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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Lorenzo Prezzi

Il tempo della vergogna. Rapporto finale della Commissione verità e riconciliazione

"Il Regno" n. 18 del 2003

L’impressionante numero dei morti (69.280), la loro condizione di poveri, la permanenza della democrazia mentre la violenza si scatenava, la caratteristica dei movimenti rivoluzionari (Sendero Luminoso e Tupac Amaru), le responsabilità delle forze armate, l’indifferenza della società civile: sono alcune delle conclusioni più sorprendenti del Rapporto finale della Commissione verità e riconciliazione (CVR) presentato il 28 agosto alle autorità della Repubblica del Perù. Nel ventennio fra il 1980 e il 2000 si è scatenato nel paese latinoamericano «l’episodio di violenza più intenso, più esteso e più prolungato nel tempo di tutta la storia della Repubblica». Il numero delle vittime supera «tutte le perdite umane sofferte dal Perù in tutte le guerre esterne e civili attraversate nei suoi 182 anni di indipendenza» (Conclusioni). «Il tempo della vergogna» l’ha definito il presidente della Commissione (CVR), il filosofo Salomon Lerner Febres, rettore della Pontificia università cattolica del Perù, davanti al Parlamento del paese che l’ha applaudito per dieci minuti.

69.280 morti
Il 7 ottobre è stato ospite della nostra redazione il senatore Rolando Ames Cobián, sociologo e analista politico peruviano, uno dei 12 membri della Commissione, che ci ha presentato il complesso lavoro portato a termine: 17.000 testimoni ascoltati, 22 mesi d’indagine, un rapporto finale di 3.000 pagine in 9 tomi e alcuni annessi (cf. www.cverdad.org.pe), una decina di assemblee pubbliche durante il 2002 con oltre 10.000 presenze, una tempesta di reazioni dell’opinione pubblica e delle istituzioni politiche e civili. 300 i professionisti coinvolti, 500 i volontari, 12 milioni di dollari le spese complessive (sostenute per metà dallo stato e per metà dalla cooperazione internazionale), 5 le sedi territoriali attivate. «Sono molto sorpreso - ci ha detto Ames Cobián - dall’utilità di un’istituzione come la Commissione in merito alla riconciliazione della gente con la politica e della società con le istituzioni. Quello che abbiamo portato a termine è stato, senza volerlo direttamente, una radiografia della società peruviana».

Per la prima volta al centro della ricerca sono state le vittime e non le diverse giustificazioni politiche. Le precedenti stime parlavano di circa 25.000 persone coinvolte. Nelle 17.000 testimonianze raccolte «sono stati fatti 23.000 nomi completi tra morti e scomparsi. Aggiungendo a questi le informazioni ufficiali e quelle provenienti dagli organismi a difesa dei diritti umani siamo arrivati a 36.000 nomi. Con l’appoggio tecnico americano e una metodologia molto rigorosa la proiezione finale è stata fra i 61.000 e 77.000 morti, con un’approssimazione affidabile intorno ai 69.280» (Ames). Dietro le cifre vi sono massacri, sparizioni forzate, torture crudeli, disumane e degradanti, la sistematica violenza sessuale contro le donne, sequestri, la violenza sui bambini, l’annullamento dei diritti personali e collettivi. «Il conflitto ci ha portato a un processo di disumanizzazione da cui dovremo uscire, un processo che ha fatto lievitare l’elemento più oscuro della nostra umanità» (Pilar Coll).

L’ondata di violenza si è accanita sui poveri. Il 75% delle vittime appartiene alle popolazioni indie e alla lingua quechua; per il 79% si tratta di contadini e di pastori con un basso grado d’istruzione e provenienti da alcune province dell’interno. «Se il tasso di vittime rilevato dalla Commissione per la popolazione di Ayacucho fosse riportato in proporzione a tutto il paese, la violenza avrebbe prodotto 1.200.000 morti e scomparsi. Di questi 350.000 sarebbero stati registrati nella città di Lima» (Conclusioni). Il paese è suddiviso fra costa atlantica, montagna (sierra) e Amazzonia (selva): tutto si è consumato fra sierra e selva. Negli anni ’50 il 60% della popolazione viveva nella sierra e per il 50% parlava quechua. Attualmente lo parla solo il 15% della popolazione.

