Anna Politkovskaja: la numero 211
L’assassinio di Anna Politkovskaja: parla il marito Aleksandr Politkovskij
Vita e morte della numero 211
di Fulvio Scaglione
È stata la duecentoundicesima giornalista russa a essere uccisa dal 1992. Era una donna innamorata del suo mestiere, che combatteva per denunciare le ingiustizie.
Mosca
Quella che proveremo a raccontarvi è la storia della numero 211. Una storia complicata e strana, cominciata in un palazzo di New York e finita su un selciato di Mosca. Piena di emozioni e sentimenti, ideali e violenze. La storia di un uomo e di una donna a loro modo eccezionali, delle loro carriere, dei loro figli, delle loro passioni, e insieme degli ultimi vent’anni di una Russia mai così dura da interpretare con i nostri schemi vecchi e frusti.
«Con Anna ci siamo incontrati nel 1976», dice Aleksandr, l’uomo che con la numero 211 ha diviso una vita, «a una festa di studenti a casa sua. Io già frequentavo la facoltà di giornalismo, lei faceva ancora le superiori. Ero stato invitato da sua sorella, ma appena la vidi… Non potevamo essere più diversi, almeno per origine. Io di una famiglia modesta, un tipico prodotto della moskovskaja spanà, un ragazzo cresciuto sulla strada, un teppistello. Lei di una famiglia della nomenklatura sovietica: suo padre era un diplomatico e lei stessa era nata a New York, nella nursery dell’Onu. Quando ci sposammo, nel 1978, io arrivai alla cerimonia con un cappellaccio in testa e una bottiglia di vodka in mano, i suoi parenti erano eleganti, seri e compiti. Ma avevamo tanti interessi in comune, per esempio i libri. A quell’epoca leggevamo con furia la Achmatova e Pasternak, autori proibiti nell’Unione Sovietica. I libri ce li procurava dall’estero suo padre, che approfittava dello status di diplomatico, mettendo anche a rischio la carriera. Eravamo simili anche nel carattere: lei, così minuta e intellettuale, aveva un vulcano dentro e non aveva problemi a tenermi testa. Nel 1977 nacque Ilja, il nostro primo figlio, e nel 1980 Vera. In quello stesso anno Anna e io finimmo l’università insieme: lei, che era più giovane di me e aveva fatto due figli, era riuscita a prendere la laurea in giornalismo in meno tempo di me».
Le Olimpiadi di Mosca del 1980
A quei tempi, con quella laurea, un giovane sovietico della capitale non faceva fatica a trovare lavoro. A parte questo, anche Aleksandr e Anna ebbero i problemi di una giovane coppia qualunque. «Io cominciai a lavorare per il primo canale della Tv di Stato (il più importante, l’unico ricevibile su tutto il territorio dell’Urss, ndr.) nel 1980, con le Olimpiadi di Mosca», racconta lui. «Giornalista sportivo, specializzato in arti marziali. Anna stava a casa con i bambini e mordeva il freno. Fare solo la mamma non era da lei. Intendeva realizzarsi pure nel lavoro, ma per farlo voleva aspettare che Ilja e Vera crescessero. Anche perché io, invece, ero sempre in giro, proiettato sulla carriera. E certo, sentivo anche che lei un po’ mi invidiava».
Carriera che esplode a metà degli anni Ottanta, con l’arrivo sulla scena di Michail Gorbaciov e il lancio della perestrojka. «Nel 1982 un decreto del Governo dell’Urss mise fuori legge le arti marziali, così dovetti cercarmi qualcos’altro. Prima furono gli sport minori, poi i programmi educativi per ragazzi».
E da lì, nel 1987, arriva a un programma che parte in sordina e diventa un mito: Vzgljad ("Sguardo", o "Punto di vista"), che Aleksandr conduce con due colleghi (uno dei quali, Jurij Shikocikin, sarà poi collega di Anna e morirà avvelenato per le sue inchieste sulla corruzione, n.d.r), il primo programma a criticare la realtà sovietica nella sua drammatica realtà. «In un attimo diventammo delle star. La gente ci fermava per strada, fummo eletti al Parlamento, facevamo serate e riempivamo i teatri in tutta l’Urss».
Ancora nei primi anni Novanta, quando chi scrive viveva a Mosca, Aleksandr bruciava gli ultimi spiccioli di gloria con il programma Politbjuro. Poi le porte della Tv di Stato si chiusero per lui, che oggi ha una piccola casa di produzione di documentari. «So benissimo che quelle porte per me sono chiuse per sempre», dice con un sorriso, «ma quei tempi sono stati fantastici».
D’accordo, Aleksandr, ma siamo qui per parlare della numero 211, giusto? «Giusto. Come dicevo, lei era una donna colta, intelligente e vivace. D’altra parte, non è che i suoi interessi, quando poi decise di buttarsi nel giornalismo, fossero spuntati dal nulla: negli anni della perestrojka tutte le sere c’erano a casa nostra intellettuali, politici, giornalisti, le persone che frequentavo per lavoro o per amicizia. E lei era a pieno titolo parte di quell’ambiente. Convinta e battagliera come sempre. Ricordo che quando mi arrivava il "consiglio" di non andare a certe manifestazioni per non compromettermi, e succedeva spesso, io rispondevo sempre: "Tanto, se non vado io ci va mia moglie…"».
