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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Antonella Borghi

Fuori della democrazia

"Il Regno" n. 18 del 1999

Il presidente peruviano Alberto Fujimori ha recentemente compiuto un passo ulteriore verso la neutralizzazione di qualsiasi forma di controllo democratico sull’operato del suo governo. Lo scorso luglio, rifiutando di conformarsi a due direttive della Corte interamericana dei diritti umani (CIDH), Fujimori ha di fatto sottratto il suo paese alla giurisdizione di questa importante istituzione sovranazionale, organo della Organización de Estados Americanos (OEA). Da sempre, la Corte interamericana è stata concepita come strumento di controllo sulle istituzioni dei singoli paesi in riferimento alla tutela dei diritti umani di tutti i cittadini del continente. Con la sua iniziativa Fujimori ha dimostrato ancora una volta la propria insofferenza verso ogni tipo di supervisione internazionale sulla vita interna del paese, privando così i cittadini peruviani di un’istituzione a cui fare ricorso contro eventuali errori o parzialità del sistema giudiziario peruviano.

I pronunciamenti della Corte che hanno scatenato la reazione di Fujimori sono due (ma ce ne sono stati almeno altri quattro negli ultimi dieci anni). Il primo riguarda alcuni sovversivi cileni appartenenti al Movimiento Revolucionario Túpac Amaru (MRTA), già giudicati colpevoli da un tribunale militare peruviano, mentre, secondo la costituzione allora vigente, avrebbero dovuto essere giudicati da un tribunale civile. La Corte ha chiesto pertanto al governo peruviano di rilasciare i sovversivi e di approntare un nuovo processo rispettoso delle regole costituzionali. Il secondo caso riguarda un errore giudiziario, uno dei tanti seguiti all’introduzione della legislazione d’emergenza contro il terrorismo nel 1992: la professoressa Loayza, accusata di attività terroristiche, fu arrestata e detenuta ingiustamente per alcune settimane. In seguito al suo ricorso, la Corte interamericana ha ingiunto al governo peruviano di risarcire la donna per il danno subito.

Fujimori ha rifiutato di accogliere entrambe le ingiunzioni, sostenendo che la Corte non si rende conto della situazione interna del Perú e di quanto grave sia stato il problema del terrorismo nella vita dei cittadini. Ammettere di avere compiuto degli errori, dal punto di visto del governo, equivarrebbe a mettere in dubbio la validità della propria politica antisovversiva, creando dei pericolosi precedenti. Alla fine di settembre, comunque, la CIDH, aprendo i suoi lavori a San José de Costarica, ha deciso che i procedimenti avviati contro il governo di Lima verranno comunque portati a termine, visto che, secondo i regolamenti, non è possibile per il Perú sottrarsi alla giurisdizione della Corte con effetto immediato. Il 1° ottobre Fujimori ha ribadito che il suo paese, pur restando nel novero degli stati firmatari del Patto di San José de Costarica, non si sottoporrà più alla giurisdizione della Corte.

La chiesa balbetta

La decisione ha suscitato reazioni negative in molti settori della società peruviana, tra cui alcuni organi di stampa, i gruppi di difesa dei diritti umani, i partiti dell’opposizione, il Collegio degli avvocati e la Conferenza episcopale peruviana. Quest’ultima ha emesso un comunicato ufficiale il 14 luglio scorso per rendere nota la propria viva preoccupazione per quello che i vescovi ritengono "un passo indietro" nella "protezione e promozione dei diritti umani". Pur riconoscendo che "la legislazione antiterroristica vigente era necessaria per salvaguardare la vita e la sicurezza della nostra società e la stessa stabilità democratica della nazione", i vescovi rilevano che la decisione di ritirare il Perú dalla giurisdizione della Corte interamericana dei diritti umani non potrà che generare "tra molte altre conseguenze negative, anche una maggiore incertezza giuridica per la società e per tutti i cittadini, che restano senza la protezione di un tribunale internazionale che vegli sul rispetto di tutti i diritti fondamentali".

Un pronunciamento sovranazionale dotato di "maggiore imparzialità" rispetto alle decisioni della giustizia nazionale e alle interferenze della politica resta della massima importanza per un paese come il Perú, in cui la grande diseguaglianza sociale ed economica impedisce di fatto a molti cittadini di accedere a tutti gli strumenti atti a garantire, secondo il dettato costituzionale, i diritti e la dignità di ogni persona. Inoltre, sottolineano i vescovi, c’è il rischio che, di questo passo, il Perú si sottragga a quel processo di crescente integrazione continentale e mondiale, garantita negli ultimi decenni da istituzioni, accordi e trattati internazionali. "La Convenzione di Vienna, all’articolo 27– ricordano i vescovi – stabilisce che nessuna disposizione legislativa interna di un paese può giustificare la mancata applicazione di un trattato internazionale. Non vogliamo un Perú emarginato e isolato dal contesto internazionale. Non vogliamo un Perú in cui la legalità e lo stato di diritto siano ignorati e disprezzati".

La dichiarazione dei vescovi si chiude con una citazione tratta dal messaggio per la giornata mondiale della pace 1999 di Giovanni Paolo II: "Solo quando una cultura dei diritti umani rispettosa delle diverse tradizioni diventa parte integrante del patrimonio morale dell’umanità, si può guardare al futuro con serenità e con fiducia" (n. 12; Regno-doc. 1,1999,5). La sensazione diffusa è che nel Perú di Fujimori una tale serenità e una tale fiducia siano tutt’altro che dietro l’angolo.


articolo tratto da Il Regno logo

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