Distratti nel dramma
«Ciò che più impressiona è che possano scomparire migliaia di persone senza che nessuno lo sappia. Le famiglie non hanno risorse per cercarle, la stampa non arriva in queste zone, non ci sono registri pubblici che attestino numeri e qualifiche delle presenze: a ciò si aggiunge il peso della discriminazione storica, etnica e culturale verso queste popolazioni» (Ames). Il dramma è avvenuto mentre nel paese era in vigore una democrazia, fragile ma vera. Negli anni ’70 il Perù aveva conosciuto un governo militare riformista, e successivamente si erano sviluppati molti movimenti sociali. Nel 1978, in un’Assemblea costituente, il secondo degli eletti era un dirigente trotzkista; ancora negli anni ’80 la sinistra aveva il 20% dei consensi. Il Rapporto finale si dilunga sulla debolezza dello stato: insufficiente copertura territoriale, mancanza di preparazione per capire il conflitto, sfiducia di settori significativi della popolazione, incapacità d’imporre la legalità. «La convinzione diffusa - sottolinea Ames - è che la democrazia sia un prodotto importato, distribuito in maniera assai diseguale. Per alcune frange di popolazione la democrazia può funzionare piuttosto bene, per altre non funziona affatto. Non è un problema d’ignoranza concettuale, ma di esperienza pratica. I contadini delle Ande sanno che ci sono leggi che li proteggono, ma sanno anche che da soli non le possono far rispettare. Da qui nasce la cattiva abitudine dei politici, di fronte alla violenza, di affidare la repressione ai militari, senza alcun controllo da parte loro. Rispetto al Cile o all’Argentina qui non c’è stato un organismo statale violento. I militari non hanno sostituito i civili, hanno obbedito e hanno fatto quello che credevano opportuno fare». Il Rapporto segnala le responsabilità dei governi democratici di Balaunde prima e di Garcia dopo, indicando le ambiguità, le impotenze, le corresponsabilità. Ben più severo il giudizio sul governo autocratico di Alberto Fujimori e sul «collasso dello stato democratico» prodotto dal colpo di stato del 5 aprile 1992. Nel mezzo dell’offensiva urbana (e finale) contro Sendero Luminoso «settori importanti di tutti gli strati sociali si mostrarono disposti a rimuovere la democrazia in nome della sicurezza e a tollerare le violazioni dei diritti umani come costo necessario per chiudere la lotta contro la sovversione» (Conclusioni). Forte dei risultati ottenuti il governo ha coperto le malefatte degli squadroni della morte e ha lasciato diffondere la corruzione.

