Il mestiere della pace
Si chiama peace-keeping e significa soluzione pacifica dei conflitti. Sta diventando un mestiere. Che richiede formazione e competenze. I primi passi dell'Università, le grandi attenzioni dei militari.
Nel Nord del mondo (USA, UK, Svezia. Norvegia, ecc.) c'è una tradizione di vari decenni di studi per la pace all'università, cattedre di Ricerche per la Pace, istituti di Ricerche per la Pace. E poi corsi di laurea, tra i quali ricordo come uno dei più importanti quello di Bradford (UK). Oggi nel mondo intero (Filippine, Hawaii, ecc.) sono molti i corsi d'insegnamento su pace, diritto internazionale e diritti umani, problemi globali, ecologia, nonviolenza, ecc..
Le scuole dei militari
Invece in Italia c'è stata una sordità a questi temi (mai rotta dalle molte università cattoliche). Oggi c'è un conflitto sulla educazione e formazione accademica sulla Pace. I militari hanno istituito dal 1995 corsi di laurea interni alla varie Accademie e Scuole superiori militari (con la seduta di laurea che si fa all'Università, per equiparare il titolo a quella civile); affinché, come dice l'accordo dell'Accademia Aeronautica con l'Università di Napoli, nella società civile i cadetti abbiano una posizione di comando. In più da un anno tutti i big militari sono glorificati dalla stampa come laureati in scienze strategiche (Università di Modena e di Torino).
Inoltre i militari hanno iniziato a invadere la formazione al peace-keeping. A Stadtschlaining in Austria dal 1990 c'è un corso di peace-keeping che è stato organizzato da un ex ambasciatore convertito alla Pace, un esempio per il mondo sia per insegnamento ben direzionato, sia per i temi di pace e nonviolenza. Invece in Italia dal 1995 è stato il Centro Militare Studi Strategici a promuovere con la Scuola S. Anna (che non ha nulla di religioso, è il vecchio nome di un convento-collegio) un corso post-laurea su questo argomento (al costo di svariati milioni per il frequentante). Il corso, essendo il primo in Italia, ha ricevuto molte domande. Inoltre i militari hanno aperto altri corsi di peace-keeping: la Scuola di Guerra di Civitavecchia all'Università Roma 3, dov'è professore A. Riccardi, famoso in tutto il mondo in quanto autore degli accordi della Comunità S. Egidio in Mozambico.
La parola pace nell'accademia
Di fronte a ciò, che cosa possiamo mettere in gioco noi per la pace e la nonviolenza? Tre Centri Interdipartimentali per la Pace, a Bologna, Bari e Pisa, condizionati da influenze politiche e soprattutto utili solo a collegare informalmente i professori della stessa Università, fare qualche convegno, ricerca, iniziativa. Inoltre il prof. Papisca dal 1989 ha istituito una scuola di Perfezionamento in diritti umani e dei popoli (lunga tre anni) e dal 1998 un corso (assieme a dodici università europee) sul monitoraggio ONU (focalizzato sui diritti e non sulla pace e tanto meno sulla nonviolenza). L'Università della pace di Rovereto svolge annualmente corsi su materie molto interessanti, ma è privata e quindi non dà titoli accademici validi.
Spicca l'assenza delle Università pontificie e degli istituti superiori religiosi sul tema pace. Tra i francescani la richiesta della Commissione Justitia et Pax di attivare un corso nella loro Università a Roma è stata respinta.
Ma, grazie all'autonomia universitaria ogni Università può interpretare quel titolo come vuole. Il prof. L'Abate a Firenze ha costruito un corso di laurea su Operatori di Pace e a Pisa altri (tra cui R. Altieri) un corso di laurea in Scienze per la Pace. Sono due sui ventuno corsi istituiti in quella classe di laurea in Italia (in più a Siena c'è un corso sulla mediazione dei conflitti). La regione Toscana quest'anno ha costituito un polo delle tre Università più il S. Anna per valorizzare questo tipo di studi.
