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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Gustavo Gutiérrez

La verità sotto terra

"Il Regno" n. 18 del 2003

È impressionante il paese che emerge da una lettura serena del Rapporto della Commissione verità e riconciliazione (CVR). Il paese, ripeto, e non solo il periodo che la Commissione ha analizzato. La gravità di ciò che abbiamo vissuto in epoca recente l’ha portata necessariamente più lontano e più in profondità. Diversamente, si sarebbe limitata a una parte di verità. Era necessario - ma per questo si richiedeva onestà intellettuale e coraggio civico - andare alla radice della questione. Cercare la verità sotto terra, coperta da uno strato di colpevoli amnesie, di consuetudine alle menzogne e di disincantata indifferenza.

Insignificanza sociale
La cifra data dalla Commissione del 75% di persone di lingua quechua o di altre lingue native tra le vittime della violenza mostra, con chiarezza, che questi vent’anni portano il segno di una povertà, di un’esclusione e di un oblio secolari. Il dato diventa più crudele se si proietta la quota delle vittime in determinate zone rurali povere sul piano nazionale. Inoltre, le vittime non sono state solo i morti: pensiamo ai feriti e mutilati, alle famiglie distrutte, agli orfani, a coloro che hanno trascorso anni di prigione pur essendo innocenti, a quelli che hanno dovuto lasciare i loro villaggi e le loro case.

Molto di ciò che è successo non sarebbe avvenuto se buona parte della popolazione peruviana non si fosse trovata, da molto tempo, negli scantinati della nazione. Nemmeno avrebbe avuto le dimensioni che conosciamo (le conosciamo davvero?) se un importante settore del paese, e in esso, in primo luogo, quelli che hanno responsabilità di un certo grado, non avesse guardato con indifferenza e disprezzo, snobbato a lungo e ritenuto estranea quest’altra componente della nostra società.

Era necessario arrivare a questo punto - abbassarsi, si dovrebbe dire - per conoscere la verità su ciò che ci ha ferito in questi anni. In quest’orizzonte, senza perdere di vista la crudeltà e l’ingiustizia delle circostanze, si comprendono meglio le ragioni che portano all’enfatica affermazione espressa da Salomón Lerner nel suo significativo discorso di presentazione del lavoro compiuto: «Il rapporto che oggi presentiamo mette in luce un doppio scandalo: quello dell’omicidio, della scomparsa e della tortura di massa e quello dell’indolenza, dell’inettitudine e dell’indifferenza di coloro che avrebbero potuto impedire questa catastrofe umanitaria e non l’hanno fatto». Una frase dura: ma la realtà lo è stata ancora di più.

Con questo non abbiamo la pretesa di dire che il presente sia il risultato automatico e fatale del passato. Le cose non sono così semplici, la storia non è guidata da leggi ineluttabili. Parliamo di esseri umani liberi, che prendono decisioni e che sono responsabili, in diversa misura, di avvenimenti presenti che costruiscono relazioni umane giuste e rispettose dei diritti di ciascuno. Oppure producono esclusioni che possono arrivare perfino a espellere dal tempo e dalla storia gli abitanti di un paese, come è successo con le diverse popolazioni indigene, andine e amazzoniche del nostro paese. In altre parole: i fatti a cui ci riferiamo avrebbero potuto essere altri, non siamo davanti a situazioni inevitabili, che si impongono alla libertà umana; lo provano quelle persone, poche eccezioni, che in passato hanno richiamato l’attenzione su quella catena di incomprensione e arroganza che emargina molti di noi.

Lo dimostra anche, a suo modo, la presenza di un volontarismo messianico e criminale, privo di un qualsiasi rispetto della vita umana, primo e maggior responsabile, come ha sottolineato chiaramente il Rapporto della Commissione, di questi anni crudeli e sanguinari. Espressione, nonostante i suoi propositi, di un disprezzo verso ampi settori della popolazione peruviana uguale a quello di coloro che i gruppi terroristi dicevano di combattere; il grosso delle loro vittime si trova, effettivamente, tra gli stessi poveri.