Politici, giornali e opinionisti hanno indicato per lungo tempo Sendero Luminoso come un caso di guerriglia dipendente dall’estero (Cuba e Cina), caratterizzato da una progressiva occupazione del territorio. In realtà si trattava di un fenomeno autonomo, pur se riferito prevalentemente alla rivoluzione cinese di Mao Tse Tung. Abimael Guzmán esprimeva un pensiero sclerotizzato: «Si convinse che era l’erede della rivoluzione mondiale. Pensò quindi che fosse giunto il momento di evitare che lo stato borghese apparisse come uno stato democratico e provocò ad arte la guerra affinché lo stato rispondesse con la forza e si togliesse così la maschera. Purtroppo la trappola funzionò. Cominciò la guerriglia a Ayacucho, un piccolo paese dell’altopiano centrale, sfruttando il disprezzo della vita e della cultura contadina» (Ames). I primi consensi ai rivoluzionari da parte dei contadini erano legati ai processi contro i piccoli commercianti o le piccole autorità locali (spesso dispotiche), ma mai Sendero occupò il territorio, anche se obbligava i contadini a esporre la sua bandiera. Quando arrivarono le prime truppe militari che non conoscevano la lingua, confusero la presenza delle bandiere con il consenso delle popolazioni e iniziarono i massacri. Ben più gravi furono però le stragi compiute dallo stesso Sendero Luminoso. Il 54% delle vittime è opera dei rivoluzionari (a cui va aggiunto l’1,5% imputabile ai Tupac Amaru), mentre le forze armate sono responsabili del 31% dei morti. La strategia sanguinaria di Sendero ammetteva una sola distinzione: quelli che facevano la guerra (amici) e quelli che facevano politica legale (nemici). È difficile sottrarsi all’indignazione davanti alla nullità culturale e alla gratuita e disumana violenza messe in opera dai senderisti, frutto della cecità morale di quanti ne furono parte e dello smarrimento di molti. Solo dopo la metà degli anni ’80 l’esercito capì che i contadini non erano pro-senderisti e cominciò a distinguere fra guerriglieri e popolazione, avviando un lavoro di servizi segreti a livello nazionale. «La Commissione ha parlato direttamente con Guzmán e abbiamo avuto la certezza di una cosa terribile. Lui non è mai stato ad Ayacucho. È sempre rimasto a Lima, nascosto in un quartiere residenziale dove lo trovò la polizia nel 1990. Dopo la sua cattura il movimento fu decapitato e perse immediatamente forza. Del resto la filiera del comando non ammetteva sostituzioni. Il partito rispondeva al comitato centrale, questo al gruppo di direzione a cui partecipavano Guzmán, la moglie e una terza persona. Quindi tutto era nelle sue mani» (Ames). Grave anche il comportamento dei Tupac Amaru, che però almeno avevano un distintivo che li connotava e non rifiutarono, in alcuni momenti, i negoziati di pace.

Le responsabilità di Sendero Luminoso
I militari affrontarono i rivoluzionari di Sendero Luminoso senza preparazione specifica, senza un lavoro di intelligence alle spalle, con mandato ma senza direzione politica. L’esercito peruviano condivideva con tutte le forze militari del continente la dottrina antiguerriglia francese elaborata nella guerra d’Algeria, trasmessa dalle scuole militari degli Stati Uniti e rafforzata dalla dottrina della sicurezza nazionale. La prima strategia fu quella della repressione indiscriminata contro la popolazione sospettata di simpatie per i senderisti. Solo dopo la repressione divenne più selettiva e mirata. «Abbiamo constatato che ci sono state violazioni ripetute e sistematiche dei diritti umani da parte dell’esercito. Si facevano scomparire le persone, si violentavano le donne, si torturava come norma. Per questo abbiamo accusato i responsabili militari di generalizzate e sistematiche violazioni dei diritti umani. Per 77 casi, di cui 43 gravi, abbiamo individuato i presunti responsabili e chiesto il processo» (Ames). La situazione si aggravò con il colpo di stato di Fujimori del 1992. Il progetto antidemocratico innestò nelle forze armate due trasformazioni: «L’uso di un modello di politica antisovversiva forte dell’immagine vittoriosa (la cattura di Guzmán) per giustificare il colpo di stato e una tregua con il narcotraffico identificando come nemico principale Sendero Luminoso» (Conclusioni). Fra le reazioni negative al Rapporto, quella dei militari (soprattutto in pensione) è stata fra le più dure, invocando da un lato la responsabilità dei politici e dall’altro l’occasionalità delle violenze. Sul finire dell’emergenza terroristica ebbero un ruolo importante i comitati di autodifesa, una sorta di milizia popolare. Avviati nella valle dell’Apurimac, si moltiplicarono in tutte le aree della guerriglia accelerando il collasso strategico di Sendero. Anche i comitati furono «responsabili di crimini che devono essere sanzionati» (Conclusioni). A loro merito si ricorda che, finita l’emergenza, si sono sciolti senza diventare milizie paramilitari o al soldo del narcotraffico.

Sul versante della società civile e delle sue istituzioni, apprezzamenti e critiche vengono rivolti sia ai media nazionali (per il coraggio di alcuni di difendere la democrazia e le ambiguità di altri nel non vedere il problema), sia alle università. Sendero «ha avuto origine nell’Università di Ayacucho, un’università moderna che negli anni ’50 godeva di grande sostegno internazionale. Facoltà come quelle di magistero erano piene dei figli delle persone abbienti della regione, in genere molto critiche verso il governo e politicamente di sinistra. Tutte le università nazionali negli anni ’70 erano di sinistra: s’insegnava il materialismo storico e dialettico. Sendero era una variante dentro un mondo ideologicamente determinato e scientificamente semplicistico» (Ames).

