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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Storia del paese e del conflitto

In questa sezione vengono ripercorse le tappe fondamentali che hanno caratterizzato la storia del paese e del suo conflitto
24 marzo 2009

Cenni sulla stagione precolombiana

L’attuale territorio di El Salvador si trova nel cuore dell’antica regione mesoamericana, compresa tra la fascia semidesertica del Messico centro-settentrionale e la ragione tropicale dell’istmo di Panama. Le origini antropologiche del paese risalgono all’insediamento, in tempi diversi, di tre principali gruppi etnici: un gruppo arcaico (chorotegas) poi dislocatosi nell’attuale Nicaragua di cui rimangono tracce molto scarse; un gruppo di ceppo etnolinguistico maya (pocomanes), migrato verso il Sud attorno al sec. VII; un gruppo di lingua náhuatl, costituito da successive migrazioni, iniziate con quella dei toltechi (sec. XI) e terminate con quelle di comunità di principi-mercanti e coloni aztechi (sec. XV). A questo ceppo di «conquistatori» esterni appartiene la civiltà pipil che ebbe il suo epicentro nell’area compresa tra Nahuizalco (dal náhuatl «quattro quetzal», nell’attuale distretto di Sonsonate), Cuzcatlán e i vulcani che circondano l’altipiano di San Salvador. Ai pipil di derivazione mexica, che assunsero un ruolo dominante nel centro del paese (mantenendo contatti intensi con la Valle del Messico), si devono poi aggiungere altri ceppi autoctoni precolombiani, come i lenca, lungo la frontiera con l’Honduras, nella regione di Chalatenango, e piccoli gruppi chontal, provenienti dalla regione del Golfo e migrati dall’entroterra tabasqueño, attraverso i grandi fiumi del Petén (il cuore delle civiltà maya della Mesoamerica del periodo classico).

Conquista e resistenza

Nel 1524, appena quattro anni dopo la caduta della capitale dell’impero azteco, Tenochtitlan, per mano di Hernan Cortés, prese il via la conquista spagnola dell’attuale El Salvador. La conquista del paese si lega alla fama del «conquistador del Centroamerica», Pedro de Alvarado, uno dei più stretti luogotenenti di Cortés, penetrato in El Salvador dal Guatemala nel 1524, subito dopo aver sedato la prima rivolta dei maya cachickueles.

Nel 1525 Gonzalo de Alvarado fondò la futura capitale San Salvador e tre anni dopo Diego de Alvarado riuscì a ottenere una precaria pacificazione. L’attuale territorio di El Salvador divenne quindi provincia della capitanía general del Guatemala, nel Vicereame della Nuova Spagna (con capitale Città del Messico) che comprendeva tutti i territori dell’America istmica.

Con la dominazione spagnola, rapidamente esauritasi la «fase dell’oro» furono quindi introdotti tutti i tradizionali istituti coloniali, dall’encomienda (assegnazione di terre a signori locali, secondo un sistema d’impronta feudale, che garantiva la disponibilità di popolazione indigena utilizzata come manodopera servile) al patronato (sistema di controllo statale della penetrazione religiosa nel territorio).
L’introduzione dei modelli coloniali provocò, come nel resto del vicereame della Nueva España, una forte stratificazione sociale e una conseguente gerarchizzazione della società che incideva pesantemente sull’elemento comunitario-rurale indigeno.

La componente puramente indigena andò riducendosi notevolmente (fino alle 300.000 unità circa della prima metà del XX secolo), prima per effetto di malattie ed epidemie, poi per effetto delle trasformazioni sociali, economiche e culturali (dall’impiego del bracciantato alle emigrazioni forzate, dal processo di evangelizzazione e hispanizzazione), mentre aumentava il numero di meticci (oggi la gran parte della popolazione del paese).