Gli anni di inenarrabile violenza che abbiamo vissuto non sono - su questo non c’è dubbio - il risultato puro e semplice della storia del paese, né della povertà in cui continua a vivere la maggior parte delle persone che vi abita. Ma con ciò non abbiamo detto tutto. Ricordarlo è stato uno dei grandi meriti del Rapporto, ma è necessario fare un altro passo in avanti - lo fa anche il Rapporto - se vogliamo avere un’idea completa della situazione. Sarebbe segno di un’immensa cecità volerla spiegare con ragioni esclusivamente congiunturali e con un insano avventurismo, come se si fosse trattato di un accidente improvviso, di un brutto momento da superare, per ritornare a quella presunta normalità che, anche se con qualche problema, si era in condizione di governare senza particolari sussulti.

Non tener conto delle conseguenze, accumulatesi nel tempo, delle enormi fratture storiche, così come delle gravi e ingiuste disuguaglianze sociali che danno forma al nostro paese, significa non voler guardare in faccia un presente che c’interpella e bussa alle nostre coscienze. Un presente che ha profonde radici nel passato, nel cuore e nella mente dei molti peruviani che ha accecato, rendendo invisibile ai loro occhi gli strati poveri ed emarginati. Si è formato così un brodo di coltura di possibili conflitti e violenze che, qualora non cercassimo di eliminarlo, potrebbe in futuro creare le condizioni - non si sa mai - per il ritorno di situazioni simili a quelle vissute.

Qualcuno ha sostenuto, in questi giorni, che considera inaccettabile che il Rapporto pretenda di ritrarre la realtà nazionale come se coesistessero due paesi, uno accanto all’altro. Il testo non va in questa direzione. La verità è che ci presenta, anzi, uno stato di cose molto più serio e gravido di implicazioni inquietanti. Questo paese è disegnato dal suo territorio e da buona parte della sua storia, nel quale da tempo noi suoi abitanti abbiamo stabilito vari tipi di vincoli, personali e sociali, privati e pubblici, culturali e di lavoro, di prossimità e di estraneità. Nonostante questo, si tratta di una struttura che non porta l’impronta né dell’uguaglianza né della giustizia, ma piuttosto della discriminazione e dell’esclusione.

Sarebbe meno severo parlare di una semplice giustapposizione di due paesi; i vincoli che abbiamo ricordato fanno trasparire le pesanti responsabilità e il protagonismo dei settori privilegiati rispetto all’attuale stato di cose. «Violenza istituzionale»: così definì tale situazione la Conferenza generale dell’episcopato di Medellín (1968; questa definizione fu ripresa dalla successiva Conferenza di Puebla, nel 1979); poco dopo Johan Galtung l’avrebbe denominata «violenza indiretta o strutturale». È la violazione quotidiana dei diritti fondamentali della persona umana quella che produce più morti premature e ingiustizia, ad esempio la morte silenziosa di numerosi bambini del nostro paese. La sua esistenza, senza con ciò giustificare nessun altro tipo di violenza, deve essere tenuta in conto se vogliamo capire, almeno in parte, ciò che è successo.

Per quanto distinti e distanti, noi peruviani abbiamo comunque ancora di fronte il compito di fare del nostro paese una nazione nella quale tutti i nativi - la parola «nazione» viene da qui - vedano rispettata la dignità personale, la diversità culturale, i più elementari diritti umani (...).

Questa sensazione emerge nella riflessione dei tanti grandi peruviani che ci parlano di un paese reale in opposizione a un paese legale, del Perù profondo, del centralismo di Lima, di un paese adolescente, di promesse non mantenute, di opportunità perse, di gente sconcertata, di un paese impaziente di realizzarsi (...).

Non c’è riconciliazione senza giustizia
Gli autori di queste analisi riflettono allo stesso modo, chiaramente, sulle possibilità che, nonostante tutto, si presentano alla nazione e segnalano le eventuali strade che bisognerebbe percorrere per uscire dall’impasse. Ma tutti ritengono che la condizione primaria per trovare una rotta appropriata sia avere la fermezza di guardare in faccia la realtà complessa di un paese con evidenti squilibri sociali in simbiosi con il suo carattere multietnico e multiculturale. Per questo è tempo di vedere le cose dal punto di vista degli insignificanti della nostra società, a partire dalle loro sofferenze, rivendicazioni e speranze. È ciò che Walter Benjamin chiamava fare il contropelo alla storia, osservarla dal basso. In più di un’occasione, nel caso del Perù, ciò significherà farlo, geograficamente parlando, dall’alto, dalle montagne andine.

