.

Lento lo scrutinio più lento il processo

"Il Regno" n. 16 del 1999

Mercoledì 1 settembre, tre mesi dopo la consultazione elettorale del 7 giugno, sono stati comunicati i risultati ufficiali di quella che è stata considerata la prima elezione "libera" dopo quarant’anni; per molti indonesiani la prima della loro vita.

Dopo i disordini del maggio 1998 (cf. Regno-att. 14,1998,485) che hanno condotto alle dimissioni di Suharto, la controfigura Habibie – spinta più dalla pressione internazionale dei potentati economici che da progetti politici – ha indetto la consultazione per l’elezione di 462 dei 500 membri che compongo la Camera dei deputati, la quale, insieme all’Assemblea consultiva del popolo composta da 200 rappresentati delle aree territoriali (135) e dei gruppi economico-sociali (65) scelti dal governo, nominerà a novembre il nuovo presidente.1 Immutata la quota di seggi (38) riservata a rappresentare i militari, che non vanno a votare.

A questa prima fase della democratizzazione del paese si sono candidati a collaborare 48 formazioni politiche (18 di ispirazione islamica), in rappresentanza di 200 milioni di abitanti di un arcipelago di 13.667 isole (una metà quelle abitate), allineate lungo 3 fusi orari.

Il Golkar è il partito di Suharto, che nelle pseudo-elezioni del passato raccoglieva non meno del 70% dei consensi; è il partito di Habibie, politicamente appoggiato – e sostenuto nelle strade – dall’esercito del gen. Wiranto, cui è sempre stata fin qui garantita impunità. Il partito del presidente ha tentato un’operazione di rinnovamento, poco più che cosmetica, e si è presentato agli elettori come Nuovo Golkar. Durante la campagna elettorale ha usato bastone e carota, l’esercito e l’elargizione (illegale) di prestiti agevolatissimi, affidata agli amministratori locali per l’erogazione in cambio di voti. È stata infatti soprattutto la provincia a far confluire consensi sul Nuovo Golkar, che ha raccolto il 22,4% da cui, per un meccanismo di assegnazione dei voti residui non meno arzigogolato del nostro scorporo,2 è uscito un guadagno di 120 seggi.

Una vittoria incerta

Le elezioni sono state vinte dal PDI-P (Partito democratico indonesiano – Lotta), la formazione di Megawati Sukarnoputri, figlia del "padre dell’indipendenza" e primo reggente (tutt’altro che democratico) dell’Indonesia fra il 1945 e il 1967. Megawati aveva appoggiato le rivendicazioni degli studenti nel maggio ’98, ma non è mai stata in grado di delineare un disegno politico, e perfino in riferimento alla dolorosa questione di Timor Orientale (cf. in questo numero a p. 000) ha fluttuato attraverso posizioni contrastanti. La sua è stata una forza di posizione: si è collocata all’opposizione del regime nepotista di Suharto e questo è stato sufficiente per attirare il consenso di quanti volevano un cambio politico, comunque fosse; e sono stati i più. Il PDI-P di Megawati ha raccolto il 33,7% dei consensi, che al cambio di valuta politica significa una rappresentanza di 153 seggi in Parlamento. Non bastano per garantire a Megawati l’elezione presidenziale, per la quale sono necessari 351 voti, e quindi l’apporto di altre formazioni partitiche.

Tra queste, di costituzione meno robusta, la più consistente è il Partito nazionale per lo sviluppo (PPP): un 10,6% di consensi gli frutta 58 seggi. La sua forza è la definita identità islamica, in un paese che è il quarto al mondo per abitanti ma quello che ospita il maggior numero di musulmani.

Altra formazione islamica è il Partito del risveglio nazionale (PKB), che, pur avendo goduto di un consenso maggiore del PPP (12,3%) sederà in Parlamento con 51 seggi.

Soddisfacente il risultato per il Partito del mandato nazionale (PAN) di Amien Rais, figura chiave della rivolta studentesca del maggio 1998, che con il 7,6% dei suffragi ottiene 34 seggi.3 I rimanenti 48 seggi se li distribuiscono il Partito della stella crescente (13), il Partito della giustizia (7), il Partito della Ulama Nahdlatutl (5),4 il Partito democratico nazione e amore (5), il Partito giustizia e unità (4), il Partito democratico indonesiano (2). Altre dieci formazioni partitiche vengono rappresentate in un unico seggio. L’arcobaleno parlamentare sarà così composto di 21 colori.

Un lungo travaglio

Il clima sociale che ha accompagnato la consultazione non è stato tranquillo, e turbolento è stato anche il lungo periodo dello spoglio dei voti. Non si possono escludere interventi "correttivi" dei dati da parte degli uomini di regime, tanto più che il "garante" della consultazione era quell’esercito che non votava, ma che è (e per ora resta) il pilastro del regime. È anche vero però che ad arrivare per ultimi sono stati i risultati della vasta provincia, dove il partito di Habibie era più radicato, dove c’è stata meno formazione politica, dove più spudorate sono state le manovre per l’acquisto di voti.

La fonte maggiore di apprensione sono state le notizie che giungevano dagli estremi orientali e occidentali dell’arcipelago. La fine del mese di luglio ha visto gravi conflitti fra musulmani e cristiani ad Ambon, nelle Molucche. Il bilancio finale è di almeno 50 morti tra i cattolici e i cristiani, e oltre un centinaio di feriti. Ancora una volta ambiguo il ruolo dell’esercito, il quale è accusato da più fonti di aver dato appoggio e collaborazione alle milizie islamiche. A un gruppo di militari è stata attribuita la responsabilità di una strage di 24 civili in una chiesa pentecostale di Ambon.