La stagione postcoloniale

Il processo di decolonizzazione del paese fu piuttosto tormentato. Nel 1811, come in Messico, in Guatemala e nei vicini paesi centroamericani, sull’onda dei fermenti giacobini europei, scoppiarono i primi moti indipendentisti, animati dai criollos che intendevano porsi nel ruolo di mediatori tra la colonia e l’autorità spagnola. La lotta per l’indipendenza esplose infatti nel 1821; l’anno successivo El Salvador si oppose all’annessione al Messico votata dalla giunta consultiva dell’ex capitanía, ormai sottratta al dominio spagnolo, e, dopo aver resistito ad un attacco delle truppe guatemalteche, fu invaso dall’esercito messicano, guidato dall’imperatore Augustín de Iturbide. Nel 1823 i Salvadoregni, sotto la guida di Juan Vicente Villacorta, sconfissero le truppe messicane. Venne quindi proclamata, nel 1925, l’indipendenza della Confederazione delle Province Unite dell’America Centrale (con Costa Rica, Guatemala, Honduras, Nicaragua), in cui El Salvador si trovò a competere con il Guatemala per la supremazia.

La Repubblica “cafetalera”

Nell’ultimo ventennio del secolo XIX, durante la grave crisi economico-finanziaria che colpì la regione centroamericana, che cominciò ad intensificarsi in maniera sempre più radicale il ruolo delle compagnie commerciali straniere ed il legame di queste con le élite al potere. Fu questa la stagione che gli storici hanno ribattezzato anche come l’età delle Repúblicas bananeras o, per restare al caso salvadoregno, della República cafetalera, il cui tratto dominante era contrassegnato da una sorta di tacito accordo tra i detentori del potere locali, esercito ed investitori stranieri. In questo senso un ruolo dirompente fu svolto in El Salvador dalla rapida diffusione, tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento, del caffè, tipica coltura d’esportazione (passato in pochi anni, dal 1882 al 1910, a coprire oltre il 35% delle esportazioni, per toccare addirittura l’85% nel 1929). Questo processo economico accentuava notevolmente la dicotomia tra colture destinate ai mercati stranieri e colture di sussistenza, per il consumo locale, aggravando la situazione di dipendenza in cui si trovavano i contadini, duramente investiti dal processo di spoliazione dei terreni, ma anche contribuendo ad aumentare la specificità di El Salvador nel contesto centroamericano.

Tra crisi e riforme mancate: il consolidamento di un sistema autoritario

Nel 1913, salì al potere la dinastia Meléndez-Quiñones, che governò con metodi dittatoriali fino al 1927, quando il nuovo presidente Romero Bosque, pur non abbandonando una politica autoritaria, concesse una serie di libertà formali.

Nel 1948 un colpo di stato militare depose il presidente Castaneda. Il colonnello Osorio, fondò in quello stesso anno del Partido Revolucionario de Unidad Democrática (Prud), ispirato al messicano Pri e nel 1950, l’anno del varo della nuova Costituzione, ottenne la presidenza. Grazie anche allo stabilizzarsi della situazione centroamericana nei nuovi equilibri della guerra fredda (nel 1954 il generale Castillo Armas rovesciò con un golpe, sostenuto da Washington, il presidente riformista Arbénz) proseguì il processo di «modernizzazione dall’alto» sulla base dello stretto legame tra forze armate e oligarchia. In quella stagione El Salvador conobbe un graduale sviluppo economico, favorito dalla crescita della piccola industria e dall’aumento del prezzo internazionale del caffè, senza però che si registrassero significativi progressi sul fronte della libertà politica, né tantomeno della redistribuzione sociale.

Nella seconda metà degli anni ’50, il presidente Lemus non osteggiò in un primo tempo il risorgere di organizzazioni democratiche, sindacali (la Confederación General de Sindicatos Slavadoreños, Cgss, nel 1958) e della società civile; quando poi tentò invano di reprimerle, nel 1960, un anno dopo il successo della rivoluzione castrista a Cuba, in un contesto socio-culturale e politico ormai in ebollizione in tutta la regione, dovette lasciare il potere ad una giunta militare di ispirazione progressista che tentò di avviare un effimero esperimento riformista.