Le prime inchieste sul campo
E poi? «Poi i figli sono cresciuti e Anna ha deciso di mettersi a lavorare. Prima all’Izvestija, dove curava la posta dei lettori. Poi a Vozdushnyj Transport, il giornale dell’Aeroflot. E quindi, come desiderava, alla Obshaja Gazeta e alla Novaja Gazeta, a fare inchieste sul campo». E magari, a quel punto, l’invidia era sua, Aleksandr... O no? «No, direi di no. Perché la mia parte io l’avevo già fatta e la mia fetta di gloria l’avevo avuta».
Ricorda un momento decisivo, quello in cui Anna cominciò a trasformarsi nella numero 211? «Sì, certo. Fu nel 1994, quando si occupò della lotta tra gli oligarchi Vladimir Potanin e Vladimir Gusinskij per il controllo di Norilsk Nickel, il più grande produttore mondiale di nickel, che doveva essere privatizzato. Vinse Potanin, ma a un certo punto Gusinskij chiamò Anna e le mostrò un dossier diffamatorio che aveva raccolto sulla nostra famiglia. Anna era spaventata, andai a prenderla e parlammo a lungo, seduti in macchina. Lì lei decise che sarebbe andata avanti comunque, anche se temeva il discredito anche più della morte. Lì nacque l’Anna che poi tutti hanno conosciuto».
E perché temeva il discredito sopra ogni cosa? «Lei scriveva i suoi articoli per cambiare le cose. Ogni pezzo doveva aiutare qualcuno o contrastare un’ingiustizia. Doveva produrre qualcosa, anche poco, ma qualcosa. Senza la sua credibilità questo sarebbe diventato impossibile. La stessa cosa le successe, anni dopo, con Ramzan Kadyrov (il governatore filorusso della Cecenia, ndr.), che minacciò di trascinarla in una sauna e farla fotografare in pose sconce con uomini nudi».
Un amore come nei romanzi
La numero 211 diventa in poco tempo uno dei giornalisti più famosi di Russia e d’Europa. Rischia la vita, denuncia l’atrocità della guerra in Cecenia, viene sequestrata e avvelenata, fa da mediatrice durante l’attacco al Teatro Dubrovka di Mosca, nell’ottobre 2002. Una domanda, Aleksandr. Lei descrive una coppia affettuosa e solidale, ma nel 1999 vi siete separati. E ciò, disse Anna in un’intervista, perché lei non reggeva più, era spaventato dalle sue inchieste, dalle minacce che ricevevate. Come si spiega?
«Forse non eravamo fatti per vivere insieme per sempre. I nostri figli, a dire il vero, si stupivano spesso che avessimo resistito 22 anni. Quanto al resto, Anna l’avrà pure detto, ma non capisco perché. Ben prima di lei avevo ricevuto anch’io pressioni e minacce per le mie denunce. E ho sopportato a lungo le stesse cose che poi sono toccate a lei. Il nostro era stato un grande amore, sbocciato sui banchi di scuola come nei romanzi. Forse era solo finito, tutto qui».
Voi, i familiari, vi aspettavate quanto poi è successo? «Sì, certo. Ormai Anna aveva dato fastidio a troppi con il suo impegno. E poi era una specie di spirale senza fine. Lei non riusciva a passare accanto alla sofferenza altrui e girarsi dall’altra parte. Così, chi non aveva più speranza di trovare giustizia finiva da lei, che trovava altre storie, altre notizie».
Il ruolo dei militari
«Un esempio del suo carattere: all’epoca di Vzgljad feci un servizio sul Centro ematologico di Minsk, che era in condizioni disastrose. Con quel reportage e una colletta tra i telespettatori raccogliemmo un sacco di soldi, che girammo al Centro. Anna in seguito pretese che io tornassi ogni anno a Minsk per controllare che i soldi fossero spesi bene. Avevo parlato della possibilità che la uccidessero con Ilja e Vera la sera del mio compleanno, un mese prima che succedesse davvero».
Tutti, in Occidente, hanno puntato il dito contro il Cremlino e il presidente Putin, che in effetti ha avuto parole a dir poco gelide. Qual è la sua versione? «Putin non c’entra e nemmeno Kadyrov: è un idiota e durerà poco, lo ammazzeranno presto come hanno fatto con il padre. Secondo me, le ipotesi più credibili sono due. Sono stati dei militari che lei aveva denunciato per le violenze in Cecenia: molti credevano di ottenere gloria e medaglie con quello che facevano, e si sono trovati in carcere o in congedo. Più facile per loro prendersela con Anna che con chi li aveva mandati allo sbaraglio in una guerra sbagliata. Oppure sono stati i nemici di Putin, che hanno voluto "avvertirlo". L’omicidio è avvenuto nel giorno del compleanno di Putin e tra poco più di un anno si vota per il nuovo presidente...».
Come ha saputo dell’accaduto? «Stavo dormendo, è suonato il telefono ma non sono riuscito a rispondere. Dopo qualche minuto è suonato di nuovo: era la radio Eco di Mosca che mi chiedeva di confermare la notizia».
La sua ex moglie era stata appena uccisa con tre colpi di pistola davanti al portone della casa in cui viveva. Aleksandr Politkovskij ci dà la mano e si perde nella folla del centro di Mosca. La numero 211 era Anna Politkovskaja: la giornalista numero 211 uccisa in Russia dal 1992.