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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Marcello Matté

Meglio che altrove non peggio di ieri

"Il Regno" n. 4 del 2003

Abbiamo raggiunto quattro paesi del Sudest asiatico che avevamo già visitato: dieci anni fa Myanmar, Cambogia, Vietnam (cf. Regno-att. 22,1993,687ss) e Laos sette anni fa (cf. Regno-att. 6,1996,129ss). Questi dieci anni hanno visto una bufera economico-finanziaria scuotere i mercati d’Oriente, spuntare le unghie alle baldanzose «tigri asiatiche» e ridurre di percentuali a due cifre la ricchezza dei paesi.

Hanno visto il riverbero della lenta evoluzione cinese, amplificato da una fase di disimpegno statunitense nell’area. E poi l’emergere di nuove tensioni, fra nazioni come fra identità etniche o religiose, dopo l’11 settembre 2001.

Una panoramica su una Chiesa cattolica fortemente locale, che ha poco risentito della riforma conciliare, connotata però da una sua originalità rispetto al più noto caso cinese.

Quattro paesi vicini e diversi. Paesi accomunati dalla prossimità geografica, conservano fra loro significative differenze, sia per tenore di vita, sia nelle dinamiche sociali, sia nel passo dei processi di mutamento in corso. Mentre nell’Europa del post comunismo sono all’opera dinamiche di accorpamento, unificazione, omologazione, in questa zona di influenza cinese sono preponderanti le dinamiche di competizione e di verticalità gerarchica, per le quali ciascuno cerca di definirsi dominante rispetto all’altro. Siamo alla periferia di un mondo vecchio sia rispetto all’ineluttabilità del mercato e della sua forza globalizzante, sia rispetto all’attualità geopolitica che ha visto il composito universo musulmano occupare il posto di oppositore primo dell’Occidente. Nell’ombra di questa marginalità, che conferisce alla «mesopotamia» Irrawaddy – Mekong – Fiume Rosso un che di museo, di fortino del passato, sono all’opera profonde spinte al cambiamento, perseguito secondo modalità originali, che fanno di quest’area un laboratorio di futuro, tra bisogno e rifiuto dell’Occidente, imitazione e differenziazione.

Le Chiese. Le Chiese sono anch’esse a cavallo delle antinomie. Fortemente connotate dalla dimensione locale – fino a escludere, in alcuni casi, non solo la leadership ma perfino la collaborazione degli stranieri – e cioè da un tratto distintivo della riscoperta conciliare, sono ostaggio di cesure storiche o politiche che le hanno sequestrate dal rinnovamento indotto dal Vaticano. La tensione è particolarmente visibile nella formazione del clero, fra educazione al dialogo con altre religioni e obsolescenza della scuola teologica; nella liturgia, fra traduzione e inculturazione, fra ricerca spirituale in un contesto politico diffidente e devozionismo magico; nella pastorale, fra priorità della promozione umana e rinuncia all’azione politica.

Il modello cinese. Il modello del marxismo cinese, sia nel profilo politico (uno stato, due regimi: socialismo di governo ed economia di mercato), sia nella definizione dei rapporti con la Chiesa (tre autonomie: di governo, di propaganda, di finanziamento) si estende ai paesi satellite, mitigandosi. In particolare non viene importata la divisione fra Chiesa ufficiale e non ufficiale. Le dimensioni di superficie e popolazione introducono una differenza sostanziale nelle possibilità di controllo da parte dei governi e in tutti e tre i casi qui presi in esame ci sono forme – diverse – di interlocuzione diretta con la Chiesa nel suo insieme. Tramonta l’influenza del comunismo europeo, sia per il tracollo di questi, sia perché le metodologie di stampo giuseppinista, tentate nei paesi di influenza URSS, in definitiva non attecchiscono in un contesto culturale di non-cristianità. Emblematico il caso del Vietnam, ove sopravvive il Comitato d’unione del cattolicesimo (più eco cinese nel precedente nome «Comitato d’unione dei cattolici patriottici»), che però nella sua sessione dell’aprile 2002 denunciava la progressiva marginalizzazione del proprio ruolo.

I diritti umani. In tutti e quattro i paesi è al vivo la questione dei diritti umani, rispetto ai quali la Chiesa si presenta più come consorzio d’asilo che come soggetto di rivendicazione. In Cambogia, dove liberalità politiche hanno più spazio, il tema non può essere disgiunto da un doloroso giudizio sul proprio passato recente, non semplicemente amputabile, come è invece forte la tentazione di fare. Il modello occidentale rivendica il proprio valore storico attribuendosi la combinazione di mercato e liberalismo. Se la confezione sia unica e sigillata, qui resta da vedere.