La democrazia monopartitica e i segni della crisi

L’esperimento di riformismo «dall’alto» (ispirato a modelli di terzomondismo autoritario come quello peruviano), fu però destinato a durare ben poco. Un altro contro-golpe dell’esercito, riportò infatti già nel 1961 El Salvador sulla strada del conservatorismo, proprio mentre, nell’ambito della kennedyana «Alleanza per il progresso» si ricominciava seriamente a discutere un progetto di integrazione economica centroamericana che proprio quell’anno si concretizzò nella creazione di un’area di libero-scambio ribattezzata Mercomunca.

La seconda metà degli anni ’60, nonostante lo stallo istituzionale manifestatosi durante il governo Rivera , in una buona congiuntura economica (il Pil andava crescendo con una media del 4,8% annuo) fu all’insegna di significativi mutamenti sociali, culturali e politici che investirono non solo il mondo sindacale, studentesco e della società civile ma anche la chiesa salvadoregna nella sua complessità. Se la nascita di nuove diocesi (San Vicente nel 1943 e Santiago de Maria nel 1954) aveva aumentato la collegialità della Conferenza episcopale salvadoregna, i segnali di più significativo rinnovamento venivano allora dalla cosiddetta «chiesa popolare», in linea con i fermenti postconciliari metabolizzati a Medellín nella II Conferenza del Celam (Episcopato latinoamericano) del 1968. La cosiddetta teologia della liberazione avrebbe infatti trovato diversi interpreti sensibili nella realtà salvadoregna, sia sul fronte del clero regolare, sia su quello delle «comunità ecclesiali di base».

La tensione interna generata dal radicalizzarsi delle forze sociali, cristiane e di sinistra, spinse il governo a rispondere con un crescente irrigidimento dell’indole autoritaria e l’oligarchia a fare un uso sempre più spregiudicato di gruppi paramilitari attivi nelle campagne (su tutti il famigerato Orden costituitosi già nel 1966). La scelta dell’irrigidimento invece di affrontare riforme e di tentare di «governare» le trasformazioni del paese avrebbe presto accelerato la spirale della violenza.

La crisi del Mercomunca si associò alla crescente tensione tra El Salvador e Honduras, culminata nel 1969, durante la presidenza del colonnello Sánchez Hernández, in una breve quanto sanguinosa guerra (nota anche come la guerra de las cien horas o la guerra del fútbol, dal momento che esplose dopo una serie di incidenti tra opposte tifoserie durante le partite di qualificazione ai mondiali di calcio), che pose fine di fatto all’area di libero-scambio. Militarmente il conflitto si risolse con una netta vittoria dell’esercito salvadoregno che oltrepassò il confine di Chalatenango e inflisse una dura lezione militare ai vicini, ma la vittoria rappresentò un boomerang per il paese. Non solo la fine del mercato comune fece perdere all’industria salvadoregna il suo ruolo di esportatore regionale di manufatti (il Mercomunca assorbiva ormai il 40% dei prodotti nazionali) ma il rientro forzato e improvviso di oltre 150.000 salvadoregni, da tempo insediati in Honduras con attività redditizie, provocò una serie di ripercussioni sociali e contribuí a un’immediata impennata del tasso di disoccupazione.