I martiri e i lapsi
A metà degli anni ’80 la Chiesa peruviana poteva contare su 2.300 preti (per il 60% stranieri, appartenenti a congregazioni religiose, spesso più preparati del clero locale, in particolare di quello delle montagne), su 4.900 suore (di cui 2.000 straniere) e su un corpo episcopale di 54 vescovi (fra cui spiccavano in maniera dialettica i sette gesuiti e i cinque opusdeisti). La Commissione (a cui partecipavano due sacerdoti e un pastore oltre al vescovo Bambarén come osservatore) ha constatato che «la Chiesa cattolica e le Chiese evangeliche contribuirono a proteggere la popolazione dai crimini e dalle violenze. Istituzionalmente la Chiesa cattolica condannò con anticipo la violenza dei gruppi armati come le violazioni dei diritti umani da parte dello stato» (Conclusioni). Affermazioni che divennero pratica pastorale attraverso le Commissioni episcopali di azione sociale, le «vicarie» e altri organismi. Anche le Chiese evangeliche presero posizione a difesa dei diritti umani e molti contadini appartenenti a queste Chiese furono promotori dei comitati di difesa.

Ma il giudizio complessivo e il ricordo grato dei numerosi martiri della giustizia si argomenta anche con riserve e critiche rispetto ad alcuni settori della vita ecclesiale. Se (oltre alla Conferenza episcopale e alla Conferenza dei religiosi) uomini come il card. J. Landazuri, mons. J. Dammert, mons. L. Bambaren, p. G. Gutierrez e altri sono spesso citati positivamente, altri, come mons. F. Richter e il card. L. Cipriani, vengono direttamente censurati. Questi ultimi furono vescovi ad Ayacucho. La Commissione ricorda che «la difesa dei diritti umani non fu energica da parte dell’episcopato di Ayacucho durante la maggior parte del conflitto armato» (Conclusioni). I due vescovi vengono accusati in particolare di «aver ostacolato il lavoro delle organizzazioni ecclesiali legate al tema mentre si negava l’esistenza delle violazioni dei diritti umani in quella giurisdizione» (Conclusioni).

Nel Rapporto la posizione del card. Cipriani è sovente evocata e messa in contrasto con quella assunta dalla Conferenza episcopale a proposito della denuncia delle violenze, della difesa degli organismi per i diritti umani, del giudizio sull’amnistia, delle critiche alle forze armate, delle organizzazioni internazionali umanitarie, della pena di morte. Il cardinale ha risposto durante una trasmissione televisiva, ma rimanendo sulla difensiva. In generale la Chiesa cattolica esce con un nuovo rilievo dalla vicenda, anche se sconta l’assistenzialismo di tipo paternalistico che ha inibito in alcuni casi una denuncia più chiara. Anche le Chiese protestanti, assai eterogenee, hanno i loro limiti. Quelle di origine nord-americana sono state lontane dalla questione e quelle maggiori e collocate nelle città della costa sono state lente a capire il problema.

Il Rapporto finale ha scatenato molte reazioni critiche di ambienti legati alla destra al governo. Ma il fronte non è fra destra e sinistra politica. Si riferisce piuttosto al giudizio storico e alla qualità morale del servizio pubblico. Non casualmente il lavoro della Commissione si conclude con alcune indicazioni di riforma di grande rilievo relativamente all’esercito, all’educazione nazionale, alle autonomie regionali, al ruolo della società civile. Elementi che indicano una preferenza anche riguardo alle alleanze internazionali, in particolare verso il Brasile di Lula e l’Unione Europea. «Riteniamo, alla fine, che la riconciliazione di cui c’è bisogno sia quella della società peruviana con se stessa e le proprie istituzioni» (Ames).


articolo tratto da Il Regno logo


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