Persecuzioni per legge
Si continuano a registrare storie di discriminazioni, che raggiungono forme persecutorie, nei confronti di cristiani residenti in paesi asiatici a governo islamico.
Pakistan
La legge contro la blasfemia del 1986 prevede la sentenza capitale per tutti coloro che "con parole dette o scritte, direttamente o indirettamente offendono il sacro nome del Profeta"; può essere sufficiente la denuncia di una sola persona per avviare il procedimento giudiziario. Ayub Masih, cristiano, nell’ottobre 1996 è stato accusato da un vicino di aver detto: "Se vuoi la verità sull’islam, leggi Salman Rushdie" e il 27 aprile 1998 è stato condannato a morte. Pochi giorni dopo, il 6 maggio, il vescovo cattolico di Faisalabad, John Joseph, si suicidò negli ambienti del tribunale di Sahiwal e i più interpretaraono il gesto supremo come disperata protesta e richiesta di attenzione verso l’iniquità della legge contro la blasfemia (cf. Regno-att. 12,1998,414) L’appello presentato da Ayub Masih, con il sostegno di Amnesty International, è stato respinto il 25 luglio dalla Corte suprema di Lahore. Il suo appello alla Corte suprema nazionale è scoraggiato dai precedenti. I tre cristiani condannati prima di lui in forza della medesima legge sono stati salvati da una cassazione della Corte, ma i giudici autori della sentenza hanno dovuto immediatamente riparare all’estero per sfuggire la "punizione" dei fondamentalisti. Nel 1997 un giudice che aveva assolto un cristiano dalle accuse di blasfemia è stato assassinato. Oggi è per questo difficile trovare perfino degli avvocati disposti a difendere la causa.
In gennaio, 5 giornalisti del quotidiano The Frontier Post, che aveva pubblicato un’inchiesta nei confronti dei dirigenti delle Forze antidroga, dalla quale emergevano sospetti di ingenti guadagni proprio dal traffico di droga, sono stati condannati alla pena capitale. Il capo d’accusa è una lettera nella quale sarebbero contenute critiche a Maometto. Il giornale è stato costretto a sospendere le pubblicazioni per sei mesi.
A fianco della contestazione verso l’art. 295 C del Codice penale, utilizzato come strumento di persecuzione, corre il fronte della battaglia politica per cambiare la legge elettorale, la quale annida in sé elementi di vera e propria apartheid nei confronti delle minoranze non musulmane. Il sistema elettorale, utilizzato dal 1979 fino alle prime tre fasi dell’ultima consultazione, prevedeva suffragi distinti; i cittadini non musulmani potevano votare soltanto per esponenti della loro stessa religione, ai quali era riservato un numero definito di seggi a livello locale e nazionale. L’appello a disertare le urne era stato accolto dal 76% degli elettori non musulmani e il primo turno – svoltosi il 31 dicembre 2000 in 18 distretti del paese – aveva visto presentarsi soltanto 234 candidati delle minoranze sui complessivi 962 seggi ad esse riservati. Alla vigilia della quarta fase del voto (10.000 candidati per 3.700 seggi in 29 distretti), il sistema dell’elettorato distinto è stato abolito dalla Corte suprema. La pressione per una modifica in tal senso si era fatta molto consistente, e il 24 giugno scorso la Commissione nazionale Giustizia e pace era riuscita a radunare la rappresentanza di 23 partiti politici che, al termine dell’incontro, ha approvato all’unanimità una risoluzione nella quale si chiedevano garanzie elettorali democratiche e la reintroduzione della consultazione elettorale unica. Il leader pakistano, il gen. Musharraf, che dal 20 giugno ha sommato la carica di presidente a quelle di capo dell’esecutivo e delle forze armate, si è impegnato a ripristinare la democrazia – sospesa dal golpe con il quale nel 1999 ha preso il potere – entro l’ottobre del prossimo anno.