Tra rivendicazioni politiche e tensioni sociali, con un debito estero quadruplicatosi nel corso dell’ultimo decennio, la decade dei ’70 iniziò così in modo assai burrascoso e sarebbe stata destinata a finire in maniera ancor più traumatica e violenta con lo scoppio della guerra civile, alla fine di una stagione segnata da un crescente dinamismo delle organizzazioni popolari e dal radicalizzarsi della repressione. La mediazione dell’Organizzazione degli Stati Americani che aveva posto fine alla guerra con l’Honduras non servì infatti ad aprire un effettivo processo di dialogo interno e nel 1972 la situazione sembrò precipitare. Grande agitazione seguì infatti alla contestatissima vittoria alle presidenziali del colonnello Arturo Molina, del Pcn, che sconfisse il leader dell’opposizione, riunitasi per l’occasione nella Unión Nacional Opositora (Uno), il democristiano José Napoleón Duarte, solo grazie a una consultazione elettorale palesemente irregolare. All’indomani dell’insediamento, Molina dovette sventare, con il supporto degli «uomini forti» dei vicini Guatemala e Nicaragua, Arana Osorio e Anastasio Somoza, un tentativo di golpe da parte di una frangia riformista dell’esercito e diede il via a una vera e propria campagna di persecuzione dell’opposizione che aveva come principali obiettivi Duarte (arrestato, torturato e poi espulso dal paese) e il leader socialdemocratico Guillermo Ungo. Dall’altra parte si riorganizzarono le opposizioni e fecero la loro comparsa le prime formazioni di guerriglia rivoluzionaria. Mentre cresceva il dinamismo di movimenti sociali quali il Bloque Popular Revolucionario (Bpr) o il Frente de Acción Popular Unificada (Fapu), con la crisi del ’72 iniziarono la loro attività clandestina piccoli gruppi armati antigovernativi, quali Forze Popolari di Liberazione (Fpl), gruppo fuoriuscito dal Partito Comunista Salvadoregno organizzato dal noto attivista Salvador Carpio, le Forze armate di Resistenza Nazionale (Farn) e le Forze Armate di Liberazione (Fal), cui si sarebbe aggiunto l’Esercito Rivoluzionario del popolo (Erp). Voci critiche verso il governo si levarono, a partire dal 1975, anche da parte di esponenti della Chiesa cattolica, e in particolare dei gesuiti (ma anche dello stesso arcivescovo di San Salvador, Luís Chávez y Gonzáles, protagonista nei primi anni ’70 di una coraggiosa e a suo modo inedita azione pastorale) preoccupati da una questione sociale sempre più accesa (accelerata anche dal boom demografico), specie nelle campagne.

Il triennio 1977-1979 fu segnato in effetti da una costante escalation delle violenze (spesso ad opera della Policia de hacienda e della Guardia Nacional) che colpirono in particolare contadini ma anche membri delle comunità di base, delle organizzazioni sindacali e dello stesso clero, accusati dall’estrema destra di simpatizzare con la guerriglia, mentre alcuni rappresentanti dell’oligarchia venivano rapiti e giustiziati dai gruppi ribelli. Al culmine della crisi e dello stallo politico, il generale Romero fu deposto nell’ottobre del 1979 da un golpe orchestrato da alcuni giovani ufficiali, riuniti nel movimento 2Mr, che diedero vita ad una giunta rivoluzionaria. Pochi mesi prima (in luglio) il Centroamerica era tornato nell’occhio del ciclone, apprestandosi a vivere la stagione della «nuova guerra fredda», in concomitanza con la vittoria sandinista nel vicino Nicaragua. Si apriva allora una delle stagioni più turbolente e drammatiche per la storia del Salvador.

Una terribile guerra civile

La nuova giunta insediatasi nel 1979 in un primo momento lasciò intravedere una possibile svolta di tipo «riformista», impegnandosi nella organizzazione di «libere» elezioni e promettendo di svolgere un ruolo di pacificazione e riforma sociale (tra i membri civili della nuova giunta vi era anche il rettore della Uca, Román Mayorga e il socialdemocratico Ungo). In realtà il progetto di «democratizzazione» dall’alto (seguito con interesse anche dall’ambasciatore statunitense Robert White) che aveva tra i suoi obiettivi la convocazione di libere elezioni e il vero della riforma agraria non fece nemmeno in tempo a iniziare. Mentre non s’interrompevano le violenze, nella nuova giunta il partito della «repressione» ebbe infatti rapidamente la meglio sulla componente riformista guidata dal colonnello Adolfo Majano, ostacolato del colonnello Abdul Gutiérrez e del ministro della difesa García.

Nel gennaio del 1980 fu quindi nominata una seconda giunta rivoluzionaria, marcatamente schierata su posizioni di estrema destra, in linea con le idee dell’ala più anticomunista ispirata dal generale in pensione Alberto Medrano (l’ideatore delle milizie paramilitari di Orden), dal maggiore Roberto d’Aubuisson, già attivo nei servizi segreti ed esperto delle tecniche antiguerriglia, e da un ex comandante della Guardia Nacional, Ramón Alvarenga.