Molti si sono iscritti con entusiasmo (più numerosi che a Scienze Politiche). Le materie sono in gran parte le solite, con l'aggiunta di alcune qualificanti: a Firenze, Sociologia dei conflitti e ricerca per la Pace (L'Abate), Teoria dei conflitti (Scotto), Storia e tecniche della nonviolenza (Drago); a Pisa, Metodi e tecniche della Nonviolenza (Altieri) e Strategie della Difesa popolare nonviolenta (Drago). Già ci sono i primi laureati; e quest'anno a Pisa comincerà anche il corso "+2" di perfezionamento, svolto anche per Firenze. Gli sbocchi professionali sono pochi e tanti, a seconda di come si riuscirà a premere sul mercato del lavoro; di certo c'è molto lavoro internazionale da fare. Nei concorsi questo titolo di studio è equiparato a quello di Scienze Politiche.
Dalla formazione professionale all'Europa
Il Centro Studi Difesa Civile (Tullio, Scotto e altri) ha iniziato (prima con Bolzano e poi con altre Regioni Piemonte, Campania, ecc.) a organizzare corsi professionali di peace-keeping, perché è una professione come altre. Il corso è di 800 ore e per di più i frequentanti sono pagati, così come avviene per i corsi professionali regionali.
Infine, con la nascita del servizio civile gli obiettori di coscienza hanno avuto la possibilità di seguire corsi di formazione (soprattutto nella Caritas, nei Salesiani e nel Mir). Ora il servizio civile delle ragazze (30.000) ha creato la necessità della formazione (almeno un centinaio di formatori a pieno tempo). Dal 1990 la Campagna aveva fatto tutto un lavoro preparatorio su questo tema, ma ora la formazione è stata affidata agli Enti stessi.
Nel frattempo in Europa è arrivato (dal tempo della guerra nel Kossovo) il compromesso degli Istituti di Ricerca per la Pace con i governi finanziatori; per cui ora non si sa più da che parte stiano questi Istituti esteri.
Il sogno di corpi europei di pace, in memoria di una proposta dell'eurodeputato A. Langer, è distante forse più di prima, perché l'Europa non ha nessuna legislazione favorevole alla pace (neanche un art. 11 della Costituzione, né la equivalenza tra servizio civile e servizio militare). Quindi se anche l'Europa istituisse questo corpo lo legherebbe alle dipendenze dei militari.
In definitiva il lavoro per la pace (e in particolare quello degli obiettori al militare e degli obiettori alle spese militari) ha creato la necessità di disegnare delle professioni nuove. Ma la situazione resta selvaggia a causa della mancanza di una normativa. I militari tendono a invadere tutto quello che possono. Non è così che potrà crescere una nuova competenza nella soluzione pacifiche ai conflitti.
Per approfondire
- AA VV, Guerre che ho visto, Supplemento al n.43 di I Quaderni di Via Dogana, maggio 1999, libreria delle donne di Milano; - A. Michel, La donna a repentaglio nel sistema di guerra, in "Bozze" X, 1987; - B. Reardon, Militarismo e sessismo, Torino 1984, Quaderni degli insegnanti nonviolenti n.10; - D. Bergant, L'esodo come paradigma nella teologia femminista, in "Concilium" XXIII 1987; - E. Doni, C. Valentini, Lo stupro etnico. Voci di donne della Bosnia, ed. La luna, Palermo 1993; - E. Schussler Fiorenza, Per le donne nei mondi degli uomini: una teologia femminista - critica della liberazione, in "Concilium" XX, 1984; - H. Meyer-Wilmes, Sulla molta violenza contro le donne, in "Concilium" XXXIII, 1997; - M. Grey, La religione e il superamento della violenza contro le donne, in "Concilium" XXXIII, 1997; - M. Lanfranco, M.G. Di Rienzo, Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, edizioni Intra moenia, Napoli 2003. |