A questo ci invita il Rapporto della CVR, proprio perché studia a fondo quello che è successo negli ultimi due decenni del secolo scorso. Senza allontanarsi da ciò che è accaduto in quegli anni, ha saputo andare oltre quelle dolorose circostanze. Segnala le scandalose situazioni che si sono verificate negli anni recenti, ma evita l’anedottico, che va tanto di moda di questi tempi sulla scena politica nazionale; riferisce casi e nomi dei suoi protagonisti, ma indica che vi sono responsabilità più alte e più estese.

La Commissione ha raccolto migliaia di testimonianze di coloro che hanno sofferto inaudite vessazioni e torture, molti dei quali donne, che proprio per la loro condizione sono state oggetto di violenze particolarmente efferate. Si è data così la parola, davanti all’intero paese, alle vittime degli orrori causati dalle differenti violenze vissute in questo periodo; storie patetiche e commoventi, che non possono lasciarci insensibili. Le abbiamo ascoltate in diretta, in quechua e aimara, in castigliano e tra le lacrime, a esprimere una sofferenza profonda e sconvolgente. È stato un fatto di primaria importanza, perché non si è trattato tanto di dare voce ai senza voce, quanto del fatto che coloro che non hanno mai avuto l’opportunità di essere ascoltati hanno potuto parlare apertamente e pubblicamente, nonostante pochi mass media si siano preoccupati di far arrivare queste dichiarazioni all’insieme della società.

Si è obiettato che con questo la Commissione sia andata a frugare nel passato, riaprendo, inutilmente e in modo pericoloso per il paese, vecchie ferite. Coloro che la pensano così non tengono in conto il dovuto rispetto per i familiari. Dimenticano che per chi ha sofferto nella propria carne la violenza, per chi non sa se i propri cari sono vivi o morti o ignora dove siano i loro corpi, quello che per altri è passato, per costoro è un presente che strazia. Lo scorso dicembre gli abitanti di Lucanamarca, teatro di una delle più grandi e crudeli stragi all’inizio di questo terribile periodo, hanno potuto celebrare i funerali dei propri familiari e seppellirli. Alla fine della messa, celebrata nella chiesa della Recoleta a Lima, uno dei presenti, a nome delle famiglie presenti, ha detto: «Adesso possiamo andare tranquilli». La parola adesso mostra la permanenza nella memoria di un fatto successo quasi venti anni prima; per loro si trattava dell’oggi, di qualcosa che solo ora poteva permettere di passare al domani.

Il Rapporto denuncia l’esistenza di molte altre devastanti sofferenze patite dai più deboli della nostra società, e le mette nelle mani delle autorità competenti perché continuino o inizino le indagini del caso e segnalino le responsabilità. È riuscita a conoscere l’ubicazione di numerose fosse nelle quali erano ammucchiati i corpi di tante vittime della violenza di cui si voleva nascondere la fine. Ha identificato con nomi e cognomi circa trentamila di coloro che sono stati, in vari modi e da parte di diversi soggetti, uccisi, mostrando che il numero dei morti è molto superiore (qualunque sia la cifra precisa all’interno dell’ordine di grandezza che si è stabilito) a quello che, a partire da calcoli imprecisi e poco informati, ci avevano fatto pensare. Siamo così sprofondati nella confusione e nella vergogna per aver ignorato la scomparsa di tanti connazionali che, invisibili in vita, lo sono stati anche nella morte.

Il Rapporto tocca un tasto particolarmente delicato allorché indica che la violenza terrorista, ritenuta responsabile del maggior numero di morti, ha anche irrigidito il clima sociale del paese, ma che ciò non giustifica la scelta di combatterla con strumenti simili a quelli impiegati dai gruppi terroristi. Ancor meno se, come dice la Commissione, «in alcuni momenti e luoghi» questi fatti, per la loro frequenza, vanno oltre quello che potrebbe essere considerato nel novero degli eccessi individuali. Fanno pensare, anzi, a qualcosa di pianificato o, per lo meno, a una sistematica permissività che comprendeva, in molti casi, la protezione di coloro che commettevano tali abusi e persino l’appoggio per uccidere nell’ombra dato a gruppi organizzati, di cui i membri ancora negano - in tutta certezza - l’esistenza. La misura esatta di tutto ciò, contro cui hanno protestato a suo tempo i militari onesti, sarà stabilita nei dovuti procedimenti, ma gli indizi sono lì, presentati con serietà e coraggio.