Alla linea dura imposta dai gruppi di estrema destra che fiancheggiavano la nuova giunta, segnata dall’incremento esponenziale di «eliminazioni» mirate, rapimenti e torture, secondo il modello argentino, la guerriglia rispose «alzando il tiro» della propria azione e serrando le proprie fila - in ottobre cinque diversi gruppi avrebbero dato vita al Frente de Liberación Nacional Farabundo Martí (Fmln) - e stringendo i legami con il vicino Nicaragua. Proprio mentre negli Usa il repubblicano Ronald Reagan nella sua campagna elettorale accusava il più moderato Carter di eccessiva debolezza in Centroamerica, la situazione salvadoregna precipitava dunque da uno stato di «crisi permanente» a quello di aperta guerra civile. Un ulteriore segnale di questa escalation venne, il 24 marzo del 1980, dall’uccisione, mentre celebrava la messa nella cappella di un ospedale, dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Questi, pur venendo da una formazione conservatrice che lo aveva visto estraneo al processo di penetrazione della teologia della liberazione nel paese, da quando aveva assunto la guida dell’arcidiocesi della capitale (nel febbraio del 1977) si era impegnato direttamente in azioni di sostegno alle classi più disagiate. A queste aveva accompagnato una coraggiosa denuncia delle violazioni dei diritti umani perpetrate dall’esercito, e una condanna generale dell’uso della violenza che si traduceva in un accorato appello alla riconciliazione e alla giustizia sociale, espresso attraverso le sue omelie, la sua azione pastorale e l’attività della radio diocesana Ysax, della Commissione diritti umani e del Socorro Jurídico. L’azione di denuncia di Romero culminò in una lettera aperta scritta al presidente Carter, nel noto vibrante discorso all’università di Lovanio del 1979 (che gli concesse una laurea ad honorem) e nell’ultimo famoso e tragico appello ai militari a «disobbedire». L’uccisione del vescovo, l’eliminazione di preti socialmente impegnati (a cominciare dal parroco di Aguilares, padre Rutilio Grande, nel 1977) e il massacro di centinaia di catechisti nei villaggi, oltre che di migliaia di membri laici delle comunità di base, diede il segno del coinvolgimento della Chiesa salvadoregna nel processo di riforma sociale (nonostante la decisa contrarietà dei settori più conservatori guidati dal vescovo di San Vicente, Aparicio y Quintanilla).

L’omicidio di Romero (oggi considerato in molti settori della società salvadoregna alla stregua di un vero e proprio «santo popolare») ed il successivo massacro di numerosi manifestanti asserragliatisi nella cattedrale in occasione dei suoi funerali, pur dando un certo risalto internazionale alla grave crisi del Salvador, non sbloccò la situazione. Questo fu anzi il preludio alla stagione della guerra civile. Nonostante il tentativo di varare una riforma agraria promosso dalla giunta dal marzo 1980, la situazione degenerò ulteriormente. Due mesi dopo l’uccisione dell’arcivescovo il governo dichiarò lo Stato d’assedio e la violenza crebbe d’intensità con un’escalation impressionante.

Il biennio 1980-1981 fu segnato da una serie continua di violenze efferate, dal tristemente noto massacro di Morazán (in cui persero la vita circa 3.000 contadini) al brutale assassinio di tre suore e un religioso statunitensi che spinse Carter, preoccupato dalla questione dei diritti umani, a sospendere gli aiuti militari a El Salvador (linea di lì a poco ribaltata dal suo successore Reagan). Fu infatti soprattutto il nuovo interventismo statunitense nella regione, insieme all’avvicinamento dei gruppi ribelli a Cuba e Nicaragua (e indirettamente a Mosca), a dare una dimensione inedita alle crisi centroamericane. Una significativa parte degli aiuti statunitensi ai regimi «amici» come El Salvador e Guatemala, fu però utilizzata anche nell’ambito dell’operazione «Bacino dei Carabi», o a sostegno dei ribelli antisandinisti contras, diretti dall’ex addetto militare di Somoza, Enrique Bermúdez, contribuirono infatti a una rapida militarizzazione della regione. In particolare l’appoggio ai contras (definiti dallo stesso Reagan «combattenti per la libertà»), che ebbero la loro base logistica e di addestramento in Honduras (dove i consiglieri militari statunitensi arrivarono ad essere anche quasi 3.000), sostenuto attraverso complesse covert operations della Cia, così come l’interventismo indiretto (si voleva ad ogni costo evitare una escalation di tipo vietnamita) nella guerra civile salvadoregna, avrebbe sollevato diverse proteste nell’opinione pubblica statunitense.