M. M., F. S.

MYANMAR

«Non è cambiato nulla», rispondono sinteticamente i nostri interlocutori quando chiediamo loro un aggiornamento sulla situazione del paese dopo dieci anni dal nostro precedente incontro. Nemmeno dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi (1995)? «No, è una liberazione formale; nella sostanza resta sorvegliata e non le è permesso svolgere il ruolo di leader dell’opposizione; perfino quelli del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, la ignorano». Siamo stati scoraggiati dal tentare di incontrarla. «Se volete essere sicuri di prendere l’aereo che avete prenotato...». Nemmeno dopo la morte dell’(ex) plenipotenziario, il gen. Ne Win? «No, nemmeno quell’evento ha prodotto reali cambiamenti».

I militari al potere si ritengono insostituibili; propagandano il messaggio che senza di loro il paese precipiti. Anche per questo c’è un vuoto di leadership. Non si è formata una seconda fila di governanti, pronti al rincalzo; anzi sono stati impediti i tentativi e messi fuori gioco quanti promettevano di raggiungere l’obiettivo.

Finto mercato
Una rapida escursione per le strade della capitale, Yangon, ci lascia l’impressione di un benessere maggiore, rispetto al 1993 (cf. Regno-att. 22,1993,695ss): più veicoli per strada, cantieri più tecnologici, qualche insegna luminosa in più. Basta uscire di qualche chilometro e ti ritrovi in una realtà fatta di capanne di paglia e bambù, e di acqua «potabile» attinta a pozze più simili a stagni che a laghetti. Quando chiediamo informazioni sul dato reale, lo sconforto è diffuso: aumenta la forbice fra i ricchi e i poveri, l’inflazione è al 600%, il cambio ufficiale con il dollaro USA è 6/1 (invariato dal 1975), ma per strada come in banca devi sborsare almeno 1.000 kyat per un dollaro. Anche chi ha uno stipendio è costretto a vivere con molto meno di un dollaro al giorno. La gente viene respinta nelle campagne dai costi proibitivi e crescenti della vita nella capitale (nell’ultimo mese gli affitti sono più che raddoppiati). Un tenore concesso soltanto ai militari e a quanti lavorano per il governo.

L’apertura al mercato è fittizia, così come il cambio della valuta. In realtà l’economia è tenuta in sequestro dal monopolio dei militari, che va dal commercio del riso a quello più incontrollabile della droga. Un banchiere stimava che più del 50% dell’economia birmana giri grazie al mercato nero e della droga, senza i quali sarebbe allo stallo. Benché il 2002 sia stato un anno funesto per la produzione del riso, il governo ha lasciato invariate le quote-tassa, dando luogo all’assurdo per cui alcune famiglie sono costrette ad acquistare il riso da versare all’erario! Perché con il riso (e con il diesel e con altri beni in natura) vengono remunerati i membri dell’esercito, in proporzione al loro grado. Beni poi rivenduti, al mercato nero appunto. Non c’è bisogno della leva obbligatoria in Myanmar.

Il fallimento di alcune iniziative del governo in economia hanno avuto pesanti risvolti su grande scala. Ad esempio, l’apertura del mercato interno agli investitori stranieri aveva richiamato un discreto numero di imprenditori, allettati dalle agevolazioni e dal basso costo della manodopera. Ma quando i bilanci hanno cominciato a ispessirsi di balzelli e spese «dovute», benché non previste, gli imprenditori hanno ripreso la strada di casa, lasciando più alto il già elevato tasso di disoccupazione. Si è ingrossato il flusso migratorio verso Thailandia, Malaysia e Singapore.

Anche l’«Anno del turismo», indetto nel 1998, è stato un fallimento. Sono stati costruiti hotel, che però non sono andati oltre il 10% delle loro capacità recettive. All’hotel della catena giapponese Nikko, costruito per l’occasione, l’operazione è costata più di 1 milione di dollari di perdite nell’anno. Ma, a quanto sembra, il giro d’affari legato al turismo (agenzie, costruzioni hotel, taxi) è canale privilegiato per il lavaggio del denaro proveniente dal consistente mercato nero in genere e della droga in particolare. Il settimanale Asiaweek (Hong Kong) stima che il 60% delle operazioni finanziate dal privato nella capitale siano legate al denaro della droga. Il 75% degli affari condotti dai cinesi hanno interessenze con il lavaggio del danaro sporco. Tassi di inquinamento troppo alti per un’economia già asfittica.

