Le due facce del conflitto
Non si sa ancora quante siano le vittime dei conflitti interni all’Indonesia, che hanno registrato sul finire del 2000 una particolare recrudescenza nelle Molucche. Alla fine di novembre (23-28), l’isola di Kasiui (vicino a Ceram) ha contato 931 morti tra i cristiani che là erano maggioranza, e da più fonti si riportava di altri 750 costretti, sotto la minaccia delle armi rivolte contro loro stessi o contro i propri familiari, ad abiurare la propria fede, aderire all’islam e farsi circoncidere in segno di affiliazione. Osservatori e soccorritori che si recavano in quei giorni a Kasiui si sentivano rispondere che andava tutto bene e non c’era nessuno da portare in salvo, ma è opinione condivisa che si trattasse di resoconti forniti con la pistola puntata contro la schiena. Dal 10 dicembre risultano scomparsi 123 abitanti del villaggio di Waesoar, nell’isola di Buru, più volte bersaglio di attacchi da parte musulmana.
Il vescovo di Ambon, mons. P.C. Mandagi, parla di una "criminalità che prevale su tutto, e la tortura, gli stupri e gli abusi sessuali, la persecuzione, i massacri, il saccheggio e la distruzione delle proprietà vengono perpetrati dagli aderenti alla maggioranza religiosa ai danni delle minoranze" (Avvenire 24.12.2000); egli fa appello alla comunità internazionale perché invii a presidio una forza di sicurezza. "A Kasiui, dei 692 cattolici è stato accertato che 473 sono stati islamizzati. Nulla sappiamo invece della sorte degli altri 219. A Teor, degli 841 cattolici 142 sono stati convertiti, 300 sono fuggiti e dei rimanenti 400 cosa è stato? Così dei 1.533 cattolici sulle isole di Kasiui e Tero 615 sono stati islamizzati con la forza".
La vigilia di Natale è stata segnata da una serie di attentati dinamitardi sincronizzati contro edifici cristiani. Almeno 14 persone sono morte e una cinquantina seriamente ferite per l’esplosione di venti ordigni a Jakarta, nel raggio di 2 km e nel giro di un’ora, a partire dalle 23:30, quando i cristiani erano radunati per la celebrazione della messa di mezzanotte. Altre cinque bombe sono esplose in altre città.
Fin qui i fatti, a citare soltanto i più recenti e i più cruenti, da quando nel maggio 2000 il gruppo fondamentalista armato Laskar Jihad è sbarcato in forza nelle Molucche. E mentre nella parte settentrionale dell’arcipelago delle spezie (Halmahera) le parti sono disponibili al dialogo e si ha notizia di concrete iniziative per allentare le tensioni, nelle Molucche centrali il conflitto non ha forme di contenimento. Convivono almeno due interpretazioni.
Il conflitto etnico-religioso
Le violenze di Aceh (Sumatra), riprese anch’esse nel mese di dicembre, sono più facilmente riconducibili alle rivendicazioni autonomiste di queste province ricche di materie prime (gas e giacimenti auriferi soprattutto), ma depauperate dallo sfruttamento del capitale straniero e dal centralismo di Jakarta. Nelle vicende delle Molucche la situazione si complica per l’innestarsi del conflitto etnico-religioso. Le due grandi famiglie, alle quali sono riconducibili le quasi 300 etnie censite nel vasto arcipelago, registrano attorno al Mare delle Molucche proporzioni ribaltate rispetto al totale del paese. Anche dal punto di vista religioso, per ragioni che risalgono alla colonizzazione olandese, le Molucche concentrano la maggioranza della piccola minoranza cristiana (9%), nel paese che ospita il più alto numero, in cifre assolute, di musulmani. Un’identità indebolita dalle politiche migratorie incoraggiate dal regime di Suharto e ora minacciata dai progetti di islamizzazione forzata che il gruppo armato Laskar Jihad sta pianificando per ragioni non sono soltanto religiose... Secondo mons. Mandagi, i militanti "sono in tutto 7.000, di cui 5.000 ad Ambon e 2.000 nel Nord. Va notato che tra i guerriglieri vi sono soldati stranieri, da Malaysia, Sud Filippine, Pakistan, Afghanistan, Libia. Ciò fa pensare a un sostegno dell’internazionale islamica in questo conflitto" (Fides 7.12.2000).