Gli scontri armati tra esercito e guerriglia e le scorrerie dei gruppi paramilitari sarebbero continuati con alterne fortune per oltre un decennio, spesso mescolandosi a omicidi politici di membri delle cooperative interessate dai repartimientos de tierra e a regolamenti di conti personali, facendo precipitare il paese in una situazione drammatica sia sul fronte dei diritti umani (per l’uso spregiudicato di tecniche volte a terrorizzare la popolazione civile), che per la stagnazione economica (accelerata dall’impennata del prezzo del petrolio) che bloccò il paese dopo i timidi progressi economici registrati negli anni Sessanta-Settanta (tra il gennaio del 1980 e il dicembre del 1982 il Pil crollò del 25%).

Verso la guerra a «baja intensidad»

Sul fronte politico, dopo lunghe e faticose trattative con i militari, condotte da Duarte, dal dicembre del 1980 alla testa di un «governo di unità nazionale» provvisorio, si iniziarono quindi a cercare soluzioni politiche alla guerra. Duarte si dichiarò disposto ad aprire un dialogo con il Fronte democratico rivoluzionario (Fdr) di Ungo e affidò ad una speciale commissione il compito di elaborare una normativa per eleggere, entro il 1982, un’Assemblea costituente. Le elezioni dell’Assemblea, nel marzo del 1982, si svolsero però ancora in un clima di violenza diffusa (si calcola per quei mesi una media di 200 omicidi politici alla settimana) e sotto i colpi della nuova veemente offensiva del Fmln, ribattezzata campaña de marzo. Alla fine Ungo non partecipò al voto, trasferendosi in Messico e cercò di tener viva l’attenzione politica intorno alla questione salvadoregna, interpellando il presidente dell’Internazionale Socialista W. Brandt, perché svolgesse una mediazione. La Democrazia Cristiana di Duarte, con il 40,2% dei voti, conquistò la maggioranza relativa, che non fu però sufficiente per governare, per l’avanzata dei partiti di estrema destra a cominciare dalla neonata Alianza Republicana Nacionalista (Arena), fondata dallo stesso D’Abuisson che ottenne un sorprendente 29,3%, conquistando anche molti voti popolari. Caduta l’ipotesi di candidare alla presidenza il leader spirituale di Arena, giudicato «improponibile» da Washington, la guida del paese passò al più moderato Magaña (eletto anche con i voti del Partito di Conciliazione Nazionale) e nel dicembre 1983 fu approvata la nuova Costituzione.
A metà anni ’80 iniziò quindi la stagione della cosiddetta «guerra a bassa intensità», segnata da una guerriglia endemica, attentati, rapimenti e rappresaglie e da un tentativo di far terra bruciata del sostegno popolare alle forze guerrigliere, specie nei villaggi e nelle comunità contadine, attraverso un’azione che doveva essere civile e militare insieme. In questo contesto maturò il progetto di ritorno alla democrazia formale, benché rigidamente «protetta». Nel marzo del 1984 si tennero quindi delicate elezioni presidenziali che pur confermando la vittoria di Duarte su D’Aubuisson, non diedero la maggioranza assoluta a nessuno dei due candidati e vennero ripetute nel maggio dello stesso anno. Il ballottaggio per l’elezione presidenziale fu quindi vinto da Duarte, col 53,6% dei voti e pose le basi per una possibile ripresa di negoziati diplomatici.