Sanità malata, scuola ignorante
Le aspettative di vita, in Myanmar, sono sui 60 anni. La mortalità infantile supera il 10% (è attorno al 3% in Vietnam e Thailandia). Gli aborti praticati negli ospedali di Yangon e Mandalay raggiungono cifre fra i 300 e i 500 su 1.000 parti. «Per vivere devi pagare», riassume in una battuta un nostro interlocutore. Non esiste un vero e proprio sistema sanitario nazionale, e in ogni caso non è gratuito. Alla sanità è destinato il 3,1% del bilancio. Lo stato costruisce gli ospedali e istruisce gli infermieri, ma se hai bisogno di prestazioni – naturalmente a tuo carico – devi comprarti le medicine e portarti anche le garze.

L’analfabetismo resta alto (nel 1993 lo citavamo come l’emergenza sociale più vistosa). La Giunta militare al governo destina all’istruzione il 15% del budget, mentre alla «difesa» va il 42%. Gli insegnanti non possono contare sulla certezza dello stipendio, e questo costringe i genitori a dover comunque pagare per la scuola dei figli. Ci sono scuole collegate con i monasteri buddhisti ed è più diffusa una prassi di tolleranza verso iniziative provenienti dalla Chiesa, anche se con etichette di copertura. Il 70% delle scuole elementari non ha nemmeno l’arredo. Solo il 21% degli scolari entrati al primo anno di scuola concludono il quinquennio. Il governo ha lanciato il programma «Scuola per tutti nel 2008», ma resta per ora propaganda.

Tristemente emblematica la politica universitaria. Come è noto, dagli studenti universitari sono partiti la protesta contro il regime e il successo di Aung San Suu Kyi. Dopo una ripresa delle manifestazioni nel 1996, il governo ha sospeso le sessioni di esame, frustrando così l’impegno dei giovani. Nel 1998 erano ormai 300.000 i candidati agli esami, una cifra pericolosa sia se si fosse prolungato il blocco degli esami, alimentando il malumore e il conseguente facile reclutamento politico, sia avviando le sessioni che avrebbero concentrato un affollamento prolungato. Così gli esami sono stati messi in farsa: nelle due settimane precedenti gli esami gli studenti sono stati scaglionati in corsi intensivi sulla materia d’esame; si è lasciato intendere che agli esami sarebbero stati tollerati espedienti e sono stati perfino distribuiti all’ingresso delle aule specchietti riassuntivi ed elenchi di domande/risposte. Insomma, una squalificazione programmata della formazione intellettuale, che si traduce in un messaggio di sfiducia nei confronti delle giovani generazioni.

La Chiesa morde il freno
In un contesto sociale che scoraggia la formazione e un contesto religioso buddhista (87%) che incoraggia l’acquiescenza e la rassegnazione, la Chiesa cattolica è una presenza significativa, ben oltre il mero dato percentuale (1,5% della popolazione, soprattutto fra le minoranze karen e kayah; 4,5% i protestanti). Il polso è vivace e l’insieme lascia intravedere un potenziale maggiore di quello che le è di fatto concesso di esprimere.

L’organizzazione è curata. Solo 2 delle 12 diocesi sono affidate a un amministratore apostolico, le altre godono di regolare provvista. Il dettagliato Annuario della conferenza episcopale registra in totale 278 parrocchie, 577 sacerdoti e 227 seminaristi, 141 religiosi e 1.262 religiose. Ogni singola diocesi e la conferenza episcopale hanno un organigramma dettagliato e un’attività organizzata per uffici. Come in altri regimi ispirati al modello cinese, la Chiesa non è riconosciuta come ente giuridico e non può avere intestate proprietà, le quali vengono registrate al nome di persone fisiche (col rapporto di fiducia che ciò comporta). L’educazione buddhista ha inculcato nella gente la generosità verso i bonzi, atteggiamento del quale beneficia anche la Chiesa da parte dei suoi fedeli. «Siamo poveri, ma non affamati», ci diceva un vescovo; è tuttavia una questione delicata quella dell’uso del denaro da parte del clero.