La strategia politica
Le bombe della vigilia di Natale non si possono collegare direttamente al conflitto nelle Molucche. Il Laskar Jihad non le ha rivendicate anzi ne ha preso le distanze. È certo evidente l’intenzione di colpire selettivamente le comunità cristiane, ma sarebbe un inganno interpretare gli attentati "da un punto di vista di relazione tra cristiani e musulmani", precisava il card. J.R. Darmaatmadja, arcivescovo di Jakarta, in un’intervista ad Avvenire (27.12.2000). "Molti anni fa ci fu un attentato contro la grande moschea Istiqlal di fronte alla cattedrale. E subito venne riconosciuto che non era opera dei cristiani. Ringrazio Dio che allora i leader islamici capirono e persuasero i musulmani che quelle bombe non erano dei cristiani, ma messe da forze ignote, occulte. Forze con un programma ignoto, ma con il progetto di provocare la gente, incattivirla, mettere gli uni contro gli altri e portare l'instabilità nel paese. Queste forze, queste mani sporche di sangue, sono diffuse fra i militari legati al passato regime, come anche in alcuni apparati del nuovo governo e dentro certi gruppi islamici. Ma sia chiaro che tutto questo ha un più torbido carattere politico piuttosto che religioso. La religione viene usata. Per creare tensioni e alimentare il conflitto. Ne è la prova il fatto che anche in certe parti dell'Indonesia, come sull'isola di Kalimantan, si sono accesi scontri tra tribù della stessa religione islamica, tra i madurees e i malays".
I fatti delle Molucche e le bombe di Jakarta hanno un "detonatore" comune, ma non è il conflitto religioso (pure attivo). È piuttosto è lo scontro mai sopito fra potentati, dietro i quali stanno l’ex presidente Suharto e gran parte dell’esercito contro il presidente Wahid, il cui potere è stato più volte di recente sminuito dall’insubordinazione degli organi esecutivi rispetto alle sue direttive. "Lo schema è uguale a quanto avvenuto a Timor Orientale", ha dichiarato a Fides (27.12.2000) il protestante John Barr. Wahid stesso è stato esplicito nell’accusare i seguaci dell’ex dittatore di voler "spaccare il paese secondo linee religiose".
Mentre i leader religiosi ripetono le esortazioni al dialogo, al perdono, alla riconciliazione e ne organizzano le forme (a dicembre, si sono incontrate per ben una settimana di confronto a Yogyakata delegazioni cristiane e musulmane), sul versante politico il presidente tenta di allentare la tensione con alcune concessioni sia alle pressioni musulmane (l’introduzione della sharia ad Aceh, prevista per il 19 dicembre ma per ora rinviata sine die), sia alle richieste di autonomia: col 1° gennaio 2001, 26 province e 300 distretti potranno usufruire di una più ampia autonomia amministrativa, con competenza su parte delle risorse locali (fino all’80% dei proventi di miniere, legname, pesca e al 20% di gas e petrolio). A maggio, passi ulteriori per Aceh e Irian Jaya. Si tratta per ora di un’autonomia sulla carta, perché, secondo l’architetto del piano, il ministro per le riforme amministrative Ryaas Rasyid, sono necessari ancora più di 100 decreti presidenziali per rendere esecutiva la legge.
1 Sulla cifra concordano i dispacci d’agenzia di quei giorni. A una settimana di distanza, però, Fides (7.12.2000) riporta la smentita del Centro di crisi della diocesi di Ambonia, secondo il quale i morti di Kasiui sarebbero 9 e non 90. "Cristiani e musulmani spesso esagerano il numero delle vittime e questo può provocare ulteriore tensione".