Nel 1985 alcune cellule del Fmln (a sua volta impegnato a mantenere l’unità delle forze guerrigliere) si resero protagoniste di altre azioni eclatanti come l’uccisione del generale Medrano (l’ideatore di Orden) e il rapimento della figlia di Duarte, Inés Durán, il quale fu criticato dai vertici militari per aver ceduto alle richieste della guerriglia (con la liberazione di 22 prigionieri politici).

Mentre circolavano voci di un nuovo possibile golpe militare, la situazione socio-economica del paese, scosso ormai da sei anni di guerra civile e investito nell’ottobre da un violento terremoto (che provocò oltre 1.000 vittime e danneggiò oltre 250.000 persone), si faceva sempre più critica.

Solo a partire dal 1987, con il trattato di pace di Esquipulas II, sottoscritto dai leader dei paesi centroamericani, grazie ai progressi del lavoro diplomatico del gruppo di Contadora (iniziativa negoziale promossa fin dal 1983 dai presidenti di Messico, Venezuela, Colombia e Panama), e alle pressioni delle associazioni internazionali per i diritti umani, dell’Onu e dell’Ue, si aprirono effettivi spiragli di dialogo. Questi si collocavano sullo sfondo dell’allentamento della «nuova guerra fredda» nella seconda metà degli anni Ottanta. L’apertura di un esile filo di dialogo e i diversi tentativi di normalizzazione (anche la Chiesa cercò di riassestare la propria presenza aprendo nuove diocesi – Sonsonate, Chalatenango e Zacatecoluca – e ridefinendo i propri rapporti con le autorità politiche) non impedì però una recrudescenza degli scontri, accelerata dalla vittoria nelle legislative del marzo del 1988, del partito Arena, sul Pdc di uno stanco Duarte. Il Fmln annunciò dunque la ripresa della guerriglia, sospesa dopo il terremoto e poi solo parzialmente ripresa nel corso del 1987, anno che vide riemergere una serie di divisioni in seno al movimento (dovute principalmente al dinamismo dell’Erp), proprio mentre le opposizioni di centro sinistra, il Mnr di Ungo, il Partito Social-Cristiano (nato su iniziativa di Rubén Zamora che riunì molti «esuli» del Pdc) e i socialdemocratici davano vita alla coalizione Convergencia Democrática (Cd).

La tensione politica si riacutizzò poi nella seconda metà del 1988 in concomitanza con l’avvio a campagna per le presidenziali del marzo 1989. Queste portarono alla guida del paese il candidato di Arena, Cristiani, che trionfò sia sul candidato democristiano sia su Cd, anche se la percentuale di astenuti, vicina al 50%, indicava la persistenza della polarizzazione politica, in un paese ancora significativamente diviso in due.

Nonostante i picchi di violenza, i massacri e i desaparecidos (quasi 500, in prevalenza contadini, nel solo 1989-90), il processo negoziale prese sempre più forma e si consolidarono i gruppi e movimenti impegnati per l’ottenimento della pace. Questi decollarono finalmente con l’avvio del nuovo decennio, favoriti dal clima successivo al crollo del muro di Berlino e della fine del bipolarismo, mentre l’America centrale si apprestava a tornare alla ribalta internazionale con l’assegnazione del premio Nobel per la pace alla maya quiché Rigoberta Menchú Tum.