Eravamo a Yangon nei giorni in cui la conferenza episcopale era riunita in assemblea, così abbiamo avuto l’opportunità di parlare con tutti i vescovi. Abbiamo trovato un clima cordiale e operoso, sostanzialmente concorde nella lettura del momento storico e nella progettualità pastorale. Il presidente è Charles Bo, salesiano, vescovo di Pathein e amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Mandalay. 55 anni, uomo intelligente e mite, è stato riconfermato in quei giorni alla presidenza. Trova che ci sia di fatto un po’ più di spazio per l’azione della Chiesa, anche se, nel rapporto sia con le autorità, sia con il «clero» buddhista, il più si gioca attraverso i rapporti personali. Il suo predecessore a Mandalay, mons. Alphonse U Than Aung, aveva coltivato con particolare cura il dialogo con i buddhisti. La conferenza episcopale dispone di un edificio nella capitale, ove sono collocati alcuni uffici pastorali, e utilizzato anche come sede per corsi di formazione per i sacerdoti e i catechisti.

Un’équipe sta traducendo l’intera Bibbia nella lingua birmana; i brani del lezionario liturgico già sono in uso, insieme ai testi della liturgia (che è comunque la fedele traduzione del Messale romano), ora si sta procedendo a tappeto con il resto.

Durante la sessione del gennaio 2002, la conferenza episcopale ha costituito la Karuna Myanmar Social Services (KMSS), cioè la Caritas nazionale (karuna significa compassione), che quest’anno diventa membro a pieno titolo di Caritas internationalis. L’organismo è stato registrato presso l’Ufficio affari religiosi, il quale ha chiesto che venisse evitato l’aggettivo «cattolico» nel nome. L’équipe nazionale è composta di sette persone. Ha una funzione di collegamento verso le Caritas diocesani, già esistenti, ma elabora anche progetti propri. KMSS ha identificato come prioritario l’intervento di carattere formativo, il «capacity building», organizzato in modo da raggiungere anche le comunità periferiche. Altro contributo educativo è quello dato attraverso il «catholic social teaching», la formazione alla dottrina sociale della Chiesa, che assume anche carattere di educazione civile.

Dal settembre scorso l’arcidiocesi di Yangon è affidata all’«amministrazione apostolica» di mons. Sotero Phamo, che conserva la titolarità della confinante diocesi di Loikaw. È un uomo energico, che però ha saputo circondarsi di numerosi collaboratori, rendendo così possibile un ampio spettro di iniziative, sia a livello di diocesi, sia sotto la titolarità della conferenza episcopale. Mantiene rapporti d’amicizia personale con il gen. Khin Nyunt, primo segretario del Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo (il nome ufficiale della giunta militare al potere); come si diceva, molto si gioca attraverso i rapporti personali. A Natale mons. Phamo è riuscito a ottenere che il suo messaggio, di esplicito contenuto religioso cristiano, venisse pubblicato sul quotidiano ufficiale The New Light of Myanmar.

Un risultato di rilievo, nel contesto di un controllo particolarmente insistente sui mezzi di comunicazione (dove i buddhisti hanno ampio spazio). Anche i sermoni nelle chiese sono ancora controllati. Non si può dire che vi sia repressione nei confronti della Chiesa, né che si attui una politica anticristiana. È invece consolidata una prassi di disturbo, nell’intenzione forse anche umiliante. Ad esempio, è appunto difficile la diffusione dei libri religiosi, non perché esplicitamente proibita, ma perché i funzionari delle poste hanno introdotto l’usanza di sequestrare queste pubblicazioni ed esigere dai destinatari tre o quattro volte il loro prezzo per svincolarli. La conferenza episcopale pubblica un mensile, di confezione molto povera, The Sower (Il seminatore), che esce sistematicamente con molto ritardo, perché deve superare un doppia censura (Ministero degli interni e Ministero degli affari religiosi) incrociata, visto che ognuno dei due uffici deve far conoscere all’altro i propri emendamenti. Si può comprendere perché la versione inglese sia stata abbandonata...

Abbiamo avuto l’impressione che comunque i cristiani di Myanmar, doppiamente minoranza, siano gente tenace, che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà condivise con tutti gli altri né dai boicottaggi di cui sono bersaglio specifico. Per rispondere non ricorre all’opposizione aperta; preferisce trovare i modi per aggirare l’ostacolo e raggiungere comunque il proprio obiettivo.

Il mercato, la globalizzazione, la pressione delle concorrenza ai confini cambierà qualcosa nel prossimo futuro? «Difficile prevedere il futuro – ci risponde mons. Phamo – quando perfino il presente è incerto. Abbiamo tuttavia motivi di sperare perché i preti sono numerosi, le vocazioni non mancano e i cristiani aumentano, e sono di buona volontà».

articolo tratto da Il Regno logo

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