Rapporto sui "Profughi ambientali"
Complessivamente oltre 800 milioni di persone vivono in aree a rischio, di cui 344 milioni per cicloni tropicali e 521 milioni per inondazioni. Le zone aride e semiaride – quelle che subiscono di più il peso del clima impazzito - rappresentano il 40% della Terra, ossia 5,2 miliardi di ettari, in cui vivono 2 miliardi di persone. In questo momento ci sono altri 6 milioni di imminenti “ecoprofughi”, che dovranno scappare a causa dell’innalzamento delle temperature: la metà di questo flusso migratorio sarà causata da catastrofi naturali, inondazioni e tempeste, mentre i restanti 3 milioni di persone dovranno sfollare per via dell’innalzamento del livello del mare e della desertificazione. La previsione per il futuro, secondo l’Unhcr (Agenzia dell’Onu per i rifugiati), è di 200-250 milioni di persone in fuga per “cause ambientali” entro il 2050.
L’Africa tra il 1997 e il 2020 avrà subito un flusso di uscita diretto al Nord del Continente e all’Europa di ben 60 milioni di persone. A minacciare seriamente il Bangladesh e molte piccole isole dell’oceano Pacifico è la crescita del livello dell’acqua: 2.000 abitanti delle Isole Carteret (Papua Nuova Guinea) e 100.000 della Repubblica di Kiribati. Ma la questione ambientale non interessa soltanto i cosiddetti paesi in via di sviluppo, dal momento che neanche l’Europa e il Mediterraneo sono al sicuro: 30 milioni di ettari di terra che si affaccia sul Mediterraneo manifestano già i sintomi della desertificazione, mettendo a rischio ben 6,5 milioni di persone. Un quinto della Spagna è soggetta al medesimo fenomeno, così come parte del Portogallo. E ancora, Marocco, Libia e Tunisia perdono annualmente mille chilometri quadrati di terre produttive. In Egitto le terre irrigate sono state dimezzate. Per quanto riguarda invece l’Italia, lo studio stima che a causa del riscaldamento globale saranno sommersi all’incirca 4.500 chilometri quadrati del territorio nazionale, soprattutto al Sud.
L’intero scenario costringerà le Agenzie umanitarie a pensare provvedimenti mai adottati prima, a partire da un potenziamento delle riserve di emergenza fino a 10 o 20 volte. Al di là delle prospettive future, gli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici sono già una drammatica realtà in molti paesi, che hanno pagato un prezzo alto per vittime e sfollati. In 350.000 sono stati colpiti in Namibia dalla recente inondazione dovuta alle piogge torrenziali iniziate dal mese di gennaio scorso.
Il 50% delle strade e il 63% dei raccolti è a rischio, con anche gravi danni all’economia e per la sussistenza: secondo l’Onu 544.000 persone potrebbero confrontarsi con un’insufficienza di cibo tra il 2009 e il 2010. In Angola non va meglio: 160.000 persone hanno subito inondazioni, ma è un numero che potrebbe ancora crescere. E ancora, in Myanmar (ex Birmania) il ciclone Nargis a maggio 2008 ha fatto 140.000 vittime, colpendo anche altri 2-3 milioni di persone e costringendo 800.000 persone a sfollare.
Nonostante lo scenario di devastazione, la situazione dei profughi ambientali non ha trovato finora molta attenzione a livello internazionale. Non è riconosciuto, ad esempio, lo status di “profugo ambientale”, come invece per i profughi politici. Maurizio Gubbiotti coordinatore della segreteria nazionale e direttore del Dipartimento internazionale di Legambiente, tiene a sottolineare che «per decenni la questione dei profughi è stata affrontata solo in relazione ai conflitti, anche se il sorpasso numerico registrato nel 2007-2008 ha di fatto attirato l"attenzione internazionale sul problema, che non è di minore rilevanza rispetto a quello delle guerre. Ora dobbiamo invertire questa tendenza». E per farlo serve, secondo Gubbiotti, «una politica energetica che metta in discussione la dipendenza da petrolio e carbone da parte dell’Occidente promuovendo le energie alternative. Si può inoltre intervenire a livello mondiale perché nel futuro del Protocollo di Kyoto ci siano investimenti non solo nelle buone prassi, ma anche per progetti che consentano di dare spazio a un’agricoltura all’insegna della sovranità alimentare». A questo punto i paesi occidentali non possono più far finta di non vedere dove si è arrivati: «Il problema parte certamente da noi, dalle nostre politiche energetiche attuate che si ripercuotono anche sui paesi in via di sviluppo che scontano le nostre pratiche non sostenibili».