Il dopoguerra; tra contraddizioni e speranze

Proprio in quel 1992, l’anno di quel Nobel e delle contestate celebrazioni del cinquecentenario della «scoperta» delle Americhe, anche la guerra civile salvadoregna trovò finalmente una soluzione politica. Questa fu ottenuta dopo faticose consultazioni, con la mediazione dell’Onu, e portò alla firma degli accordi di pace di Chapultepec a Città del Messico, il 16 gennaio. Dagli accordi di pace il Fmln uscì riconvertito nel principale partito d’opposizione e mentre l’esercito veniva significativamente ridimensionato ed «escluso» dalla vita politica, la Guardia Nacional e le altre milizie paramilitari venivano smantellate. Furono quindi avviate parziali ma significative trasformazioni del sistema giuridico e venne rilanciata una divisione di poteri nelle istituzioni (in un sistema presidenziale all’americana), mentre l’Onu predisponeva una missione di monitoraggio sul rispetto degli accordi (Onusal). Sul fronte della società civile, il processo di riconciliazione nazionale passò attraverso un rilancio del movimentismo sociale che trovò canali di collegamento nel rilancio del multipartitismo e nei processi di ritorno del paese a una difficile normalità. Se in buona parte sospesa, nell’ambito del processo di riconciliazione nazionale a tappe forzate, la questione dei conti con il passato (come sarebbe emerso dal rapporto della Comisión de la Verdad Onu), molti passi avanti furono rapidamente compiuti sul fronte della redistribuzione delle terre e dei processi di reinserimento dei profughi. Iniziò allora la complessa strada della riconciliazione, dopo 12 anni di guerra che avevano colpito in particolar modo la popolazione civile, lasciando profonde lacerazioni nel modello nazionale e causando circa 80.000 vittime. Nonostante i sorprendenti progressi compiuti sulla via della normalità e l’euforia che accompagnò la fase della pacificazione, la pesante eredità di una prolungata stagione di violenze resta però un fardello pesante da cui liberarsi in una fase di nuove contraddizioni e marginalità.

Nell’aprile del 1994 la presidenza passò ad Armando Calderón Sol di Arena, mentre nelle elezioni amministrative del 1997 il Fmln s’impose in numerose municipalità. Sul fronte socio-economico gli anni Novanta hanno poi visto il paese adottare una serie di riforme di taglio liberista, in linea con i dettami del Fondo monetario internazionale, intensificando i rapporti economici con gli Stati Uniti da un lato e con paesi vicini come Guatemala e Honduras dall’altro. L’introduzione della dollarizzazione (il dollaro ha ottenuto corso legale nel paese a fianco del colón) nel 2001, lo sviluppo di una rete capillare di maquilas (imprese, generalmente in subappalto per conto di grandi marchi internazionali, a basso impatto tecnologico e a bassissima sindacalizzazione, generalmente attive nel settore tessile), l’effetto delle rimesse degli emigranti salvadoregni negli Usa (oltre due milioni su una popolazione di cinque milioni e mezzo di abitanti) e in Europa, hanno quindi contribuito a cambiare significativamente la struttura economica nazionale, aumentando il peso dei settori finanziari rispetto a quelli tradizionali della produzione rurale.

Nel 1998 un grave colpo alle speranze di ripresa economica è venuto inoltre dall’uragano Mitch che ha investito l’aerea centroamericana, provocando devastazioni e inondazioni e rovinando i raccolti, specie nelle regioni affacciate sul Pacifico, come quella attorno alla foce del Río Lempa, mentre nel 2001 El Salvador ha dovuto affrontare gli effetti devastanti di un nuovo terremoto costato la vita a circa 1.800 persone (impressionanti furono le immagini della montagna crollata a Santa Tecla che fecero all’epoca il giro del mondo).

Tra il 2002 e il 2004 il governo è rimasto sempre nelle mani di Arena (prima con Francisco Flores e poi, dal 2004, con Tony Saca) che ha puntato a evidenziare il grado di rinnovamento interno, anche se il Fmln, pur spaccato al suo interno e minato da spinte centrifughe, ha mantenuto a lungo la maggioranza relativa al congresso e una sorta di predominio nelle varie elezioni amministrative, continuando a governare nella capitale (che registra oltre 2 milioni di abitanti su una popolazione
totale di 5,4). In politica estera nell’ultimo quinquennio il paese ha mantenuto una linea filostatunitense ed è stato tra i più attivi sostenitori del progetto Cafta, per la creazione di un’area di libero scambio centroamericana, sulla falsariga del Nafta (che unisce Messico, Usa e Canada), approvato nel 2003; questo è stato presentato dalle autorità come un’opportunità unica di ripresa economica e criticato dalle opposizioni come possibile fonte di ulteriore aumento della polarizzazione socio-economica.

Dopo tre sconfitte consecutive subite tra il 1994 e il 2004, per la prima volta il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmln) di sinistra si aggiudica le presidenziali svoltesi in El Salvador domenica 15 marzo 2009.

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