La Commissione ha insistito, a ragione, sulla necessità di riparare in qualche modo ai danni personali e collettivi prodotti. Fa parte di quel «grande orizzonte della riconciliazione nazionale» alla quale siamo chiamati. La Commissione non lascia dubbi su ciò che intende: «la CVR interpreta la riconciliazione come un nuovo patto di fondazione tra lo stato e la società peruviani e tra i membri della società» (Conclusioni, 170). Con una preferenza, tra costoro, per quanti più hanno sofferto in questo periodo per la crudeltà di alcuni e la negligenza di molti. Oggi noi peruviani siamo inviati a compiere un gesto umano e fraterno di solidarietà. Ma, sia chiaro, non si tratta di un favore, si tratta di giustizia. È sulla giustizia, nei suoi differenti aspetti, che deve costruirsi la riconciliazione. Questa implica allo stesso modo il castigo della società verso gli autori di crimini e violenze, senza nessuna concessione all’impunità (...).

In questo modo, si descrivono situazioni, si fanno conoscere fatti tenuti attentamente nascosti, si forniscono dati fino a ora ignorati, si suggeriscono argomenti che devono essere precisati e approfonditi, si denunciano i colpevoli, si segnalano i presunti responsabili. Ma non si tratta solamente di un registro di avvenimenti legati a determinate circostanze. Si tratta di un richiamo al fatto che strutture sociali, economiche e politiche ingiuste, categorie mentali fortemente radicate, la presenza o la mancanza di sentimenti portano ad atteggiamenti di disinteresse verso una parte della popolazione e costituiscono lo sfondo sul quale quegli avvenimenti si verificano.

C’era molto da dire, senza dubbio. Troppo per le orecchie di quelli che da tempo non hanno voluto sapere in che paese viviamo, assumersi le proprie responsabilità e prendere coscienza del fatto che non guariremo dai nostri mali con delle «aspirine» sociali. Il Rapporto è andato così lontano che non poteva non provocare, in alcuni, l’ostilità alla quale stiamo assistendo. Prima della sua presentazione molti si sono messi a speculare su quello che doveva e, soprattutto, non doveva dire; in seguito sono passati a sostenere che non si aspettavano nulla, perché non avrebbe parlato d’altro che di cose già conosciute. Non sono mancati quelli che definivano per proprio conto ciò che la Commissione avrebbe inteso per riconciliazione (ad esempio, dicevano senza nessun fondamento che avrebbe chiesto la riconciliazione con gli autori degli assassinii), per poi scandalizzarsi di questa ipotetica proposta e strapparsi le vesti. Non appena pubblicato il Rapporto si sono attaccati a questo o quel dettaglio, cespugli posti innanzi alla foresta, mettendone da parte la vera sostanza.

Un punto di partenza
È incoraggiante verificare, comunque, che molte altre persone, senza perdersi in questioni di poco conto, si sono sentite chiamate in causa da ciò che il Rapporto afferma. Questa o quella discrepanza, se c’è stata, non ha impedito loro di valutare la serietà con la quale sono state affrontate questioni così spinose, così come di apprezzare l’onestà e il coraggio di richiamare l’attenzione intorno ai veri problemi cui ci siamo trovati davanti. La sera della presentazione del Rapporto, il Consiglio permanente dell’episcopato peruviano esprimeva il sentire comune nazionale, sostenendo che «il Perù vuole conoscere la verità, cerca la giustizia e desidera la riconciliazione», e precisava: «riconciliazione non è sinonimo di impunità né di ignorare le ingiustizie commesse», e non può aver luogo «se non è fondata sulla verità». Richiamava anche al perdono, atteggiamento di massima libertà, umano e cristiano, che in nessun modo porta a sminuire la punizione sociale per i crimini perpetrati.

Di questo effettivamente si tratta. Perciò bisogna considerare il Rapporto più un punto di partenza che un punto di arrivo. Dovrebbe essere l’inizio di un processo, di largo respiro, di riconoscimento del paese, di una riconciliazione con noi stessi, di una corretta comprensione dei nostri problemi, dell’assunzione delle nostre responsabilità. È questa la posta in gioco. Sarebbe tragico, dopo quello che abbiamo vissuto in questi anni - per la metà dei quali abbiamo avuto un regime sistematicamente corrotto e corruttore, distruttivo della già fragile struttura istituzionale del paese -, continuare come se nulla o quasi fosse successo. Perderemmo un’occasione unica per dare una svolta al paese e per iniziare a procedere verso una società nella quale i diritti umani di tutti vengano rispettati. In altro modo, le enormi sofferenze di questi anni non avrebbero lasciato niente di più di una scia di morti violente, paure paralizzanti, odi fratricidi e un corrosivo scetticismo di fronte alle possibilità che, come nazione, abbiamo davanti.