Nel distretto speciale di Aceh, invece, all’estremità occidentale dell’Indonesia, il conflitto, crescente e sempre più cruento, contrappone le milizie alle organizzazioni armate indipendentiste, forse incoraggiate dal referendum strappato dall’insistenza indipendentista di Timor Orientale. Dalla recrudescenza degli scontri nel maggio scorso, i morti superano i 200; centinaia le case e gli edifici governativi distrutti; si contano in numero superiore ai 100.000 i profughi causati dal conflitto.

La conferenza episcopale aveva messo a tema anche le elezioni di giugno nel messaggio pasquale del 5 aprile. Il tono di fondo era ben diverso da quello che aveva portato il precedente presidente della conferenza, il card. Darmaatmadja, a dichiarare che "scegliere di non votare non è un peccato". Il messaggio firmato dall’attuale presidente, mons. J. Suwatan, chiedeva un maggior impegno politico dei cattolici come dovuta responsabilità verso il proprio paese e discerneva alcune indicazioni guida: non si voti "per partiti che offrono soltanto vuote promesse e sono contrari al movimento riformista".

Durante l’estate, mentre ancora si attendeva l’ufficializzazione dei risultati delle elezioni, più volte singole voci – come quella del vescovo di Ambon, mons. P.C. Mandagi – e interventi corali – come i pastori cattolici della diocesi di Ambon e la Chiesa protestante delle Molucche – hanno protestato contro la faziosità e la crudeltà dell’esercito indonesiano, che "hanno fomentato l’odio fra la gente" per ragioni di potere. In riferimento ai fatti di Aceh, la Conferenza episcopale indonesiana, in un messaggio del 16 agosto in occasione dell’anniversario dell’indipendenza nel quale vengono stigmatizzate la cattiva amministrazione e la corruttela diffusa tra i leader politici, ricorda che il problema "non si risolve solo con la retorica ingannevole o con un rafforzamento della presenza militare, ma con un approccio umanitario, il dialogo, l’apertura. Senza questi strumenti, la credibilità del governo e dei militari è in serio pericolo, l’integrità nazionale è minacciata".

"Nel dopo elezioni la chiesa è soddisfatta", titolava l’agenzia Fides all’indomani della consultazione (25.6.1999, 376). "Le elezioni sono soltanto il primo passo nel processo di democratizzazione del paese", riconosceva mons. J. Suwatan intervistato dalla medesima agenzia. Da qui a novembre possono cambiare ancora molte cose; la situazione infuocata di Timor Orientale sfugge a ogni previsione. Bisognerà vedere se l’esercito farà una buona digestione del voto indonesiano e se alla fine accetterà l’esito referendario in quella che è sempre stata considerata la 27a provincia di Jakarta. Il comportamento dei militari lascia per ora pensare soltanto al peggio; una speranza risiede nelle opportunità che il gen. Wiranto coltiva di essere eletto vicepresidente, e che potrebbero dissolversi insieme allo sfascio della situazione timorese, dove evidente è ormai l’ambiguità perniciosa delle forze armate, regolari e non. Ma al momento è impossibile ogni previsione. Se è stato lungo lo spoglio dei voti, ancor più lungo sarà il processo di democratizzazione (ancorché parziale) della mezzaluna indonesiana.

1 L’Indonesia è una repubblica presidenziale. In seguito alla modifica costituzionale introdotta da Sukarno nel 1955, il governo è responsabile solo verso il presidente della Repubblica e non verso il Congresso del popolo né verso la Camera dei deputati.

2 I 462 seggi sono diversamente distribuiti nelle 27 province: si va dagli 82 occupati dai rappresentanti della popolosa Java Occidentale ai soli 4 di Benkulu. Per determinare la conquista del seggio si divide il numero dei voti espressi nella provincia per il numero dei seggi a disposizione (se 2 milioni di persone hanno votato in una provincia che ha disposizione 10 seggi, ogni seggio "costa" 200.000 voti). I voti eccedenti il multiplo confluiscono in una graduatoria sulla base della quale vengono assegnati i seggi non allocati. Un 25% circa dei seggi vengono assegnati con questo sistema, nelle attuali circostanze favorevole al Nuovo Golkar, più accreditato nelle province di minor densità abitativa. Può essere utile tener conto del fatto che i militari, con i 38 seggi loro garantiti, sono rappresentati 25 volte di più di un civile: ogni seggio dell’esercito rappresenta infatti 12.000 militari, mentre ciascuno degli altri seggi rappresenta 310.000 civili.

3 Amien Rais si è fatto conoscere come leader della seconda organizzazione musulmana per grandezza, la Muhammadiyah, dai tratti ortodossi, ma più urbani e moderni rispetto alla tradizione javanese.

4 Il risultato per questa formazione è giudicato scarso. Ulama Nahdlatul è la maggiore organizzazione islamica in Indonesia, radicata soprattutto nelle campagne di Java. Il suo leader, Abdurrahman Wahid, si era schierato a fianco di Megawati nell’opposizione di Suharto, ma evitando sempre lo scontro aperto. Le componenti più intransigenti della comunità musulmana avevano stigmatizzato l’opposizione di Wahid a una presenza formale dell’islam nella politica, affiancata dall’attenzione alle minoranze cinesi (che però controllano l’80% dell’attività commerciale) e cristiane.


articolo tratto da Il Regno logo


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