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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Joan Baez: Io canto per la Pace

Fonte: Famiglia Cristiana - 08 agosto 2004




Joan Baez: da 45 anni voce simbolo delle campagne per i diritti civili

«Canto la Pace»

di Emilia Patruno

Il tempo non ha scalfito gli ideali di Joan, che continua a cantare la speranza che per gli abitanti della Terra la pace sia l’unica via possibile per un mondo più giusto.


«Mi scuso per quello che il mio Governo sta facendo al mondo». La più nota folksinger degli anni ’60 continua a rappresentare l’altra faccia dell’America. Quell’America che, nonostante la tragedia delle Torri Gemelle, grida "no" alla guerra e invita il popolo americano e non solo, a non abbassare mai la bandiera della pace. Joan Baez in Italia è una notizia, è un ricordo, è un’occasione per ascoltare buona musica. Da Saint-Vincent (ospite di Aosta Classica, una bella rassegna di musica, teatro, cinema), Joan Baez ripete che vale la pena di tentare la pace, sempre.

Tanti anni sono passati da quel lontano esordio, nel ’59, al Folk festival di Newport davanti a 250 mila persone. Joan allora era una bella ragazza, florida, passionale, furente. È tuttora una bella donna. Meno fremente, meno incavolata, meno paffuta. I capelli sale e pepe hanno preso il posto dell’indomita chioma, l’atteggiamento è quello di una saggia donna di mezz’età, che ha avuto le sue soddisfazioni familiari e persino un nipotino, che è tutta la sua vita.

Un certo tipo di abbigliamento fatto di gonnelloni colorati e zoccoli ha lasciato il posto a una mise elegante, vagamente esotica, nei colori delle spezie, l’unico tocco bizzarro è un incredibile numero di braccialettini tibetani di legno e pietre dure. Alla conferenza stampa, a differenza delle star americane, che guardano nervose l’orologio e quando scatta il quarto d’ora di intervista inflessibilmente abbandonano i giornalisti, lei è disponibile, cordiale e poco incline alla lagna.

«Mi scuso per il mio Governo»

Certo, si comincia con una dichiarazione inequivocabile nei confronti del suo Paese: «It’s disgusting, è disgustoso, quello che sta facendo il mio Governo nel mondo. Mi scuso, anche se sarà difficile rimediare a tanta violenza».

Gli ideali sono sempre gli stessi, e a Joan Baez sta ancora bene di essere la voce simbolo delle campagne per i diritti civili, portabandiera di ideali di pace e di amore universale che, attraverso la musica, sfociano in un reale attivismo a sostegno dei movimenti. Oggi i suoi compagni di viaggio e di lotta sono altri (alcuni sono morti, come Woody Guthrie, «il nonno di tutti noi», dice, il grande maestro country cui dedica sempre una canzone nei concerti), primo fra tutti Michael Moore, regista del film Farenheit 9/11 (e di Bowling a Columbine), nuovo simbolo americano antimilitarista e anti-Bush, con il quale ha un grande rapporto di amicizia, e con il quale (e questa è una notizia) ha in progetto «un nuovo lavoro».

«A Michael, che riceve centinaia di migliaia di e-mail al giorno», dedica, nel concerto serale di Saint-Vincent, Joe Hill, la storia di trasformazione di Josef Hillstrom, operaio svedese emigrato a New York agli inizi del secolo scorso, cantastorie e pioniere della lotta sindacale in America, ingiustamente condannato a morte per omicidio e rapina a mano armata e giustiziato nel 1915 a 34 anni (trattamento subìto in seguito anche dagli italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, protagonisti di un’altra struggente canzone cantata dalla Baez, scritta nel ’70 da Ennio Morricone).

Una casetta sull’albero

Il tempo non ha scalfito gli ideali di Joan, che continua a cantare la speranza che per gli abitanti della Terra la pace tra i popoli sia l’unica via possibile. Già, cantare. «Anche se andare ai concerti o farli non significa molto, in sé. Bisogna prendere dei rischi. Nessun cambio sociale è senza rischi. Non vorrei che fosse come per "Live Aids", il concertone... dove l’unico rischio è non essere invitato».

Le chiediamo di Bob Dylan, suo grande amore, e Joan glissa, anche perché la relazione fu spesso tempestosa, e alla fine si concluse per divergenze di opinioni su tante cose, prima fra tutte la droga. «Io non ne ho mai fatto uso», taglia corto. «E oggi vivo per mio figlio, cui è stato portato via qualcosa negli anni ’70, e per il mio nipotino. Ho una casetta su un albero, nella quale mi piace dormire; faccio meditazione, ho sconfitto attacchi di panico e fobie. Uso il cellulare, ma a volte lo dimentico in macchina. E quando lo riprendo non ascolto mai i messaggi in segreteria»..

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