Beati coloro che dimenticano, diceva con sarcasmo Nietzsche, alludendo a coloro che vivono di frivolezze, incoscienti, restando alla superficie di sé stessi. Quelli, possiamo aggiungere, che vivono liberi dai fastidi e dalla solidarietà, immersi nei propri interessi. «Beati - dice invece il Vangelo di Matteo - gli afflitti», quelli che soffrono, quelli che sentono come proprie le lacrime degli altri. Si tratta di un gesto che il profeta Isaia presenta con parole belle e commoventi: «Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese» (25,8). Beati, felici, coloro che faranno così. Con lo stile di Luca, e per meglio comprendere il testo profetico, possiamo dire: Guai a coloro che un giorno si presenteranno davanti al Dio della giustizia e della misericordia con gli occhi asciutti, perché non hanno saputo condividere il loro tempo, le loro preoccupazioni e i loro sentimenti con quelli che vedevano calpestata la propria dignità di esseri umani e di figlie e figli di Dio, con quelli che hanno sofferto nel silenzio e nell’oblio.

Introspezione storica
La Bibbia chiama questo gesto «consolare». Ma, precisiamo, in essa ha il senso non solo di accogliere e ascoltare, ma anche e soprattutto di liberare da tutto ciò che provoca una situazione disumana. È opportuno ricordarlo pensando a quello che abbiamo detto sin qui. Questa è la linea di comportamento del credente nel Dio della vita. Impossibile metterla in pratica senza memoria. Non per rimanere fissi nel passato, ma proprio per superarlo, perché non rappresenti nel nostro percorso un bastone tra le ruote, perché quello che si è vissuto non diventi un incubo, un impedimento verso un mondo che non conosca più queste situazioni.

A questo siamo invitati oggi. Dissotterrando la verità del paese, a partire dalla verità di quei due orrendi decenni, la Commissione ci rivela mali di fronte ai quali abbiamo continuato a chiudere gli occhi e ci propone di guardare lontano per vedere meglio, in prospettiva, nel cammino che dobbiamo oggi percorrere. È un’opera di introspezione storica che, ben oltre questo o quel dettaglio, ai dati da precisare o da rettificare, ha molto da dare, perché offre un valido patrimonio da studiare e discutere con attenzione. In qualche modo, solo il tempo ci permetterà di apprezzare questo apporto in tutta la sua vastità. Il solo fatto che sia stato prodotto è già una buona notizia per il paese; ora tocca a tutti i peruviani - in modo particolare alle autorità politiche, militari e religiose, alla società civile, ai media - apprezzare questo invito a un esame di coscienza, a riconoscere i nostri errori e ad assumerci le nostre responsabilità e i nostri compiti.

Lasceremo passare l’opportunità che ci viene offerta? Ci riferiamo a questa riconciliazione. Non permettiamo che la verità rimanga nascosta, anch’essa sotto terra, in una delle fosse che hanno nascosto tante morti. Sono stati anni di grandi pene e omissioni, ma anche di generosità, da parte di civili e di militari; così come di fermi e rigorosi impegni di persone e istituzioni in difesa dei diritti umani di tutti, specialmente dei più deboli e insignificanti della nostra società. Sono fatti concreti e allo stesso tempo promesse per il tempo che verrà. Non dobbiamo accettare che ci vengano rubati o siano distorti. In essi è racchiuso il meglio che il presente può offrire. Una ricchezza che non possiamo perdere.

«Non c’è alcun rimedio per il Perù?», si domandava poco tempo fa Abelardo Oquendo davanti alle resistenze che incontrava la CVR, e aveva ragione di farlo. Non bisogna temere di porsi degli interrogativi di questo calibro, altrimenti non troveremo una via d’uscita. Sarà, non c’è dubbio, una ricerca lunga e dolorosa. Magari potessimo comprendere che il Rapporto della CVR - che ci parla delle radici dei nostri mali, delle pene di coloro che hanno sofferto in prima persona le violenze patite e del valore di chi vi si è opposto - ci ha messo sulla buona strada.

* Il presente articolo è riprodotto, con piccoli tagli, da Paginas 38(2003) 183, ottobre 2003. Ringraziamo la rivista per averci concesso la pubblicazione. Nostra traduzione dallo spagnolo. Titoli redazionali.


articolo tratto da Il Regno logo


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